Alla mensa del Signore (II)

Capolavori dell’arte europea da Raffaello a Tiepolo

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del Rev.do Prof. Salvatore Vitiello*

ROMA, venerdì, 9 settembre 2011 (ZENIT.org).- Gli eventi storici che si sono compiuti a partire dall’Ultima cena si svelano essere una unità metastorica, cronologicamente susseguente, ma inspiegabile separatamente. L’Eucaristia è dunque la riproposizione non solo di ciò che avvenne nel Cenacolo, ma dell’intero Triduo pasquale. Così, attraverso quest’opera conservata a Sanpierdarena (Ge), si comprende con estrema e dirompente veridicità che non esiste reale differenza fra il Sangue fuoriuscito con forza dal santo costato a causa del colpo inferto con la lancia e il vino che il sacerdote ogni giorno consacra nel santo calice durante la Celebrazione eucaristica.

Volendo soffermarsi e riflettere sull’esperienza religiosa di tutti i secoli e di qualsiasi latitudine, si scopre come essa sia sempre stata caratterizzata da un aspetto più o meno velatamente sacrificale. Così, per esempio, «nell’antica Alleanza l’Eucaristia è preannunziata […] e, soprattutto nella cena pasquale annuale, celebrata ogni anno dagli ebrei con i pani azzimi, a ricordo dell’improvvisa e liberatrice partenza dall’Egitto» (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica n.276). Ciò che dunque rende speciale l’azione compiuta da Cristo è quella di aver dato vita ad un nuovo e Santo Sacrificio “della Messa” o “di lode”, “spirituale, puro e santo”. In tale prospettiva, non è più l’uomo a dover sacrificare qualcosa ad un Dio assetato di vendetta, ma è Dio che innalza l’offerta della Chiesa, portando a compimento e superando tutti i sacrifici dell’Antica Alleanza come quelli dei culti pagani.

È un pegno di speranza lasciato dal Signore «viatico per il cammino […] nel quale elementi naturali, coltivati dall’uomo, vengono trasmutati nel Corpo e Sangue glorioso di lui » (cfr GS 38). In esso viene dunque trasfigurata l’umana fatica non perché sia retributiva di un delitto, bensì riparativa di una relazione d’amore spezzata. Ognuno, a seconda delle proprie capacità, può contribuire a realizzare il Santo Sacrificio, come intuitivamente ha saputo tratteggiare Filippo Bellini in una tela della fine del XVI secolo dedicata proprio all’Ultima Cena. Mentre il Signore si trova a mensa con gli Apostoli, tutt’intorno sono dislocati uomini e donne che lavano stoviglie o portano brocche, mentre contemplano quanto sta accadendo o che vigilano perché tutto si svolga nel migliore dei modi, affinché i commensali possano dedicarsi con speciale attenzione a ciò che Cristo sta compiendo.

Ma l’Eucaristia è anche chiamata, soprattutto grazie alla sensibilità della teologia orientale, con il nome di Santa e divina Liturgia. Con tale termine si vuole affermare in modo primario che il centro della liturgia della Chiesa e la sua più densa espressione risiedono nella celebrazione di questo sacramento. Di ciò se ne può fare quasi esperienza diretta sostando, tra le molte opere, di fronte ad un arazzo del 1516 circa, conservato a Camaiore (Lu) e attribuito a Pietro de Pannemaker, avente come tematica l’Ultima cena. La raffinatezza del materiale che impreziosisce tutta la scena, insieme all’accostamento iconografico della lavanda dei piedi, della cena e dell’arresto di Gesù (cfr Gv 13,4ss; Lc 22,14ss; Lc 22,47ss) sembrano quasi disorientare l’occhio dello spettatore che fatica a comprendere il punto esatto nel quale fermare la propria attenzione. E così si comprende con maggiore precisione che santa indica l’abissale alterità esistente rispetto ad ogni altro culto, mentre divina rivela che si tratta di un dono di Dio, verso il quale, del resto, essa è orientata. Ma l’Eucaristia è anzitutto Liturgia, cioè opera di Dio stesso realizzata per la salvezza del suo popolo. Il Catechismo, ancora una volta, ci aiuta ad andare in profondità affermando che «è nello stesso senso che lo si chiama pure celebrazione dei santi misteri» (CCC 1330).

La presenza viva e reale di Cristo nel sacramento dell’Eucarestia, con il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, è da sempre il cuore della dottrina cattolica e dunque della Chiesa stessa. La Comunione, pertanto, diviene segno sublime dell’amore di Cristo per gli uomini ed unica possibilità attraverso la quale essi possano formare, per mezzo del sacramento, un solo corpo. Essa è, nello stesso momento, segno efficace della presenza di Cristo e principio di unità tra le persone da Lui congregate.
Per questo, da sempre, la Chiesa ha riservato alla Comunione, anche al di fuori della celebrazione liturgica, un posto centrale e non solo architettonicamente parlando, avendo cura che si usassero materiali pregiati, secondo quanto intuito dal genio artistico degli artigiani, con lo scopo di dar vita ad un oggetto capace di contenere il cuore pulsante e vivo di Cristo, ospite divino ed invisibile, prigioniero d’amore.

E così, contemplando il Ciborio in bronzo dorato e argento, realizzato nel 1554 da Bonconte Bonconti, si può intuirne immediatamente la santità dell’Ospite attraverso l’elevazione degli affetti dello spettatore che si sciolgono nel desiderio di una adorazione più profonda del mistero divino. L’arte, pur non potendo aggiungere nulla al sacramento, può dunque aiutare l’intelletto umano nel riconoscere ciò che né la vista, né il tatto, né il gusto potrebbero arrivare a capire, come insegnato nell’Adoro te devote.

Usato per descrivere un aspetto particolarmente importante è anche il termine solo apparentemente generico di Cose sante: si tratta del significato originale di Comunione dei santi della quale si parla nel Simbolo Apostolico. Stare di fronte ad Esse permette di riconoscerne la sublimità nei confronti della quale si deve essere come mendicanti, esattamente come si evince dalla posizione che Pietro e i suoi compagni assumono nel dipinto di Giuliano Presutti Comunione degli Apostoli.

La rappresentazione in secondo piano dell’arresto di Cristo, mentre i discepoli dormono, stride con il significato proposto attraverso i piedi nudi, in primo piano, e le mani aperte, in orazione, del Capo del Collegio dei Dodici: il sacrificio unico e definitivo di Cristo, prefigurato nella Cena, giunge a porre su piani anche ontologicamente differenti il tradimento dei discepoli rispetto alla loro domanda adorante. Le Cose sante divengono pertanto cibo desiderabile per il riconoscimento dell’infinita misericordia di Colui che lo offre in riscatto dei peccati di tutti gli uomini e di ogni tempo.

Infatti, la Comunione viene anche chiamata Pane degli angeli, Pane del cielo, Farmaco d’immortalità e Viatico: tutti termini che specificano ulteriormente il più generico Cose sante. Il Corpo di Cristo diviene così non solo cibo per la vita eterna, ma anche per il trascorrere dei secoli, fonte e rigenerazione della vita spirituale. Questo Pane deve essere preso in altissima considerazione, in quanto nutre e difende tutti i cristiani, allo scopo di condurli alla tavola del cielo insieme a tutti i santi, come afferma sempre san Tommaso, con semplici ma dense parole nel Lauda Sion.

E così, mentre gli Apostoli ricevono dalle sante e venerabili mani del Signore il Viatico, gli angeli nel cielo, nello stesso segno, adorano e contemplano il mistero divino, nella conoscenza della realtà sostanziata nelle sacre specie.

I Vangeli terminano tutti con un invito esplicito alla missione. Anche l’Eucaristia ha in sé un tale aspetto per il quale, nel mistero di salvezza, tutti i battezzati ricevono il compito di far lievitare la volontà di Dio nella vita quotidiana di tutti i giorni. Ite Missa est, da cui deriva il termine Santa Messa, non sta ad indicare semplicemente la fine di una assemblea, quanto piuttosto l’invito a realizzare nel mondo quel compimento che ancora non ha avuto fine (cfr Rm 8,22). Ma ciò che deve muovere l’agire umano è il cuore stesso della Santissima Trinità, descrivibile attraverso la parola Carità e che Raffaello ha saputo immortalare in una parte della predella della Pala Baglioni.

La terza delle virtù teologali si dimostra essere un tema particolarmente vicino a quello eucaristico. In particolare, Raffaello ha saputo rappresentare una donna attorniata da diversi figli che si nutrono del suo latte, avvinghiati tra le sue braccia. Solo apparentemente, pertanto, potrebbe apparire paradossale l’accostamento tra il tema della missione con quello della carità. In verità, l’invito ultimo della Santa Messa non è quello di abbandonare la Chiesa, di slegarsi da essa per perdersi nel mondo e ad esso omologarsi, ma anzi, si tratta di un appello a legarsi ad essa con ancora più forza per ricevere i doni di grazia che, in definitiva, permettano a ciascun uomo di portare a compimento la propria vita e ad essere testimone per il mondo di quella Fede e di quella Speranza che mai possono esistere senza la Carità.

Il genere letterario dei Vangeli non è paragonabile ad un minutaggio della vita di Cristo: essi non hanno mai avuto la pretesa di raccontare ogni istante della storia umana del Figlio di Dio. A volte, con un segno di interpunzione, gli Evangelisti hanno lasciato intendere più di un episodio che poi è solo l’esperienza singolare di ciascun discepolo di Cristo a colmare in modo sorprendente, anche oggi, tramite una profonda immedesimazione. E così, acquista maggiore incisività la scoperta che, tra gli episodi narrati nei quattro Vangeli, la predilezione sia stata riservata proprio ai momenti nei quali Gesù si trovava a tavola: ad un banchetto nuziale a Cana (cfr Gv 2,1-11), piuttosto che in riva al lago dopo una notte di pesca (cfr Gv 21,9-13) o al declinar del giorno terminata una lunga predicazione (Lc 9,12-17); ma la lista sarebbe davvero lunga, sia prima che dopo l’evento centrale della Risurrezione.

Del resto un giorno, Gesù stesso ebbe a dire di sé, stanco del pregiudizio che non permetteva al cuore dei suoi contemporanei di aprirsi alla sua dolce Presenza: «È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve e dicono: “Ecco, un mangione e un beone”» (Mt 11,19).

Il Figlio di Dio ha dunque scelto la mensa per comunicare in modo più efficace la buona novella a coloro che ha incontrato nel periodo in cui ha vissuto la sua vita terrena. Ma non si comprenderebbe la portata di una tale scelta se non si considerasse anche il fatto che Egli ha scelto l’altare della Croce per significare compiutamente a tutti gli uomini la realtà iniziata nell’Ultima cena.

È necessario, infatti, ricordare sempre la stringente unità che lega gli eventi centrali della Passione di Cristo perché sia possibile comprendere in modo più vero, anche se sempre perfettibile, il Mistero di un Dio che, dopo aver assunto la carne e il sangue dell’uomo, ha deciso di permanere, con un movimento analogo, nelle specie del pane e del vino. A questo punto sembra d’obbligo un ulteriore richiamo alla tradizione orientale che, non solo iconograficamente, ha saputo tradurre l’unità appena ricordata fra Incarnazione e Transustanziazione ponendo sui frontali della Porta Santa della iconostasi, le quali vengono opportunamente chiuse durante la recita dell’Anafora, due icone raffiguranti l’arcangelo Gabriele e la vergine Maria nel contesto dell’Annunciazione, cioè nell’istante in cui tutta la terra si è fermata in un mistico silenzio per contemplare l’eccezionale evento. Ancor oggi questa sincope temporale riaccade ogni volta che un sacerdote, salendo all’altare di Dio, ripete le parole consacratorie, adempiendo il mandato che Cristo stesso ha dato alla sua Chiesa fino al giorno in cui di nuovo tornerà per invitare finalmente i suoi discepoli a partecipare al banchetto nella Gerusalemme celeste.

* Mons. Vitiello fa parte della Congregazione per il Clero ed è Coordinatore del Master in Architettura, Arti sacre e Liturgia che si svolge all’Università Europea di Roma e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.

[La prima parte dell’articolo è stata pubblicata questo giovedì]

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ZENIT Staff

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