Il rapporto inter-generazionale

ROMA, sabato, 9 luglio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso tenuto il 25 giugno a Vidiciatico dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna.

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La linea di pensiero che seguirò nell’affrontare il tema del rapporto fra le generazioni, è molto sottile. Questo rapporto infatti deve essere pensato da molte prospettive, di cui non ho nessuna competenza. Mi devo quindi limitare a descrivere come una sorta di grammatica del rapporto.

Dividerò la mia riflessione in due parti: la fisiologia del rapporto e la sua patologia. Cioè: quando funziona, quando è sano; quando non funziona, quando è ammalato.

1. FISIOLOGIA del RAPPORTO

In questo rapporto entrano in gioco almeno tre realtà: la tradizione, il principio di autorità, la libertà.

La tradizione è l’universo di senso che viene trasmesso da una generazione all’altra. Che cosa significa universo di senso? La persona umana non si rapporta alla realtà solo in base alla legge stimoli-risposta; solo in base alla legge bisogno-soddisfazione. La posizione umana nella realtà non è neppure solo una questione di adattamento.

La persona umana è un essere interrogante e desiderante. Esso pone domande sulla realtà, la più radicale delle quali è la seguente: “perché esiste qualcosa anziché il nulla?”. L’uomo ha bisogno di darsi ragione di ciò che esiste. Non solo di singoli frammenti della realtà, ma dell’intero come tale.

Inoltre la persona umana non desidera solo vivere, ma desidera vivere bene, vivere una buona vita: e come singolo e come società.

Da questa struttura della persona umana nasce ultimamente ciò che potremmo chiamare il “mondo umano” che non coincide col mondo fisico e biologico. Ho chiamato questo mondo umano l’universo di senso, in quanto esso è una creazione della persona umana come risposta al suo interrogare e al suo desiderare. Faccio qualche esempio.

Gli animali si accoppiano, ma solo le persone umane si sposano. Quando gli animali litigano, la soluzione è nella forza; gli uomini ricorrono ai tribunali ritenendo che esista una soluzione ragionevole, da condividere anche dalla parte soccombente. Non ho mai visto animali costruire templi. Nozze, tribunali, templi sono costitutivi di quell’universo che ho chiamato di senso.

“In questo contesto dobbiamo osservare che il concetto di mondo ha due significati; una volta sta ad indicare l’insieme di ciò che esiste dal mio intervento… ; ma il concetto di mondo ha anche un secondo significato ed indica l’insieme di ciò che nasce quando io incontro l’ente, ciò che scaturisce dal mio modo di guardare, sperimentare, conoscere, dalle mie prese di posizione e decisioni, dal mio agire e dar forma” [R. Guardini, Etica, Morcelliana 2001, 55].

Quando una nuova persona umana entra nella vita, trova già costituito questo universo di senso, il mondo nel secondo significato. Chi lo ha preceduto ritiene necessario trasmetterlo, comunemente. Anzi lo introduce nella realtà, nella vita precisamente attraverso questa trasmissione. È ciò che chiamiamo educazione. Quando parlo di tradizione intendo l’universo di senso che viene trasmesso di generazione in generazione.

È questa trasmissione che costituisce il legame fra le generazioni; che lega una generazione all’altra.

Questo legame, cioè la tradizione, è costituito da due principi operativi: da una parte – la generazione che trasmette – il principio di autorità; dall’altra – la generazione che riceve – il principio di libertà.

Il principio di autorità deve essere inteso bene in questo contesto. Esso denota una modalità propria del trasmettere, dell’educare. Per cogliere questa modalità partiamo da una constatazione.

Esistono due tipi di verità che noi possiamo conoscere: verità puramente formali e verità esistenziali. Le prime sono verità che non sono in grado di esercitare nessuna provocazione sulla libertà di chi le conosce. Il sapere che il fiume più lungo della terra non è il Nilo ma il Mississippi, non ha alcuna influenza sulle scelte che devo fare, sul mio stile e modo di vivere. Il sapere se esista o no una vita personale dopo la morte, cambia l’orizzonte fondamentale della vita.

Chi mi trasmette la conoscenza del primo tipo di verità, ha l’autorità per farlo se ha la competenza. Autorità significa in questo caso semplicemente competenza. La cosa è più complessa per il secondo tipo di verità.

Certamente è richiesta la competenza. Ma non basta. Poiché si trasmette un modo di essere nella realtà, un modo di vivere, perché questo possa essere accolto deve avere in se stesso un fascino tale da esercitare una profonda attrazione. Agostino ha scritto pagine assai profonde al riguardo. Le astrazioni non affascinano; sono le persone che affascinano.

Il principio di autorità denota la condizione in cui si trova la persona che trasmette la tradizione: è la forma vivente di ciò che trasmette. Possiamo anche dire. Il principio di autorità è la testimonianza, la quale è più che l’esempio. Gesù è la Verità perché è la Via; è la Via perché è la Verità. E per questo è la Vita: “chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio non ha la vita” [1Gv 5, 12].

Il principio di libertà designa il volto di chi riceve. La tradizione infatti è sempre offerta alla libertà di chi l’accoglie. Se avesse un altro destinatario non sarebbe più trasmissione dell’universo umano.

All’origine della nostra esperienza e concezione della libertà stanno tre eventi: l’alleanza sinaitica, la polis greca, la res publica romana.

Non abbiamo ora il tempo di analizzare accuratamente l’apporto di ciascuno. Mi limito ad alcuni richiami essenziali.

Tutti e tre gli eventi generano una idea di libertà come di un bene umano condiviso: si è liberi assieme e all’interno di una comunità. L’idea di una libertà che sia affermazione di sé a prescindere dagli altri è assente ed incomprensibile. Comincia a farsi strada una tale idea solo nello stoicismo, in un momento di grande crisi della civiltà greco-latina.

Ma la condivisione del bene della libertà non è solo sincronica: fra i presenti. Secondo l’alleanza sinaitica la libertà nasce a causa di un evento – la liberazione dall’Egitto – di cui deve essere sempre custodita la memoria “di generazione in generazione”, pena la sua perdita. E pertanto la libertà si costituisce in ultima analisi custodendo l’alleanza col Signore. La persona diventa libera dentro a questa storia ricordata, celebrata, condivisa.

Nella visione greca la libertà è condivisione della deliberazione circa la vita della polis; nasce così l’idea di democrazia. La libertà è radicata nell’esercizio della ragione, presupponendo che i beni umani sono beni comuni.

Nella visione romana la libertà è strettamente connessa alla legge: per questo siamo liberi – scrive Cicerone – perché abbiamo le leggi. E la legge esprime la consapevolezza dell’esistenza di una “res publica” e la decisione per custodirla e difenderla.

E pertanto, scrive Cicerone, il popolo non è “omnis coetus moltitudinis, sed coetus iuris consensu et utilitatis communione sociatus” [cit. in Agostino, La Città di Dio, 2, 21].

La visione cristiana farà proprio questo triplice rapporto, e lo integrerà nella proposta della libertà come capacità di creare il legame dell’amore nel reciproco servizio.

Lo stesso Agostino correggerà Cicerone e scriverà: “populus est coetus multitudinis rationalis, rerum quas diligit concordi communione sociatus” [ibid. 19, 24].

Tradizione – autorità – libertà sono le tre grandezze che nel loro corretto rapportarsi costituiscono un vero e buon rapporto fra le generazioni.

La perfezione della propria persona non può avvenire nell’isolamento individualistico. Lo dico nel senso diacronico. Ognuno di noi nasce dentro un universo di senso già costituito, che deve essergli trasmesso: è questa la via percorrendo la quale, o
gnuno entra nella realtà.

“Ciò è collegato al fatto… della storicità dell’essere umano. L’uomo inizia la sua esistenza all’interno di un dato periodo, di una situazione storica e di una comunità umana, che gli trasmette da subito, involontariamente e come un destino, la sua caratteristica da lungo esistente e le sue strutture vigenti.” [L. Scheffczyk – A. Zigenaus, Fondamenti del dogma, Lateran University Press, Roma 2010, 113].

Ma nello stesso tempo, la via, in cui nascendo l’uomo si trova, deve essere percorsa coi propri piedi. La persona umana diviene se stessa o nega se stessa necessariamente nella decisione personale; la quale, nel momento in cui viene confrontata con l’universo di senso dentro il quale è introdotta, lo assume e lo assimila o lo rifiuta. In ogni caso è un atto della persona, il quale non è mai ripetitivo.

2. PATOLOGIA del RAPPORTO

Il rapporto fra le generazioni si “ammala” anche di malattia mortale, quando degenera una o tutte e tre le realtà che lo costituiscono o quando non funziona il loro rapporto. Per ragioni didattiche considero distintamente le due possibilità, anche se nella realtà si avverano, quando si avverano, insieme.

2.1 [Prima ipotesi]. La degenerazione della tradizione è il tradizionalismo; del principio di autorità è l’autoritarismo o il permissivismo; del principio di libertà è l’arbitrio e il conformismo.

A)Il tradizionalismo possiamo descriverlo come l’attitudine che identifica una particolare visione della realtà come l’unica interamente vera e buona, e quindi la sola in grado di supportare la proposta educativa.

Il tradizionalismo così inteso ha radice in gravi errori antropologici. L’esperienza della realtà, propria dell’uomo, porta con sé ed in sé una tale ricchezza che la sua presa di coscienza da parte dell’uomo non può non conoscere sviluppo o anche oscuramento.

L’universo di senso in cui l’uomo esprime la sua esperienza della realtà, è opera della ragione umana, la quale è impedita o favorita anche dalle condizioni morali in cui versa la persona umana. In un certo senso, ogni generazione deve ritornare alla sorgente – l’incontro colla realtà – per farla risgorgare. E ciò non può umanamente accadere che attraverso un processo vivente di trasmissione. [Si veda quanto scrive H. Arendt in Tra passato e futuro, Firenze 1970, 9]. Agostino scrive profondamente che Dio crea l’uomo perché possa sempre accadere un “inizio”. La distinzione della storia dalla natura sta in questo. Il tradizionalismo nega la necessità di questo processo, perché lo fissa in un momento considerato privilegiato.

La degenerazione della tradizione in tradizionalismo corrompe più direttamente il principio di autorità, come possiamo vedere subito.

B) La degenerazione del principio di autorità può assumere due forme: l’autoritarismo ed il permissivismo.

L’autoritarismo è una conseguenza diretta ed immediata del tradizionalismo.

L’autoritarismo è l’attitudine che identifica l’introduzione della nuova generazione nella realtà al consenso dato da parte di questa all’universo di senso che chi esercita l’autorità identifica con la verità e la bontà tout court. Il tradizionalista è sempre autoritario.

La questione è delicata ed importante. La trasmissione dell’universo di senso non è in ordine a se stessa, non è finalizzata a se stessa, ma all’introduzione della nuova generazione nella realtà, all’incontro di questa con la realtà. È per questo che la tradizione è sempre esposta al rischio di essere rifiutata dal soggetto cui è trasmessa, di essere corrotta, o di essere liberamente accolta. Insomma la tradizione si sottopone al confronto di chi la riceve, fra l’esperienza che questi ha di se stesso e ciò che gli viene trasmesso. Confronto che può avere uno degli esiti suddetti.

L’autoritarismo è un’attitudine che non può ammettere questo confronto, perché è un tradizionalista. La conseguenza è che poco o tanto l’autoritarismo trasmette sempre imponendo, non proponendo.

Ma non meno grave, e forse oggi più frequente, è l’altra malattia mortale del principio di autorità: il permissivismo.

Il permissivismo è l’attitudine di chi ritiene che la trasmissione di qualsiasi universo di senso sia distruttiva del principio di libertà.

Questa degenerazione del principio di autorità ha le sue radici in un gravissimo errore antropologico: la persona umana è incapace di raggiungere una verità circa il bene della persona, una verità che sia condivisibile da ogni soggetto razionale. L’uomo può avere solo opinioni che non posseggono alcuna validità universale. “Non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi” [D. Hume].

Da ciò deriva che qualsiasi proposta di una via da percorrere per essere introdotti nella realtà, è una indebita prevaricazione nei confronti della nuova generazione. Questa deve imparare da subito a far proprio quel destino di solitudine che è la sorte dell’uomo. Nessuna narrazione della vita può essere raccontata da una generazione all’altra.

La nuova generazione al massimo può essere aiutata ad acquisire gli strumenti per imporre il proprio punto di vista, cioè il proprio interesse: per persuadere, non convincere.

Il permissivismo implica anche l’errore di identificare libertà e spontaneità. Ma con questo siamo già nella terza degenerazione, quella del principio di libertà.

C) La degenerazione del principio di libertà, nel contesto di cui stiamo parlando, potrei denotarla come concezione ed esperienza di una libertà senza radici. Kierkegaard la chiamava la disperazione della pura possibilità priva di ogni necessità. Il grande filosofo danese la descrive nel modo seguente: “Per quanto il mare sia agitato, e in qualunque punto del mondo uno si trovi, la bussola indica sempre la direzione del nord. Ma sul mare della possibilità… non è possibile distinguere quando l’ago magnetico devia e quando indica la direzione giusta”. In maniera autobiografica F. Kafka ha espresso la stessa cosa: “ho un’esperienza, e non scherzo dicendo che è un mal di mare in terra ferma”.

Due sono le metafore più capaci di descrivere la degenerazione del principio di libertà. La prima è quella dello sradicamento. S. Tommaso scrive: “la radice di tutta la libertà è il giudizio della ragione”. Negata la possibilità di raggiungere la verità circa il bene, la libertà ha dentro di sé il vuoto di senso [che senso ha scegliere A piuttosto che B, se A e B hanno lo stesso valore?], e fuori di sé il deserto [“non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi”].

L’altra metafora è quella del vagabondo, la quale sta sostituendo la metafora cristiana del pellegrino: il vagabondo non ha meta; la meta è il viaggio stesso.

L’altra degenerazione mortale del principio di libertà è il conformismo. Non mi fermo su questa degenerazione; essa è facilmente identificabile.

2.2 [Seconda ipotesi]. La degenerazione anche di una sola delle tre grandezze, impedisce il loro corretto rapporto, la loro vivente correlazione. Cioè impedisce il rapporto intergenerazionale.

Sarebbe assai interessante fare un percorso storico per verificare quanto ho appena detto. Ma per il nostro scopo non è necessario. Tuttavia esso ha depositato alcune forme nella società occidentale, alcuni eventi culturali. Mi limito a richiamarle molto sinteticamente.

La prima figura è stata l’emarginazione della persona anziana. Resiste ancora in parte nella figura dei nonni, ma credo possiamo dire che la configurazione, il volto che si sta dando la società occidentale non include la figura dell’anziano.

La seconda figura è stata, ed è, la progressiva esclusione dei giovani dall’assetto sociale. Il giovane è considerato, e si sente sempre più, sovra-numerario e superfluo per la costruzione dell’edificio umano. I segni di questa figura sono, per es., l’enorme difficoltà dei giovani ad acc
edere al lavoro, e il ricorso alla precarietà oltre ogni ragionevole parametro.

La terza figura è la progressiva delegittimazione della famiglia fondata sul matrimonio ad essere il luogo privilegiato dove tradizione, autorità e libertà si correlano nel modo vero e giusto; dove il tradizionale e il nuovo [la nascita di un figlio!] si appartengono reciprocamente.

Conclusione

Vi dicevo fin dall’inizio che la mia riflessione avrebbe avuto un filo molto sottile. Credo tuttavia che qualunque problema intergenerazionale abbia le sue radici nella correlazione fra le tre grandezze di cui ho parlato.

Il rapporto fra le generazioni non potrà mai essere ritenuto risolto una volta per sempre, magari attraverso qualche “tecnica didattica”.

E non potrà mai essere risolto una volta per sempre per una ragione molto semplice. Le nuove generazioni sono sempre state caratterizzate, e lo sono anche oggi, dalla viva coscienza e di un bisogno, di un vuoto del cuore, di una sorte di ferita e di una incapacità a corrispondervi da soli, a guarire da soli. Da questa condizione così specifica dei giovani, nasce l’attesa e l’invocazione che qualcuno possa dar loro risposta.

Quando il giovane custodisce questa posizione nella vita; quando incontra l’adulto che gli offre risposta, allora l’io del giovane e l’io dell’adulto scopriranno e vivranno l’appartenenza alla stessa storia, allo stesso destino: compagni dello stesso pellegrinaggio. L’emergenza educativa consiste nel fatto che è sempre più difficile incontrare chi sappia venire incontro all’io-in-attesa del giovane: trovare educatori.

P.S. A questo punto dovremmo vedere, con gli occhi della fede, come Gesù ha risolto questo problema. E la soluzione ha un nome: la Chiesa. Essa vive di una Tradizione, che i vecchi [i “presbiteri”] custodiscono e trasmettono, così che la Chiesa ringiovanisce sempre. Ma … ars longa sed vita brevis!

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ZENIT Staff

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