Una fede per il mare aperto

Dialogo con il teologo Piero Coda

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di Paolo Pegoraro

ROMA, giovedì, 26 maggio 2011 (ZENIT.org).- Il cuore dell’esperienza di Gesù è il rapporto di comunione intima con Dio. Ed è da essa che Gesù attinge la forza interiore del suo messaggio e del suo ministero messianico.

Ne è convinto mons. Piero Coda, teologo e preside dell’Istituto Universitario Sophia, che con lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli sarà protagonista di una <em>lectio magistralis sulla figura paterna – di Dio e dell’uomo – venerdì 27 maggio, nella cornice del Festival Biblico di Vicenza.

In anteprima abbiamo potuto scambiare qualche opinione con mons. Coda.

Professore, un Festival non è proprio la formula canonica per avvicinarsi alle Scritture. Da teologo, come valuta questa iniziativa?

«Iniziative del genere, in verità, stanno fiorendo in Italia un po’ dovunque e sui diversi fronti culturali: arte, letteratura, filosofia e… Bibbia, appunto. La cosa mi pare interessante e stimolante. Il successo di eventi come questi attesta che la gente ha sete di cose vere, alte e belle, di contro allo spettacolo immiserito e logoro di ciò che troppo spesso viene propinato dai mezzi di comunicazione di massa. Sembra di avvertire che la cultura è in grado di ricostruire un tessuto sociale stracciato come il nostro. Altre strade efficaci e autentiche non vi sono: bisogna favorire l’accesso di tutti alle sorgenti vive della nostra identità e rimettere in gioco il gusto d’interrogarsi e dialogare su ciò che vale. Ben venga, dunque, anche un Festival della Bibbia, perché la Bibbia, a prescindere anche dall’adesione di fede, è senz’altro uno dei codice fondamentali del nostro ethos. Purtroppo vergognosamente negletto. Ovviamente, bisogna stare all’erta rispetto al pericolo della banalizzazione e del consumismo usa e getta. Un Festival della Bibbia ha successo quanto apre lo spazio a percorsi continuativi e seri di incontro con la Parola di Dio, sia a livello spirituale, come nella pratica della lectio divina che sta risvegliandosi nelle nostre comunità, sia a livello culturale, come nei corsi biblici accademicamente qualificati. Oltre tutto, un Festival della Bibbia fa uscire l’interesse e la considerazione per i testi sacri dal chiuso degli addetti ai lavori e della cerchia religiosa per affrontare il mare aperto».

Il tema di quest’anno è “Di generazione in generazione”. Oggi cosa significa trasmettere la fede?

«Oggi come sempre, ma con un’accentuazione nuova per l’inedito contesto culturale e sociale che viviamo, vuol dire due cose: testimoniare la gioia e la novità dell’incontro con Gesù che ha trasformato cuore, mente, esistenza e introdurre concretamente nell’incontro vivo con lui. Il fatto è che i meccanismi garantiti della trasmissione da una generazione all’altra dei valori culturali e dei principi ideali, oggi, fanno acqua da tutte le parti. Non a caso si parla di “emergenza educativa”. E non basta lanciare degli allarmi e delle proposte indirizzati agli altri, ai giovani in questo caso, come se noi che educhiamo e trasmettiamo fossimo fuori da questa difficoltà oggettiva. No: ci siamo dentro anche noi. La trasmissione di generazione in generazione chiede qualcosa – molto! – non solo a chi riceve, ma anche a chi trasmette. Perché chi riceve non è un recettore passivo e chi trasmette lo fa se trasmette qualcosa – Qualcuno – che realmente incide sulla sua vita. Altrimenti la parola suona a vuoto. In altri termini, nella trasmissione della fede, oggi, viene in piena luce il fatto che il contenuto della fede che si trasmette non può essere scisso dalla forma, dallo stile, dalla testimonianza con cui lo si trasmette. È una sfida. Ma qui sta il bello. Perché la fede o sa reggere la sfida e “svegliarsi” – come ha detto il Papa – o, appunto, sonnecchia e dorme. Ma una fede che dorme è ancora fede?»

Il pluralismo religioso e la non credenza sono due interrogativi seri e richiedono risposte che forse non erano così urgenti per altre generazioni…

«Il fatto è che bisogna aiutare, stimolare e anche provocare ad andare al cuore delle questioni, o meglio, al cuore di quella ricerca e di quel desiderio che abitano la nostra coscienza quand’essa è sveglia e aperta a ciò – a Chi – la interpella. Certo, la pluralità dell’offerta religiosa, nel senso dell’adesione o del rifiuto, può disorientare o portare al relativismo. Ma è proprio questa pluralità che invece può risvegliare la responsabilità della scelta verso ciò che è credibile e affidabile. Per poter e saper scegliere con cognizione di causa occorre conoscere e occorre vedere e toccare con mano. Ecco i due veri banchi di prova della testimonianza e dell’annuncio cristiano. Quanto siamo capaci di presentare in modo efficace e incisivo, coinvolgente e appassionante, il succo dell’evento cristiano? Al di là dell’ovvio, del risaputo, dello stancamente ripetuto e di ciò che incappa subito ed è reso innocuo dal pregiudizio? E, d’altra parte, quando, dove e come possiamo dire in buona coscienza “vieni e vedi”? Quando i giovani incontrano sulla strada fatti come questi, non restano indifferenti».

Il fatto che il cristianesimo non sia più vissuto come “appartenenza tradizionale” trasmessa in famiglia, ma imponga una schietta scelta individuale, sta mutando il volto della Chiesa? Quali scenari si prospettano?

«È difficile azzardare previsioni, soprattutto in situazioni come quelle dell’Italia in cui il fenomeno, pur essendo in moto da lungo tempo, solo ora appare sempre più. Ma si possono intuire alcuni tratti del volto della Chiesa che forse si annuncia all’orizzonte. Si tratta, innanzi tutto, di una rigenerazione dal basso del tessuto ecclesiale a partire, appunto, dalla scelta personale, una sorta – com’è stato detto – di ecclesiogenesi di nuovo conio. Non in contraddizione con la Chiesa istituita che già c’è, ma senz’altro più dinamica e plastica. Il che comporterà un riassetto delle forme tradizionali della cura pastorale e dell’aggregazione ecclesiale. Con una consistente ridefinizione del ruolo dei ministeri, a partire da quello presbiterale ed episcopale, e un diverso impatto dei carismi ecclesiali, antichi e recenti, nella vita e nella missione della comunità. Probabilmente crescerà la pluriformità legittima di esperienze e cammini, sia nell’introduzione alla fede sia nella sua maturazione. Sarà il tempo della Chiesa minoranza, ma – lo speriamo con tutto il cuore – minoranza “creativa”, per dirlo con le parole dell’allora cardinal Ratzinger. Chiesa lievito, sale, luce, che fermenta, dà sapore, illumina dal di sotto e dal di dentro. Una stagione, dunque, nient’affatto di declino e di ripiegamento, ma di rinascita e rifioritura. Che dovrà far fronte, dentro e fuori – se così si può dire –, a sfide non piccole, soprattutto perché il mondo di oggi ha bisogno di una prospettiva culturale nuova e all’altezza dei segni dei tempi. Niente spiritualismo, dunque, ma “nuovo slancio del pensiero”, come auspicato da papa Benedetto nella Caritas in Veritate, senza false prudenze e paralizzanti paure, ma con le mani in pasta in sintonia con le tante ispirazioni positive che germogliano attorno a noi. Una Chiesa che, aperta al soffio dello Spirito, è segno di speranza nel mondo».

Al Festival Biblico lei parlerà della figura paterna di Dio. Quale novità comporta la rivelazione di questo nome, “Padre”?

«La novità è tanto grande che quasi si direbbe ancora non è riuscita a rovesciare i nostri cuori! La novità non è in primo luogo che Gesù ci dice che Dio è Padre – Abbà – ma che lui ci trasmette la sua straordinaria e singolare esperienza di essere conosciuto dal Padre come il Figlio. Sì, Abbà non è un nome in più o diverso di Dio, ma è la risposta che noi, in Gesù, siamo chiamati a dare per dono a que
llo sguardo infinito e onnipotente di amore e misericordia che Dio ha per ciascuno di noi. Incrociare questo sguardo è cambiare vita. Perché ha come conseguenza vedere ogni cosa illuminata e trasformata da quello sguardo di amore. Credere che Dio è Padre, e cioè affidarsi realmente a Lui e sino in fondo, significa di fatto vivere da figli. Non schiavi, ma figli: liberi, adulti, responsabili, eppure al tempo stesso bambini nello stupore del cuore e dell’intelligenza. E perciò fratelli, costruttori di pace e di giustizia nella società e nel mondo. Riconoscendo fratelli e sorelle – con san Francesco d’Assisi – il sole, la luna, le stelle, il fuoco e l’acqua… Non attende forse tutta la creazione – come scrive Paolo – la rivelazione dei figli di Dio? Insomma, la rivelazione del Padre dischiude l’orizzonte più vasto e più nuovo che si possa pensare. Con la rivoluzione, anche a livello sociale e culturale, più profonda e costruttiva. Ma occorre, come Gesù, vivere da figli, sempre rivolti verso il Padre e prendendo a nostro cibo quotidiano la sua volontà di amore».

A sorpresa, però, nel Nuovo Testamento l’espressione “di generazione in generazione” compare nel Magnificat. Dunque la trasmissione della fede non è solo “questione paterna”…

«Maria, come dice la prima parola del Magnificat, “fa grande” Dio perché egli ha guardato l’umiltà della sua serva. Ella riconosce e rende gloria alla grandezza di Dio riconoscendo il suo gratuito e imprevedibile disegno di amore che, attraverso il suo sì, coinvolgerà tutta l’umanità. E così – come dice sant’Agostino – concepisce prima nel cuore che nel grembo il Figlio di Dio. In Gesù ella diventa poi sotto la croce, in questa logica, madre di tutti i credenti. Il sì di Maria resta vivo lungo i secoli al cuore della Chiesa. È grazie ad esso che non s’interrompe la catena della fede di generazione in generazione. Mentre le spose, le madri, le sorelle se ne fanno testimoni e apostole».

[Fonte: www.festivalbiblico.it]

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ZENIT Staff

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