Storie di vita dal campo profughi di Shousha

di Chiara Santomiero

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SHOUSHA (Tunisia), lunedì, 25 luglio 2011 (ZENIT.org).- Una manciata di tende tra la sabbia e il cielo infuocato di luglio della Tunisia: è questo il campo profughi di Shousha affidato all’Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite), uno dei tre allestiti a poca distanza dal confine libico per far fronte alla massa di fuggiaschi generata dal conflitto nel paese del colonnello Gheddafi.

Allo scoppio della rivolta, dal confine con la Libia si sono riversati in Tunisia circa 330 mila profughi, in maggioranza cittadini di altri stati africani che lavoravano nel Paese, a cui bisogna aggiungere i 120 mila libici che hanno lasciato le proprie case in attesa di tempi migliori e per i quali le frontiere sono aperte grazie ad un accordo di libera circolazione tra i paesi del Maghreb.

La maggior parte di questi profughi sono stati rimpatriati ma a Shousha rimangono ancora 2500 persone. Si tratta per lo più di cittadini somali, eritrei, sudanesi e poi della Costa d’Avorio o della Nigeria, cioè quelli che a casa propria non possono tornare perché impediti da altre guerre, carestie, persecuzioni politiche.

Mohamed, Nuuratin, Bright, Jacob, Constance, Issa – per la maggior parte nel campo ci sono giovani tra i venti e i trentacinque anni, anche se non mancano le donne e i bambini piccoli – raccontano con voce piana storie terribili e purtroppo molto simili. La Libia rappresentava per loro una possibilità di lavoro e la porta d’ingresso verso i paesi europei o il Nord America, un posto dove ricominciare a sperare una vita migliore. Il biglietto per il “paradiso”, attraversando il deserto del Sahara, si acquistava per 800 dollari, il prezzo dei sacrifici di intere famiglie.

Tanti non ce l’hanno fatta: i profughi di Shousha raccontano degli uomini e delle donne uccisi dalla sete, dalla fame, dallo sfinimento e lasciati indietro tra le sabbie. Mohamed racconta dei banditi che, sotto la minaccia della morte, li hanno derubati dei miseri averi portati nella fuga: lui, che non aveva niente, si è salvato solo perché i suoi compagni di viaggio hanno organizzato una specie di colletta. E all’arrivo in Libia, grazie agli accordi internazionali per arrestare i clandestini sulle rive africane del Mediterraneo – senza distinguere se potessero accedere o meno allo status di rifugiati -, il carcere.

Sei mesi, due anni, tre anni: nessuno degli ospiti al campo di Shousha è sfuggito a questa esperienza, senza diritti e senza un’idea di quando potesse aver termine la loro “pena”. Per molti di loro le porte della prigione si sono aperte il 1° gennaio del 2010, grazie all’amnistia proclamata da Gheddafi per la sua festa. E’ cominciata allora una vita “buona” – affermano loro – perché si aveva la possibilità di lavorare, ma pericolosa perché se la polizia li avesse trovati di nuovo senza documenti li avrebbe rimessi in carcere. Facendo la pulizia nelle strade, Issa riusciva a mandare da 50 a 100 dollari al mese alla moglie e ai 5 figli rimasti in Somalia e che non vede da tre anni. “E’ per loro – racconta – che sto affrontando tutto questo. Mio figlio maggiore, che ha 15 anni, non è mai andato a scuola perché quella pubblica non c’è e quella privata costa 20 dollari al mese. Adesso, che dal campo profughi non posso più mandare niente, a volte la notte non riesco ad addormentarmi pensando alla loro situazione”.

Padre Sandro De Pretis, praticamente il cappellano del campo, sacerdote italiano di Trento che per molti anni ha vissuto a Gibuti e da un anno collaborava a Tripoli con l’amministratore apostolico della capitale libica monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, conosce molto bene queste storie e cerca di aiutare i profughi a conservare viva la speranza. Caritas Italiana che ha organizzato nei giorni scorsi una missione di verifica nel campo sta perfezionando, in accordo con l’arcivescovo di Tunisi monsignor Maroun Lahham, un programma di aiuti che sarà coordinato proprio da padre de Pretis.

Quando arriva al pomeriggio per celebrare la Messa dei giovani eritrei si affrettano a buttare acqua davanti alla tenda-chiesa – che solo una approssimativa croce di legno distingue dalla tenda-moschea – per evitare che la sabbia alzata dal vento entri all’interno. La celebrazione è più curata che in una cattedrale in occasione di una solennità. Bellissimi i canti ritmati dall’alternarsi delle voci e dal battito delle mani. Chi può, segue le letture su una Bibbia che poi appoggia accanto ai piedi scalzi. Sulla parete centrale della tenda sorride una Madonna ritratta secondo la dolce scuola iconografica etiopica e stampata su un foglio “incorniciato” da una foderina di plastica.

“I know that Jesus don’t forget me, so che Gesù non si dimentica di me”, cantano con intensità i fedeli del campo di Shousha e questa è sicuramente una certezza, ma altrettanto non si può dire per i paesi europei, distratti dalle preoccupazioni per il mercato comune e la Borsa.

Solo la Norvegia, in nome di quel principio di apertura che l’ha così tragicamente esposta alla follia esplosa nei giorni scorsi, ha messo a disposizione dei posti per l’arrivo dei profughi. E così il Canada e gli Stati Uniti. Ma i posti sono pochi e i colloqui dell’Unhcr per accertare il possesso dei requisiti da parte degli ospiti di Shousha richiedono lunghi mesi di attesa. Issa, dopo cinque mesi di permanenza, ha effettuato un solo colloquio e ne servono almeno tre.

“La cosa migliore – afferma il comandante del campo, un colonnello dell’esercito tunisino – è portarli via da qui e dare loro la possibilità di costruirsi un futuro altrove”. “Noi – aggiunge – faremo il nostro dovere per tutto il tempo che occorrerà, ma il rischio è che tra alcuni anni siano ancora qui e questa non è vita, specie per i bambini”.

Ce ne sono diversi al campo, anche molto piccoli, che salutano curiosi o riposano affaticati dal caldo all’ombra delle tende vegliati dalle madri che li sventolano per dare loro un po’ di sollievo.

Il comandante offre un bicchiere d’acqua: è il bene più prezioso in questo luogo dove – a 50 gradi all’ombra – viene distribuita solo una bottiglia a persona. Se non hai soldi per comprarne altrove, devi sopportare la sete. Anche il cibo non è abbondante, solo riso o pasta senza condimenti, niente verdura o frutta. A colazione un pezzo di pane. Per ogni cosa – cibo, medicine, telefono – bisogna fare una fila di almeno un’ora sotto al sole, anche se stai male. La noia, l’inattività e soprattutto la mancanza di ogni prospettiva di cambiare la propria condizione, nel breve o nel lungo termine, rendono la vita intollerabile agli ospiti di Shousha.

Qualche mese fa hanno messo in atto una dimostrazione e bloccato la strada che costeggiando il campo porta al confine con la Libia. La reazione degli abitanti di Ben Guerdane, ultima cittadina tunisina prima del confine, è stata terribile con il rogo di alcune tende nelle quali sono morti quattro eritrei. Qui, infatti, la strada verso la frontiera è vitale per l’economia della zona in quanto luogo di intensi commerci; a destra e a sinistra del bordo stradale, a tratti invadendolo, c’è una sfilata di botteghe, tettoie di lamiera o semplici banchetti dove si trova di tutto: dai tappeti ai condizionatori, dalle coperte al pentolame di coccio smaltato a colori vivaci. Soprattutto, centinaia di taniche e contenitori di plastica contenenti benzina e allineati abbastanza pericolosamente in cortiletti e piazzole. Con il perdurare della crisi libica, da qui passano anche grandi quantità di zucchero e farina per alimentare il mercato nero dei generi di prima necessità a Tripoli, che dista dalla frontiera appena 160 chilometri tutti sotto il controllo dell’esercito regolare libico, tanto che in alcune zone della Tunisia ne viene lamentata la penuria.

In mezzo a tutti questi interessi geo-politici e alle regole del mercato nero e dell’economia di guerra, i profughi di Shousha vivono imprigionati
in una bolla che li separa in un mondo a parte, fuori dal tempo. “Andare via da qui” è il grido di tutti, per qualsiasi destinazione, qualsiasi paese, purché non ci siano conflitti, dove lavorare e, magari, un giorno riabbracciare le famiglie. “Noi siamo devoti cristiani – hanno affermato in un documento scritto a mano su fogli a quadretti i giovani della comunità nigeriana del campo -, forti, abili e pronti a lavorare”.

“Ci appelliamo alla grande Chiesa cattolica – prosegue il documento – e all’intera comunità cristiana che ha posto Gesù nel proprio cuore, perché ascolti le nostre lacrime, la sofferenza della nostra generazione, la frustrazione e la nostra situazione senza speranza nella quale non possiamo aiutare noi stessi”. “Vi preghiamo – concludono i giovani nigeriani di Shousha – di venire in nostro aiuto così come preghiamo Dio perché ve ne dia i mezzi e la possibilità”.

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ZENIT Staff

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