Il perdono vero che salva la vita

Vangelo della XXIV Domenica del Tempo Ordinario

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 9 settembre 2011 (ZENIT.org).- Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presente i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? (Sir 27,30-28,7).

Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava dicendo: “Restituisci quel che devi!”.(…) Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al vostro fratello (Mt 18,21-35).

In questo famoso Vangelo dei “diecimila talenti”, il primo atteggiamento del padrone verso il servo debitore non è la compassione, bensì una fredda giustizia: “Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli..” (Mt 18,25); ma appena il servo si prostra a supplicare, subito il padrone si muove a pietà: “..lo lasciò andare e gli condonò il debito” (Mt 18,27).

L’incredibile di quel che segue dopo, è il fatto che la coscienza del servo non percepisce il parallelo tra il dono di smisurata bontà ricevuto e il compito di usarne almeno un po’ verso il compagno che lo implora con le sue stesse parole.

Questo servo spietato mostra non solo un cuore paurosamente indurito, ma anche totalmente incapace di gratitudine. Riconoscenza e bontà, infatti, stanno insieme come le due facce della medaglia.

Questa esemplare vicenda, da sempre attuale, ci porterebbe a concludere amaramente che gli uomini amano la compassione solo per loro stessi, ma poi: “Si ostinano a fare il male,..tramano delitti, attuano le trame che hanno ordito; l’intimo dell’uomo e il suo cuore: un abisso!” (Salmo 64/63,6-7).

A dire il vero, anche il comportamento del padrone sembra rapidamente mutare; infatti: “Sdegnato,..lo diede in mano agli aguzzini finché non avesse restituito tutto il dovuto” (Mt 18,34). Per quanto “meritata”, la durezza di questa punizione ci sconcerta. La menzione degli “aguzzini”, poi, fa pensare ad una sorta di sadica, irremovibile lezione, assai poco compassionevole; tanto più che Gesù prospetta chiaramente una simile fine anche per noi: “Così il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al vostro fratello” (Mt 18,35).

Sentiamo, a questo punto, il bisogno di una spiegazione esauriente della parabola, che sappia dare ragione di “tutto l’accaduto” (Mt 18,31), in modo da rassicurare il nostro cuore e disporlo ad accogliere la verità del perdono divino.

Vogliamo anzitutto capire cosa c’è dietro la tanto spaventosa quanto assurda durezza del servo. Con tutta probabilità sono vere per lui le parole odierne del Siracide: “Rancore e ira sono cose orribili e il peccatore le porta dentro” (Sir 27,30); e sono vere anche per noi. Lo sperimentiamo tutti: la rinuncia più difficile, e insieme più necessaria, è quella del rancore e del risentimento.

Oggi si vive in uno stato pressoché permanente di protesta, muta o esplicita che sia. Viviamo immersi nell’agiatezza, ma il benessere non ci da pace, tanto che, paradossalmente, quasi niente ci va bene. La continua contraddizione interiore diventa una vera e propria sindrome patologica che affligge l’intera persona, “spirito, anima e corpo” (1 Ts 5,23), e il cui danno peggiore è la perdita della speranza costituita dalla fede.

La cosa assolutamente necessaria è perciò imparare a rinunciare al rancore, impresa non di rado tanto ardua da sembrare umanamente impossibile. La volontà umana, infatti, non è in grado di dominare interiormente il ri-sentimento, e se il tempo ha il potere di rimarginare in superficie la piaga, assai spesso essa permane in profondità, viva e dolorosa, nonostante anni di farmaci e di psicologi.

Torniamo al servo spietato. Non posso affermare per certo che egli covasse rancore verso il padrone, ma è verosimile che il suo debito smisurato, probabilmente causato da inadempienze colpevoli e ricorrenti, lo facesse vivere in uno stato di continua protesta e inimicizia (verso di lui e verso tutti), con la conseguenza di alimentare quell’aggressività omicida che egli sfoga verso il suo compagno debitore, verosimilmente colpevole solo di non avere un soldo: “Lo prese per il collo e lo soffocava..” (Mt 18,28b).

Come non pensare qui alla spaventosa cecità ideologica di chi vede nel più innocente ed indifeso degli esseri umani, il concepito, un “ingiusto aggressore”? Non è forse per un nascosto rancore verso la vita che si giunge in questi casi alla violenza omicida dell’aborto?

Rinunciare al rancore significa rinunciare alla difesa esasperata del proprio io. Ciò conviene infinitamente, poiché il rancore, come l’ulcera non curata, finisce per perforare l’anima facendole perdere la gioia di vivere e la fede nella divina Provvidenza. Infatti, non sono gli altri che ci impediscono di vivere felici, ma il rancore e l’ira che ci portiamo dentro come un tumore maligno dello spirito, un cancro che non è possibile distruggere se non ci si dispone ad accogliere la grazia del perdono sacramentale, affidandoci a quel “bisturi” umano e divino che è il sacerdote confessore.

Ma ora sorge dalla parabola una domanda: è davvero sempre la cosa migliore il perdono illimitato? Ciò non comporta un certo “rischio educativo”?

La difficoltà può essere risolta dal confronto tra il perdono del v. 18,22 e quello del v. 18,35. Nel primo è detto “settanta volte sette”, nel secondo “di cuore”. Due qualifiche diverse (una quantitativa e l’altra qualitativa), ma penso che vogliano dire la stessa cosa. La menzione del “cuore” porta alla coscienza, cioè alle radici dell’atteggiamento che sta alla base dell’atto del perdono.

Con l’impressionante dichiarazione finale, Gesù vuole dirci che il nostro sentire deve essere sempre orientato alla compassione, pronto a mostrare quell’accoglienza amorevole che è sempre dovuta alla per
sona per se stessa, anche se indurita e recidiva nel male. Una cosa poi è l’atteggiamento del cuore, e un’altra è il comportamento concreto più opportuno.

La carità non fa alcun male al prossimo”,affermava Paolo domenica scorsa (Rm 13,10), e non è detto che il perdono esteriore “automatico” configuri sempre questa carità benefica. Sicuramente, invece, è sempre bene nutrire compassione per il fratello che continua a sbagliare, vale a dire “perdonargli di cuore” mentre lo si aiuta fraternamente a correggersi. Come il cuore non cessa mai di battere, così è giusto che la volontà si sforzi sempre di accogliere il fratello che sta sbagliando, ma la modalità concreta più opportuna per aiutarlo dipenderà dalle circostanze particolari.

Dobbiamo in conclusione ammettere che il ripetersi della colpa del fratello verso di noi, mentre sembra suscitare un “giustificato sdegno educativo”, fa emergere in realtà quel peccato di “rancore e ira” che ci portiamo tutti dentro. Ed è proprio per esprimere l’ontologica refrattarietà della Misericordia divina verso queste “cose orribili”, che Gesù alla fine della parabola ci mostra un Padre inesorabile verso i duri di cuore: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al vostro fratello” (Mt 18,35).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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