* * *
“Da oltre mezzo secolo, ogni giorno, da quel 2 novembre 1946 in cui celebrai la mia prima Messa nella cripta di San Leonardo nella cattedrale del Wawel a Cracovia, i miei occhi si sono raccolti sull’ostia e sul calice in cui il tempo e lo spazio si sono in qualche modo ‘contratti’ e il dramma del Golgota si è ripresentato al vivo, svelando la sua misteriosa ‘contemporaneità’. Ogni giorno la mia fede ha potuto riconoscere nel pane e nel vino consacrati il divino Viandante che un giorno si mise a fianco dei due discepoli di Emmaus per aprire loro gli occhi alla luce e il cuore alla speranza” (Ecclesia de Eucharistia, n. 59). Queste parole, nutrite da una fede innamorata, sono la testimonianza personalissima che il beato Giovanni Paolo II volle consegnare a uno dei Suoi ultimi testi (l’Enciclica è del 2003): esse ci indicano come e dove egli abbia imparato a usare i suoi occhi per vedere l’invisibile, a far battere il suo cuore all’unisono con quello dell’amore divino, a fare della sua bocca veicolo di verità, a usare le sue mani per compiere opere di pace e a muovere i suoi piedi per portare dovunque la buona notizia, fino agli estremi confini della terra. In queste poche parole, la celebrazione eucaristica è insomma presentata come la fonte e il culmine dell’intera esistenza di un uomo totalmente consacrato a Dio, capace di fare della sua stessa vita la liturgia di una continua consacrazione del mondo all’Eterno e alla Sua bellezza.
Che nell’eucaristia sia in gioco la bellezza di Dio e della vita a Lui donata ci aiuta a comprenderlo San Tommaso d’Aquino, che nella Summa Theologica (I q. 39 a. 8 c) presenta in maniera speculativa il significato propriamente teologico della bellezza. Parlando del Figlio eterno Tommaso coglie nel bello l’offrirsi del Tutto nel frammento. La bellezza – afferma – si fa presente lì dove la “perfectio” o “integritas” si affaccia nella parte: ciò avviene o mediante la proporzione della forma, capace di riprodurre nel piccolo l’armonia dell’intero (perciò “formosus” è il bello!), o attraverso lo splendore, per via di uno sfolgorio, in cui s’incontrano rapimento e irruzione. Nel primo caso, il Tutto dimora nel frammento in quanto questo si pone come corrispondenza del finito all’infinito grazie alla riproduzione analogica dei rapporti armonici fra le parti; nel secondo, il Tutto vi si affaccia come movimento che sorge dall’intimo e schiude una finestra verso l’illimitato, sì che il minimo appaia come “kenosi” e “abbreviazione” dell’eternità nel tempo, dell’infinito nel finito. Qui l’anima greca – per la quale il bello è “forma”, riproduzione mondana dei “numeri del cielo” – s’incontra con la novità cristiana – che contempla il bello nel più bello dei figli degli uomini, davanti a cui però ci si copre la faccia (si comprende, così, in chiave cristologica come “bello” derivi dal medioevale “bonicellum”, e stia a dire il “bonum parvum, abbreviatum”, l’infinito bene contratto nel finito, com’è appunto avvenuto nell’incarnazione del Verbo). Qui il cristianesimo assume e tradisce Atene, perché – mentre aspira anch’esso a contemplare il Tutto nel frammento – confessa che l’evento della bellezza si è compiuto una volta per sempre nel giardino fuori di Gerusalemme.
Sulla roccia del Calvario sta la Croce della Bellezza: il Verbo si dice in questo mondo per via della “kenosi” suprema, grazie all’atto per il quale – in nulla costretto dall’infinitamente grande – il Figlio si è lasciato contenere dall’infinitamente piccolo. Veramente divino è questo contrarsi: «Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est» (Elogium sepulcrale S. Ignatii)! Questa estasi del divino è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire all’estasi dal mondo, a quel trasgredire verso il mistero accogliente che è il rapimento della bellezza che salva, reso possibile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il “Verbum abbreviatum” – “kenosi” del Verbo eterno – rivela la Bellezza che salva! E poiché è l’Ultima Cena il luogo in cui, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1), è in essa che si offre a noi la bellezza di Colui che è il “bel Pastore”, che dà la vita per le sue pecore (Gv 10,11). Nella celebrazione del memoriale eucaristico il Tutto di Colui che è in persona l’Amore crocifisso e risorto viene a farsi presente nel frammento dei segni, il pane spezzato, il vino versato: perciò l’eucaristia è per eccellenza l’evento della bellezza che salva, il rendersi presente dell’eternità nel tempo, dell’amore Trinità nella storia e nelle storie degli uomini. In continuità con la tradizione ebraica della benedizione (berakah), che Gesù ha fatto propria, la Cena del Signore è azione di grazie al Padre, memoriale del Figlio, invocazione dello Spirito: proprio così, facendo partecipi della divina bellezza coloro che vivono la sinassi, la Cena del Signore contagia la bellezza infinita, suscitando in chi la vive ringraziamento, adorazione e offerta, educando a relazionare tutto a Dio come alla prima sorgente ed all’ultima patria e ad aprirsi all’accoglienza del dono, che da Lui solo viene. Questo stile di gratitudine e di meraviglia ci libera dalla prigionia di noi stessi e ci schiude alle sorprese della Bellezza eterna: proprio così, l’eucaristia si lascia comprendere come la fonte e il culmine della vita consacrata, l’evento di grazia dove essa continuamente si esprime e si rigenera nella forza del dono dall’alto.
1. L’eucaristia “memoriale pasquale” e il primato della dimensione contemplativa della vita: fedeli al cielo e alla terra, coniugando le due fedeltà
In obbedienza al comando del suo Signore, nell’eucaristia la Chiesa fa “memoria” di Lui (cf. Lc 22,19 e 1 Cor ll,24s): in senso biblico il “memoriale” non è il semplice ricordo di un evento passato, paragonabile alla categoria occidentale di “memoria” che connota un movimento puramente ideale dal presente al passato, per una sorta di dilatazione della mente (“extensio animi ad praeterita”): i termini ebraici zikkaron, azkarah, che il greco traduce con anàmnesis, mnemòsynon, indicano esattamente il movimento contrario, esprimendo il farsi contemporaneo dell’evento salvifico passato per un azione della potenza divina attualizzatrice: il “già” della “historia salutis” si ripresenta nella celebrazione del popolo di Dio pellegrino nel tempo. Questa azione della potenza divina è chiarita dall’insieme della rivelazione neotestamentaria ed è stata sempre compresa dalla fede della Chiesa come opera dello Spirito Santo, che attualizza nella storia la Pasqua riconciliatrice del Cristo. In tal senso, il memoriale che la Chiesa celebra nell’eucaristia è ripresentazione dell’evento trinitario della nostra salvezza: invocando il Padre “veramente santo e fonte di ogni santità” perché mandi lo Spirito sui doni del pane e del vino e renda presente in essi sacramentalmente il Cristo”passus et glorificatus” (epiclesi consacratoria e memoriale della Cena del Signore), la Chiesa sa di venire edificata in “un solo corpo e un solo spirito” (epiclesi fruttificante). Il “memoriale”dell’antica alleanza (cf. Es12,14 e Lv 2,2) cede il posto al “memoriale” della nuova ed eterna alleanza, “sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, ‘nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura’” (Sacrosanctum Concilium 47). Nell’eucaristia la Chiesa celebra così la memoria potente della sua origine, dell’iniziativa trinitaria dell’amore, che l’ha posta nel tempo come segno e strumento di unità per tutto il genere umano. L’eucaristia si config
ura perciò come la parabola viva dell’intera storia della salvezza, e perciò della donazione mediante cui il Tutto divino si offre nel frammento del tempo e la bellezza eterna si “abbrevia” per donarsi al mondo. Vivere pienamente il memoriale eucaristico significa allora fare dell’incontro col Signore Gesù la sorgente della bellezza di tutta la vita, specialmente della vita consacrata. Come?
a) Nella celebrazione del memoriale il ministro ordinato ha il ruolo che aveva il capofamiglia nel banchetto pasquale d’Israele, il ruolo che ebbe Gesù stesso durante la sua ultima Cena: la continuità ininterrotta della successione apostolica, nella quale si è inseriti attraverso l’ordinazione, lega il sacerdote all’unico sommo ed eterno Sacerdote, che nella sera della Cena confidò ai suoi apostoli e in loro ai loro successori il mandato di celebrare l’eucaristia per la salvezza del mondo. È questa radicazione apostolica che fa del ministro ordinato l’“alter Christus”, colui che agisce “in persona Christi” (cf. Lumen Gentium 28). La presidenza nella celebrazione del memoriale eucaristico non è allora semplicemente “funzionale”, ma si radica in una realtà ontologica, nel mistero della configurazione sacramentale dell’ordinato al “bel Pastore”, Cristo sacerdote, “in modo che egli possa agire in persona di Cristo capo” del corpo ecclesiale (Presbyterorum Ordinis 2). Perciò il presbitero è chiamato dalla sua condizione di presidente dell’eucaristia a porsi per primo e in maniera esemplare nell’attitudine recettiva del dono di Dio, attraverso lo spirito di azione di grazie e la profondità contemplativa della vita: la configurazione sacramentale che lo unisce al Cristo, che si lascia consegnare sulla Croce e accoglie la pienezza dello Spirito di santificazione nell’ora pasquale (cf. Rom 1,4), esige sul piano esistenziale la disponibilità a lasciarsi amare dal Padre, a lasciarsi lavorare dal Suo Spirito creatore. “Presiedere” è in questo senso soprattutto ‘‘ricevere”: prima che un agire, la presidenza eucaristica è per il sacerdote un lasciarsi agire, un accettare di essere gestito da un Altro, il Signore della sua vita e della storia.
Quello che vale per colui che agisce “in persona Christi”, vale analogamente per l’intera comunità celebrante e in modo peculiare per chi in essa è consacrato a Dio: come il Figlio è l’eterno Amato, in cui si manifesta quanto anche il ricevere sia divino, così nell’eucaristia il battezzato scopre sempre di nuovo di essere l’amato, il ricevente, il chiamato ad accogliere il dono. Per corrispondere a questa condizione, occorre farsi silenzio di ascolto e gratitudine di risposta, esperti della bellezza dell’amore crocifisso e risorto che è offerto a loro e tramite loro al mondo. Ogni battezzato è dunque chiamato in forza del sacerdozio comune esercitato nell’eucaristia a vivere il primato della dimensione contemplativa della vita dinanzi al dono di Dio: questo vale in modo singolare per la persona consacrata, chiamata a radicalizzare la vocazione battesimale ed eucaristica, impegnandosi in un certo senso a ricevere continuamente sul piano esistenziale ciò che è divenuto col sacramento della vita nuova e la sua consacrazione a Dio. È qui che si radica la vocazione del cristiano – e del consacrato in specie – a essere fedele al cielo, maestro di preghiera, esperto nell’ascolto e nell’accoglienza dei doni dello Spirito, creatura eucaristica nella totalità del suo essere e del suo agire, cifra della grazia da cui nasce la Chiesa, popolo totalmente “oriens ex alto”, a somiglianza del suo unico Signore. Precisamente in questa attitudine recettiva del dono, il consacrato è chiamato a essere nei frammenti del tempo il testimone dell’infinita bellezza di Dio, sorgente d’ogni bellezza.
b) Per la stessa configurazione sacramentale a Cristo, che nulla elimina della sua piena e vera umanità, il battezzato è in persona la cifra della commistione profonda di umano e divino che costituisce la Chiesa: nella fede egli è impegnato a discernere e valorizzare in se stesso il dono divino, tendendo a corrispondervi sempre più nella fragilità della sua condizione umana e a discernere e valorizzare, nella complessità dell’esperienza mondana in cui si costruisce la Chiesa, gli elementi in cui si offre il dono dall’alto. È qui che si fonda il compito del cristiano – e del consacrato in particolare al servizio di tutti – di discernere i segni di Dio nella vita della comunità ecclesiale, generata ed espressa dal sacramento eucaristico. Il discepolo del Signore Gesù deve essere l’esperto delle cose di Dio, ricco di quella sapienza spirituale, che lo renda atto a cogliere nella complessità del cuore dell’uomo e della storia le impronte della divina presenza e le sorprendenti meraviglie della bellezza dell’Altissimo, spesso nascoste “sub contraria specie”. Questa sapienza delle cose spirituali, quest’attitudine alla “discretio spirituum” vissuta nella fedeltà alla terra, fanno parte dello stesso mistero dell’esistenza redenta, in quanto esistenza sacramentalmente configurata al Signore Gesù, ed in modo peculiare dell’esistenza del consacrato che della “sequela Christi” ha fatto la ragione esclusiva e determinante della sua vita.
c) “Esistenza accolta” nel riconoscimento del dono di Dio, il sacerdozio battesimale è non di meno “esistenza donata”: la celebrazione dell’eucaristia costituisce il discepolo nella stessa condizione di servizio in cui si è posto il Signore Gesù nell’ultima cena. I richiami vetero-testamentari dei racconti dell’istituzione concordano nel delineare la figura del Cristo come quella del Servo. I Carmi del Servo sofferente del Deutero-Isaia lasciano intravedere la conclusione di un’alleanza (cf. Is 42,6; 49,8) nuova (cf. 42,9), che si farà nella persona stessa del Servo (cf. 42,6; 49,8), e, mentre evocano l’immagine sacrificale dell’agnello (cf. 53, 7), insegnano anche l’espiazione dei peccati mediante sostituzione di una vittima innocente (cf. 53,10-12). Le influenze della figura del Servo sofferente sul quadro dell’Ultima Cena sono evidenti: esse vengono peraltro confermate dall’evangelista Luca, che riferisce nel contesto della Cena i due detti sul servizio di coloro che hanno autorità (Lc 22,24-27), e da Giovanni, che vede nella lavanda dei piedi l’espressione perfetta del senso interiore dell’eucaristia, di cui egli non parla (cf. Gv 13,1-20). Il legame fra il Servo e la Cena non è dunque accidentale, ma fa parte del senso stesso del memoriale eucaristico. La Chiesa, che da questo memoriale è generata ed espressa, deve comunicare alla sorte del Servo, diventando essa stessa serva: mangiando il corpo donato deve diventare, per la forza che esso le comunica, corpo ecclesiale donato, corpo per gli altri, corpo offerto per le moltitudini.
Nel memoriale eucaristico la Chiesa nasce dunque come popolo servo, comunità di servizio: a partire dall’eucaristia la condizione del cristiano, e del conbsacrato in modo peculiare, appare veramente caratterizzata dalla vocazione al servizio e al dono di sé fino alla fine, in cui si attualizza la bellezza dell’“agape” crocifissa del Pastore bello, che dona la vita per le sue pecore. Celebrare la Cena del Signore vuol dire specialmente per la persona consacrata impegnare la propria esistenza perché lo spirito di donazione e di servizio cresca in tutta la comunità ecclesiale, irradiando con la vita e specialmente con la carità la bellezza del Cristo. Questo servizio, modellato sul sacrificio della Croce, di cui l’eucaristia è ripresentazione sacramentale, fa dell’esistenza redenta un’autentica “proesistenza”, un esistere per gli altri, totalmente ricevendosi da Dio e totalmente offrendosi, nella configurazione all’unico e perfetto riceversi dal Padre e donarsi agli uomini, che è il sacrificio pasquale del Figlio eterno. È nella verità di questo amare “fino alla fine” che lo spessore della Croce viene inevitabil
mente a visitare e segnare l’esistenza di chi – come il consacrato – è chiamato a unirsi con la vita alle parole del Signore Gesù: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi – Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. La ripresentazione sacramentale del sacrificio non può non estendersi dalla celebrazione alla totalità della vita di chi offre il sacrificio offrendosi in sacrificio: e questo particolarmente in chi – come la persona consacrata – ha fatto di Dio la ragione unica della propria esistenza. La bellezza che salva si fa eloquente specialmente nel dono della vita quotidianamente offerta per amore, fino alla fine…
2. L’eucaristia “convito sacrificale” e la “communio”: uniti a Cristo, in comunione fraterna nella Chiesa e per il mondo
Il memoriale eucaristico è indissolubilmente congiunto al banchetto, sin dall’atto della sua istituzione da parte del Signore. La Chiesa nascente testimonia di aver percepito chiaramente questa inseparabile unità: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Cor 11,26). Già sul piano dei segni il pane della Cena è il pane della fraternità, come il calice di vino esprime la condivisione della stessa sorte: nella tradizione ebraica la comunità conviviale è comunione di vita, e il calice è l’immagine della sorte dolorosa di un uomo. La frazione del pane, con la distribuzione di un pezzetto a ciascuno, e la partecipazione allo stesso calice di vino sono segno di una profonda solidarietà nella comunanza di sorte. Gesù lega così esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia al banchetto della fraternità: Egli non sceglie come segno del suo dono sacrificale un pane e un vino qualunque, ma il pane e il calice della fraternità e della condivisione. Il memoriale pasquale risulta ecclesiale nel suo stesso segno e per suo mezzo. Ne consegue che la celebrazione della memoria del Signore esige e fonda la comunione dei convitati a Cristo e fra di loro: la comunione ai santi doni (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale neutro) produce la comunione dei santi (“communio sanctorum” nel senso del genitivo plurale personale). L’esistenza redenta è nella comunione e per la comunione, comunionale nella sua stessa vocazione e missione.
a) La radice profonda del carattere comunionale della vita cristiana sta nella configurazione a Cristo, Capo del Corpo ecclesiale: come il Capo fa l’unità delle membra, così il sacerdozio battesimale si offre come mistero di unità. La “relazione di origine”, che radica il sacerdozio battesimale nell’unico e sommo Sacerdote della nuova alleanza, Capo del Corpo, che è la Chiesa, fonda al tempo stesso la “relazione di comunione” del discepolo nei confronti dell’intero popolo di Dio, e la “relazione di missione”, rivolta alla Chiesa e al mondo. In Cristo, cui è sacramentalmente configurato, il discepolo è uno con tutti coloro che come lui hanno ricevuto la grazia della vita dall’alto, uno nel servizio con l’intero corpo ecclesiale del Signore. Questo vale in modo specifico per la persona consacrata: quanto più tradurrà sul piano esistenziale il suo rapporto a Cristo nella “imitatio”, che è l’“apostolica vivendi forma”, tanto più esprimerà nella vita la sua comunione con la fraternità dei consacrati, col Vescovo e con l’intero popolo di Dio, e ne testimonierà la bellezza. Chi – come il consacrato – è stato chiamato a radicalizzare il dono del battesimo, è chiamato a essere con la sua vita di comunione fraterna segno e profezia per tutti del dono dell’unità in Cristo! Il consacrato è solo con Dio per essere in comunione con tutti e servire la “communio” nel suo respiro più ampio e cattolico! Qui si comprende perché l’eucaristia fa della persona consacrata un servitore appassionato della causa ecumenica!
b) La “relazione di comunione”, radicata in quella di origine, si esprime nel rapporto col Vescovo, con la Chiesa locale e con la “Catholica”, presieduta e significata dal Vescovo della Chiesa che presiede nell’amore: questa comunione, proprio perché radicata nella comune partecipazione al mistero del Cristo, trova nella celebrazione liturgica la sua più alta manifestazione. Anche qui la corrispondenza esistenziale della realtà misterica esige in ogni cristiano – e specialmente nel consacrato – un atteggiamento di umiltà, docilità, accoglienza, che traduca la comunione effettiva coi Pastori in comunione affettiva, e quindi in reale corresponsabilità e collaborazione pastorale nella Chiesa locale: questa comunione – per quanto possa essere a volte sofferta – è il segno della bellezza di Dio che unisce i cuori di quanti ne hanno fatto profonda esperienza. Il consacrato vive la sua missione per e con la Chiesa locale in cui è vitalmente inserito, nell’apertura costante appa pienezza della “communio catholica”.
c) Radicato nel mistero di Cristo in comunione con i Pastori, in modo speciale a partire dall’eucaristia “sacramentum unitatis”, il consacrato è chiamato a vivere la comunione e la missione nei confronti di tutti e di ciascuno di quanti formano il popolo di Dio, in primo luogo di quanti condividono con lui consacrazione e missione: anche qui la celebrazione eucaristica visibilizza e fonda al tempo stesso questo compito. La centralità dell’eucaristia nella vita consacrata si esprime nel modo più alto nell’unità vissuta fra mistero proclamato, celebrato e vissuto: nella sinassi eucaristica tutti i battezzati proclamano il mistero di Cristo e uniscono al sacrificio del Capo la loro offerta, i consacrati lo fanno come specifico compito della loro vocazione al servizio dell’unità di tutta la Chiesa. Nel mistero eucaristico Parola e Sacramento vengono così a rapportarsi densamente in ordine all’edificazione del Corpo ecclesiale di Cristo: questo rapporto è significato e fondato nell’unità delle due mense (della Parola e del Pane), che si attua nella celebrazione eucaristica, e di cui si nutre e vive ogni esistenza battesimale, ed in particolare – nell’assidua fedeltà – la vita consacrata.
Nell’eucaristia, dunque, non solo è data la massima attuazione del ministero profetico e di quello liturgico della vocazione battesimale, ma è anche manifestata e per certi aspetti fondata la responsabilità pastorale e missionaria del consacrato: il sacerdozio battesimale, strettamente compreso nel suo costitutivo e specifico rapporto con il convito eucaristico, è tutt’altro che unicamente cultuale. Esso abbraccia la totalità del mistero proclamato, celebrato e vissuto, e si situa in essa nel ruolo proprio e specifico connesso ai carismi ricevuti da ciascuno, fondati nella diversa configurazione e ripresentazione sacramentale del Cristo. La corrispondenza esistenziale di questo compito sacramentalmente fondato esige nella persona consacrata capacità profonda di ascolto dello Spirito, esperienza profonda e costante della preghiera e dell’incontro con gli altri, e una condizione di povertà evangelica, che la renda libera e disposta a discernere e valorizzare il dono di Dio, dovunque esso si faccia presente. È per questo che il servizio alla comunione esige nel consacrato capacità di comunione con tutti: il suo “essere per” ha bisogno del suo saper “essere con”; la sua vocazione, radicata in quella del Cristo Servo, è veramente al servizio, “appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Così la persona consacrata dimostra che il Cristo che annuncia e fa presente nel suo servizio agli altri, non solo è verità e giustizia, ma è anche bellezza, capace di dare bellezza alla vita di ciascuno e di tutti nell’unica bellezza di Dio.
3. L’eucaristia “pegno della gloria futura” e la perenne riforma nella speranza: in continua novità di vita, vigil
i e testimoni luminosi della speranza che non delude
Nell’ultima Cena il Signore Gesù annuncia che non berrà più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrà nuovo con i suoi nel Regno del Padre suo (cf. Mt 26,29; Mc 14,25), finché cioè il Regno non venga (cf. Lc 22,18). Mangiando il pane e bevendo al calice dell’eucaristia i credenti annunzieranno la morte del Signore fino al Suo ritorno (cf. 1 Cor 11,26). Il banchetto della nuova Pasqua rimanda dunque a un altro banchetto, quello definitivo del Regno, di cui è anticipazione e promessa, e verso il quale fa lievitare la storia. Il memoriale, che Gesù confida ai Suoi Apostoli, è eucaristia di speranza, apertura al futuro della promessa di Dio. L’eucaristia, sacramento della Chiesa, ne rivela densamente l’indole escatologica: nell’evento eucaristico il “già” è presente in pienezza per far crescere i credenti verso il “non ancora”. Nell’evento eucaristico, anzi, il “non ancora” della gloria diventa sempre più il “già” della storia: l’eucaristia è perciò veramente il sacramento della speranza ecclesiale, convito pasquale, “nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolma di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura” (Sacrosanctum Concilium 47) Al tempo stesso, mentre fa presente il Cristo glorioso e fa crescere il “già” verso il “non ancora”, l’eucaristia porta i segni del “frattempo”: il sacramento è destinato a scomparire nella pienezza della Gloria, il frammento che nasconde a cedere il posto alla manifestazione del Tutto, quando quel che qui celebriamo sotto i veli dei segni, sarà finalmente manifesto. Nel “frattempo” il sacrificio eucaristico “viene offerto… fino al giorno della venuta del Signore” (Presbyterorum Ordinis 2). In questa offerta è l’intero creato che trova il pegno della sua finale trasformazione: lo Spirito opera nella storia e la proietta verso il futuro in cui “l’umanità stessa diventerà oblazione accetta a Dio. Un pegno di questa speranza e un viatico per il cammino il Signore lo ha lasciato ai suoi in quel sacramento della fede nel quale degli elementi naturali coltivati dall’uomo vengono trasformati nel corpo e nel sangue glorioso di Lui, come banchetto di comunione fraterna e pregustazione del convito del cielo” (Gaudium et Spes 38). L’eucaristia è, in tal senso, il sacramento della speranza del mondo, la promessa e l’anticipazione della bellezza senza tramonto!
Quali conseguenze comporta per la configurazione teologica e spirituale del sacerdozio battesimale e della sua radicalizzazione nella vita consacrata il ruolo attivo e diversificato cui ciascuno è chiamato nella celebrazione dell’eucaristia “pegno della gloria futura”?
a) In quanto il banchetto eucaristico fa lievitare il “già” verso il “non ancora”, esso comporta in chi lo celebra una ineliminabile esigenza di continua purificazione e incessante rinnovamento: il continuo nutrirsi del “pane dei pellegrini” stimola il battezzato a vivere in costante riforma, a non fermarsi mai nella seduzione del compimento e del possesso. E quanto egli vive in prima persona è chiamato a testimoniarlo e a insegnarlo a tutto il popolo dei pellegrini di Dio: la celebrazione dell’eucaristia fa del cristiano – e specificatamente del consacrato nella fedeltà alla vocazione ricevuta – il testimone della perenne conversione e riforma della comunità ecclesiale, la “cifra” del futuro promesso, che richiede di essere perseguito con incessante cammino. “Non est status in via Dei: immo mora peccatum est” (S. Bernardo). In questo compito il discepolo – specialmente la persona consacrata – non dovrà temere di farsi voce scomoda e inquietante, sentinella dell’avvenire di Dio, che l’eucaristia anticipa ed annuncia e che turba ogni falsa sicurezza e ogni presunzione tranquillizzante: “Amaritudo Ecclesiae sub tyrannis est amara; sub haereticis est amarior; sed in pace est amarissima” (Id., Sermones super Cantica Canticorum 33,16: PL 183,959). “L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata dai tiranni; è più amara quando la Chiesa è divisa a causa degli eretici; ma raggiunge il suo culmine quando la Chiesa se ne sta tranquilla in pace”. Il “donec veniat” della celebrazione eucaristica spinge il credente a relativizzare ogni compimento, misurandolo sull’ultimo e definitivo compimento, di cui il banchetto pasquale è insieme annuncio e anticipazione, e perciò a riconoscere nella povertà la condizione propria dei pellegrini di Dio, della quale la povertà del cristiano – e specialmente la povertà consacrata! – deve essere stimolo e segno. La nostalgia della bellezza ultima, rivelata e promessa in Gesù, dovrà bruciare sempre nel cuore dei redenti, e più ancora nella scelta di povertà dei consacrati!
b) Questa stessa esperienza eucaristica del “già” e del “non ancora” induce il discepolo a relativizzare ogni presunto assoluto mondano: l’eucaristia è, in tal senso, la denuncia di ogni miopia che ponga il “penultimo” al posto che solo all’“ultimo” compete. Celebrare la Cena del Signore esige in tal senso un ruolo di vigilanza critica nei confronti di tutte le grandezze mondane con le quali il popolo di Dio viene a contatto nella sua vicenda storica: ogni identificazione mondana del Regno va smascherata nella sua debolezza; ogni manipolazione della speranza più grande va denunciata e superata. Se non si facesse coscienza evangelicamente critica della comunità ecclesiale in nome della meta ultima, che l’eucaristia anticipa e segnala, il discepolo – e in particolare il consacrato – non darebbe testimonianza del suo essere configurato a Cristo crocifisso e Signore della storia, e la bellezza che annuncia e di cui vive sarebbe confusa con evasione consolatoria o compromesso a buon mercato. Per la medesima ragione la denuncia si deve congiungere all’annuncio: Colui che ha vinto il mondo, e che nell’eucaristia si fa realmente presente nella Sua Chiesa, è il Totalmente Altro che si è fatto totalmente dentro al frammento e vicino alla storia dell’uomo, per trasformarla e condurla alla patria del Dio “tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Celebrare l’eucaristia non significa perciò per il battezzato e in maniera peculiare per la persona consacrata chiamarsi fuori dalla complessità delle situazioni storiche, ma vuol dire in esse e per esse annunciare credibilmente la bellezza del Regno e orientare ad essa il cammino del popolo di Dio.
c) È questa testimonianza della bellezza, che non delude, che viene infine a caratterizzare il consacrato nel suo nutrirsi dell’eucaristia, pane dei pellegrini: in quanto “viatico”, cibo che nutre la fatica del cammino, il banchetto eucaristico sostiene l’esodo del tempo presente e lo illumina delle prospettive aperte dalla promessa di Dio. In esso il “non ancora” si fa presente, sia pure se sotto i segni sacramentali: è questa “res” veramente presente e nascosta, che il cristiano deve annunciare e testimoniare con la sua vita, specie se è consacrato all’Eterno con cuore indiviso. E farà ciò, quanto più configurerà esistenzialmente la sua vita al mistero che celebra: si radica qui la dimensione escatologica dell’esistenza pasquale, e in particolare della vita consacrata, radicata e fondata nella caparra della vita eterna ricevuta nel battesimo. Il pane dei pellegrini nutre nel discepolo la carità che lo fa immagine del Bel Pastore e lo rende testimone credibile e contagioso della speranza che in Lui, il Risorto dai morti, ci è stata manifestata e donata. La santità del battezzato, nutrita dall’eucaristia e vissuta nell’amore a Cristo e al prossimo, è la forma più luminosa e irradiante del suo annuncio delle cose venienti e nuove, anticipate e promesse nel memoriale pasquale del Signore: e questo in modo singolare nell’esistenza di chi, come il consacrato, si fa con tutta la sua vita sentinella del futuro promesso da Dio.