Educare: missione impossibile?

Tre scrittori raccontano la loro scelta nel mondo della scuola

Share this Entry

di Paolo Pegoraro

ROMA, mercoledì, 25 maggio 2011 (ZENIT.org).- Fare l’insegnante non è un mestiere come gli altri. Se non ci credete, venire a sentire le voci di Eraldo Affinati, Valter Binaghi e Andrea Monda: tre scrittori che hanno lasciato altrettanti impieghi per dedicarsi esclusivamente alla scuola. Il perché ce lo spiegheranno domenica 29 maggio, ore 11, all’incontro “La mia sfida educativa” presso l’Oratorio del Gonfalone di Vicenza.

Intanto lo abbiamo chiesto a Valter Binaghi, milanese, classe 1957, redattore della rivista Re Nudo negli anni Settanta, musicista blues, scrittore noir, professore di filosofia e storia nei licei. In due parole: il “prof” che tutti avremmo voluto.

Binaghi, cosa intendi per “educare”?

«Quel che il verbo latino significa: aiutare il giovane a diventare il meglio di ciò che può diventare, non secondo il valore merceologico dettato dal secolo, né secondo riferimenti dottrinari astratti (filosofici o teologici), ma secondo la vocazione al pieno esercizio della libertà che è insita in ognuno e che però presuppone una conoscenza integrale delle opzioni. Quindi non una rappresentazione riduttiva o nichilistica dell’essere umano, ma un’antropologia degna di questo nome».

Come cerchi di portarlo a scuola?

«La conoscenza delle discipline e la strategia didattica sono indispensabili per un insegnante, ma non sufficienti, se non sa sviluppare un’empatia nei confronti degli alunni. L’educazione è una missione impossibile se manca un incontro che sia veramente personale, fatto di curiosità intellettuale, ma anche di affetto, di quella “paternità” che la relazione adulto-adolescente implica, e di cui i ragazzi, anche quando non la chiedono esplicitamente, sentono molto la mancanza se non la trovano. Si impara poco da chi pretende di eseguire asetticamente una programmazione, e invece si impara molto da chi è sentito come esistenzialmente coinvolto nel proprio percorso di vita».

Perché hai preferito il mondo della scuola a quello della controcultura?

«Il mondo della controcultura, alla fine degli anni Settanta, era già diventato un mestiere, per alcuni molto redditizio – in termini economici o di consenso politico – ma spiritualmente sterile. Ho terminato gli studi di filosofia per riappropriarmi di una cultura che avevo frettolosamente scavalcato, e ho deciso di impegnarmi in una vera rivoluzione spirituale, alla mia maniera. Per come la vedo io, solo chi impara dalle giovani generazioni può trasmettere ciò che merita di essere salvato».

Il blues però non lo hai abbandonato, e continui a suonarlo con la tua band anche oggi. Qual è il valore educativo della musica?

«Come le altre arti, la musica è essenzialmente un dare forma all’esperienza. In particolare, per la musica si tratta di una forma temporale che ha profonde analogie con la narrazione. Io presento i miei romanzi raccontando e cantando, perché le due cose in origine erano molto unite. Dell’arte la psiche ha bisogno come il corpo del pane. Le immagini, cioè le forme sensibili, sono il suo nutrimento e il suo modus operandi».

Negli anni Settanta hai curato diversi volumi per Arcana su pop e rock. Trent’anni dopo scrivi un saggio su Johnny Cash, e per di più insieme a tuo figlio. Un bel salto…

«Francesco ascoltava per lo più heavy metal. Poi ha visto in Rete il video di Hurt, l’ultimo, con Johnny vecchio, quasi moribondo, e la vita che gli scorre davanti con le immagini del passato. Deve averci percepito un’autenticità incredibile. Ha sentito gli ultimi dischi di Cash, gli American Recordings, anzi li abbiamo ascoltati insieme. Proprio in quel periodo si sono fatti vivi dall’Arcana Editrice, per la quale avevo fatto alcuni libri molti anni prima… il primo in Italia sui Pink Floyd, con i testi tradotti, e il primo su Lou Reed. Parliamo del 1978. Mi hanno chiesto se volevo fare ancora qualcosa con loro. Gli ho risposto: Johnny Cash, what else? Così ci siamo messi: Francesco ha tradotto i testi e io ho raccontato la storia, una storia che è un mito. Com’è scrivere un libro con un figlio? Fantastico. Con mia figlia abbiamo appena iniziato un romanzo fantasy. Anche mia moglie Roberta Borsani è scrittrice – esce a giorni il suo secondo romanzo – e anche con lei e con le sue cose i ragazzi, di 22 e 20 anni, sono molto in sintonia. Coinvolgerli in quello che già per noi è una grande passione, e vederli altrettanto appassionati, è pura e semplice felicità».

Il tuo ultimo romanzo I custodi del Talismano racconta la necessità di tramandare qualcosa “di generazione in generazione”, ma… cosa?

«Essenzialmente ciò che va salvato non è il passato in quanto tale, ma ciò che del passato è seme vivo, in grado di creare futuro. Per un cristiano dovrebbe essere più facile capirlo: si tratta di tramandare il messaggio di Cristo con una spiritualità e un linguaggio teologico che siano in grado di interpretare i segni dei tempi. Il che significa non solo i rivolgimenti storici, ma anche i profondi mutamenti ambientali e psicologici indotti ad esempio dai nuovi media. È il contrario di un conservatorismo pedagogico innamorato di stili e forme culturali che richiedono mediazioni troppo complesse per essere intesi, e quindi hanno assunto un valore per lo più solo storico».

[Fonte: http://www.festivalbiblico.it/]

Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione