L’amico di Giovanni Paolo II, il cardinale Stanislaw Nagy

di Chiara Santomiero

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ROMA, domenica, 15 maggio 2011 (ZENIT.org).- La prima volta da giovani professori che condividevano le cuccette di uno scompartimento sul treno da Lublino a Cracovia; l’ultima a cena nell’appartamento del Papa, il 21 gennaio del 2005, il giorno prima che fosse ricoverato per l’ultima volta al “Vaticano III” come lui chiamava il Policlinico Gemelli. In mezzo trent’anni di amicizia e di appassionate discussioni teologiche e sulla Chiesa, spesso con gli sci ai piedi, durante escursioni nella natura e tra la neve.

I ricordi si affollano nella memoria del cardinale Stanislaw Nagy, classe 1921, che Giovanni Paolo II volle cardinale senza che fosse prima vescovo, in riconoscimento dei suoi studi di ecclesiologia.

Non c’era in piazza S. Pietro il giorno della beatificazione del suo amico Karol, il 1° maggio scorso, perché a Zakopane, la Cortina d’Ampezzo dei polacchi, dove erano stati tanti volte a sciare, Nagy ha celebrato nel Santuario della Madonna di Fatima, quasi in contemporanea con la messa di Benedetto XVI a Roma, una liturgia di ringraziamento nella quale ha consacrato il primo altare in Polonia dedicato a Giovanni Paolo II.

Non era a Roma nemmeno quando Wojtyla iniziò il suo pontificato il 22 ottobre del 1978. Il Papa l’aveva rimproverato per questo, con l’ironia lieve che lo contraddistingueva: “mi meravigliai molto – racconta Nagy – quando uno dei sacerdoti polacchi che era stato presente all’inaugurazione del pontificato mi consegnò una lettera del neo-eletto. C’era scritto: ‘Che razza di teologo è uno che studia il Papa e il suo ruolo nella Chiesa ma non viene a vederlo?’”.

Nonostante la frequentazione come colleghi di università e più tardi quando Wojtyla era arcivescovo di Cracovia e lo chiamava per essere consigliato su questioni di natura teologica e per la preparazione del Sinodo diocesano, “non mi consideravo un suo amico – afferma Nagy – tanta era la distanza che mi sembrava ci separasse”.

“Apprezzavo un uomo molto intelligente – prosegue Nagy -, dalle capacità eccezionali, contrassegnato da un alto senso di moralità. Sentivo che non sarei stato capace di raggiungerlo perché era più in alto di me”.

In Vaticano Wojtyla era già noto e stimato: “Paolo VI – racconta Nagy – lo conosceva e lo amava, lo aveva chiamato a predicare gli esercizi spirituali quaresimali per il Pontefice e la Curia romana del 1976”. “La morte di Giovanni Paolo I – ricorda Nagy rievocando gli accadimenti che portarono all’elezione di Wojtyla – fu uno shock per lui: si poteva cogliere un’inquietudine che lo attraversava. I polacchi erano consapevoli del suo valore anche agli occhi degli altri cardinali ma nessuno, nemmeno il cardinale Stefan Wyszyński, primate di Polonia, pensava che Wojtyla sarebbe potuto diventare Papa affermandosi su un altro candidato italiano”.

“Io – ricorda l’anziano cardinale – seppi della sua elezione da Europa libera, la radio clandestina, che era più sorpresa di me. Ero a Lublino e tra gli studenti ci fu un’esplosione di gioia: in quel momento mi resi conto che il Wojtyla che conoscevo diventava un altro”.

Ma il futuro cardinale Nagy era destinato a sbagliarsi. Wojtyla lo invitò a Roma per la consacrazione del nuovo arcivescovo di Cracovia, il cardinale Franciszek Macharski. “Mentre scendevo dalla scaletta dell’aereo – racconta Nagy – mi ha avvicinato un uomo che mi disse che ero stato invitato a cena dal Papa e mi accompagnò da lui. Per la prima volta vidi Wojtyla vestito di bianco”.

“Era uguale a prima – racconta Nagy – semplice, aperto, cordiale come il fratello che aveva passato con me tante ore in montagna a discutere di qualsiasi tema e, nello stesso tempo, pieno di una calma maestà: emanava da lui un’aria di serietà e santità”.

“E’ una delle questioni che mi pongo continuamente – afferma Nagy -: in che momento ho notato che avevo a che fare con un candidato agli altari?”. “Credo – continua – che il primo indizio fosse l’intensità della sua preghiera”.

In montagna “avevo conosciuto la sua natura semplice e aperta ma allo stesso tempo vedevo come cercava sempre di ritirarsi per pregare: già allora era un mistico. Questa impressione si rafforzò nei successivi 26 anni del suo pontificato”. “Quando si avvicinava all’altare – afferma Nagy che potè concelebrare con il Papa molte volte in Vaticano o nella residenza estiva di Castel Gandolfo – sembrava appartenere a un altro mondo e quando è diventato più anziano e sofferente questa trasfigurazione era ancora più accentuata”.

Un altro segno che “tradiva” la sua santità era proprio “il modo di sopportare la sofferenza con infinita pazienza, trattandola in modo che non intralciasse il lavoro”.

“Non sono stato presente alla sua morte – prosegue Nagy – ma qualche giorno dopo ho potuto parlare con i testimoni diretti che mi hanno raccontato degli ultimi momenti e delle sue ultime parole ‘Lasciatemi andare dal Padre’”. “Rappresentano il sigillo di una vita – conclude convinto il cardinale – perché tutta la sua vita è stata vissuta nell’incontro con Dio”.

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ZENIT Staff

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