Il 10 settembre viene celebrata la giornata internazionale per la salute sessuale, e sarebbe un sogno forse eccessivo che i partecipanti si domandassero se i veri diritti riproduttivi sono più tutelati dall’inventare mille analisi prenatali genetiche e mille forme di abortire, oppure dal creare mille modi per aiutare le donne nel loro desiderio violato di maternità? Certa cultura è passata, infatti, dal reclamare il family planning, ad una politica culturale della denatalità, senza domandare il permesso, ma con una semplice manovra di imposizione culturale: non a caso alle bambine viene pubblicizzata lingerie sexy e bandito ogni modello materno, tanto che ormai non chiedono più un fratello, ma il gattino. Nessun rimpianto per i tempi in cui i desideri femminili erano messi in secondo piano, intendiamoci, o per l’idea di figli numerosi come segno di potenza personale o dello Stato; ma non ci dicano che la denatalità è un progresso. Triste è vedere che oggi è lecito pensare di aver diritto al figlio solo quando questo diritto coincide col vantaggio economico di chi aiuta tecnicamente la procreazione, tra cui il triste fenomeno delle madri in affitto che dilaga in Cina – su “ordinazione” dei ricchi americani – cui inaspettatamente anche la stampa decisamente laica (v il Fatto Quotidiano del 26 agosto) si ribella.
Il figlio tardivo e quindi unico intacca la salute sessuale: la gravidanza tardiva, associata ad un maggior numero di malformazioni, prematurità e rischi di danno cerebrale, certo non mitigati dalla fecondazione in vitro (Fetal diagnosis and therapy, gennaio 2011), che finisce per essere un rischio ulteriore dato che illude che comunque la medicina possa mettere un riparo alle “madri ritardatarie”. E intacca la salute sociale: significa non avere più fratelli, o cugini, cioè essere preda della TV babysitter e compagna di giochi, significa diventare un investimento per i genitori che ormai concepiscono il figlio solo come “perfetto”, prima di nascere e poi quando va a scuola, pena il rifiuto o il senso profondo di delusione di un “progetto” non riuscito.
Cosa ci salverà dalle bio-rapine che ci trasformano in organismi geneticamente modificati, perché modificano il cuore del nostro orologio biologico? Forse un’ecologia che sottragga il sesso al mercato. Già, perché l’industria distrugge i meccanismi naturali di comunicazione di messaggi sessuali come i feromoni, per poi ricrearne in laboratorio a scopo commerciale. E trasforma tutto in merce, accettando come cittadini solo chi è un “bravo consumatore”: per questo offre cittadinanza solo ai nascituri degni di entrare nella società dell’autonomia e del consumo.
Il mercato è il grande arbitro della nostra salute sessuale, in uno stravolgimento epocale che genera alla fine anche problemi di invecchiamento sociale mai visti prima. Ma certi mondi culturali e certe industrie del consumo hanno i loro vantaggi da un mondo denatalizzato, e il loro peso per far associare l’idea di “figlio” con quella di “ostacolo” si fa sentire: basta guardare certe pubblicità televisive, in cui esplicitamente si mostra un possibile figlio come un intoppo a consumare quello che viene venduto.
Il denaro comunque conta, questo è certo; eppure nessuno pone mano al problema economico per uscire dal buco nero della denatalità, perché sono gli stessi giovani a non farne una priorità: sono stati derubati culturalmente ed economicamente del loro bisogno di crescere e far famiglia al momento giusto, e hanno ricevuto in cambio l’assicurazione fasulla di una vita serena sulle spalle di mamma e papà. Qualcuno in malafede li ha convinti che il mondo è destinato solo a “chi sa consumare” e non costruire; e loro si sono rassegnati. Appaiono addirittura orgogliosi di questa tragica epurazione; ma non sanno che i volti delle attrici, che invidiano perché “vivono alla grande” e si “regalano” un figlio solo dopo i quaranta, sono solo il volto suadente dell’arida legge del mercato.
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*Carlo Bellieni è membro del Comitato di Bioetica della Società Italiana di Pediatria.