Fès, una città dove tutto è sacro

Antica capitale e da sempre città sacra dell’Islam

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di padre Renato Zilio*

FÈS (Marocco) lunedì, 25 luglio 2011 (ZENIT.org).- E’ costituita da tre differenti città, cresciute una accanto all’altra e costruite in epoche diverse: IX secolo, XIII secolo e inizi 900, epoca del protettorato Francese. La Medina, riconosciuta patrimonio dell’umanità è la prima e la più antica, fatta di una ragnatela fittissima ed intricata di calli e di moschee: un vero ed enorme labirinto, che vi riporterà magicamente mille anni più indietro. Tutte le guide ve l’assicurano: vi perderete, e difatti…

Condotti, invece, da qualcuno scoprirete pure diverse mederse, scuole teologiche coraniche di differente epoca e splendore: qui infatti alla grandiosa moschea Qaraouiyine prima di Bologna è nata l’università. Vi infilerete lungo le calli, per lunghissimi souk coperti di bambou, corridoi umani, animati da venditori, merce di ogni tipo, donne, crocchi di bambini, asini carichi di prodotti, che passano sfiorandovi con millimetrica precisione… Un mondo speciale di gente, di sguardi, di colori e di odori differenti.

Ma passando approfittiamo per vedere una medersa e conoscere così il mondo universitario antico, creatosi attorno alla parola del Corano. La guida ci accoglie nel piccolo splendido cortile interno di entrata: un’enorme coppa in marmo si trova al centro, a terra, con nel mezzo una fontanina, silenziosa da chissà quando. Il professore si metteva qui – indica a lato uno scalino in marmo – con alle spalle la sala di preghiera. Davanti, gli studenti dai 22 ai 26 anni, che abitavano al piano superiore in cellette a due o tre, si disponevano a semicerchio sulle stuoie, così, accanto alla fontana delle abluzioni. Sembra come ce lo spiega che si siano seduti proprio ieri, quando invece erano nove-dieci secoli fa! E dopo una vita di insegnamento si sedevano per sempre tra le sabbie di questo Paese, così appassionato dell’Invisibile e della presenza misteriosa di coloro che l’hanno indicato e poi seguito.

Ma alzando lo sguardo in questa corte di medersa, comincerà piano piano a conquistarvi come una strana polifonia, che man mano si fa sempre più grandiosa… Così, le pareti si animano di motivi geometrico-floreali, vi seducono arabeschi, ripetuti all’infinito, a tempo e a contrattempo tutt’intorno. Gli stipiti delle porte, in legno di cedro, recitano versetti di Corano, scolpiti in elegante calligrafia, le fasce inferiori ripetono un microcosmo di intarsi policromi raffinatissimi. Non esistono interruzioni o spazi vuoti; evidentemente qui nell’Islam non ricamano solo le donne! In una decorazione incessante e minuziosa si fa infine comprensibile il motivo dominante: un inno alla vita e al suo Creatore. Anche senza citare la figura dell’uomo o dell’animale, che il Corano proibisce. Una tensione inaudita di spiritualizzare la materia si fa invito al giovane studente di teologia a farsi insegnamento e preghiera per gli altri. Come una lezione mai terminata, iniziata da secoli, ancora oggi essa raccoglie la vostra sorpresa.

Esco da questo mondo che vi invade la testa e lo spirito con tutti i suoi meandri e busso a un umile appartamentino nel quartiere popolare di Bab el Ziat. Mi apre una piccola sorella, luminosa più che mai anche se di pelle scura, ruandese. “Salamaleikum!”. Vi fa con un sorriso dolcissimo, che vi arresta qualche istante sulla porta in contemplazione. Dopo l’immersione in un mondo antico e medievale islamico, dove una medina sapeva amalgamare nei secoli differenti popolazioni come gli andalous cacciati dalla Spagna, o i kairouanais dalla Tunisia eccomi qui in un’oasi fraterna: una petite soeur indiana, una francese e una ruandese. Semplicità, amore reciproco, incarnazione nella vita di un popolo: ecco gli ingredienti del loro carisma. “Già solo questo è proclamare una buona novella!”, mi fa Petronilla, la ruandese. Da poco arrivata dal suo Paese, dovrà trovare un lavoro, imparare l’arabo, ma non si preoccupa. Inchallah! Già vive la sua missione, e poi un giorno forse in un’associazione di donne musulmane…

Sembra un’oasi di pace da cui tutto prende senso. Un piatto con due pomodori tagliati a fettine e due labbra di peperone accanto, mentre con meticolosità, come tagliasse un diamante, mi sbuccia un uovo: è questo tutto il pranzo, naturalmente con il pane marocchino. Accenno se alla domenica o nei giorni di festa si assaggia un po’ di vino, avendo tra loro anche una francese doc, ma… è come se avessi nominato il diavolo! “No, no, dobbiamo essere come questo popolo. E se c’è un ospite di riguardo… lo torturiamo con l’acqua!”, commenta ridendo. Ti fa capire, poi, con un sorriso che in ogni cosa non è tanto quello che si fa, ma il cuore che ci si mette.

Entrafracassante la voce della moschea vicina. “Non vi disturba?” “Come può disturbare un invito alla preghiera?” replica lei. “Anche noi siamo credenti come loro.” E racconta quanto la vita dei vicini, di un anziano ammalato, dei bambini che incontra sulle scale… nutre la sua preghiera, impastata delle gioie e delle ansie di questo pezzo di umanità. Nel suo Paese si fanno tante cose buone tutto il giorno, anche senza pregare. Ma se la preghiera le mancasse non avrebbe più motivo di vivere qui. Come per ogni discepolo del Signore la preghiera è la sua stessa identità. Questo mondo musulmano l’ha aiutata a crescere intimamente nella sua stessa fede. Mi spezza, infine, con grazia un ultimo pezzo di pane, e mi sembra di essere ad Emmaus.

Anche per il musulmano di qui c’è come un’eucarestia quotidiana: il pane. Grano che la donna stessa trasforma in farina, impasta, lievita ed estrae dal forno in una rotonda forma bruno-dorata. Vi sarà offerto un giorno, forse, un pane come segno di riconoscenza. Nato e cresciuto tra le pareti domestiche è il simbolo più forte dell’appartenenza alla famiglia. E dice la laboriosità ammirevole della donna del Marocco, la sua forza di trasformazione della materia in alimento. Il pane è vita che si scambia, si condivide, si gode insieme. Appartiene anche al pasto più povero: pane e olive, pane e tè alla menta. E se per strada ci si imbatte in un pezzetto di pane caduto distrattamente lo si posa su un muretto o su un davanzale, come una reliquia. Senza particolare eleganza, senza le mille specie che conosciamo: nella sua semplice forma rotonda, larga un palmo di mano, il pane qui è sacro.

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*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista “Presenza italiana”. Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.

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ZENIT Staff

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