Egitto: un gesto del governo verso la minoranza cristiana

Il premier annuncia una legge unificata sulla costruzione di luoghi di culto

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di Paul De Maeyer

ROMA, venerdì, 13 maggio 2011 (ZENIT.org).- In Egitto, l’ultima violenza anticristiana, consumatasi sabato 7 maggio con un tragico bilancio di almeno 15 morti e più di 200 feriti, ha fatto scattare un campanello d’allarme nei vertici governativi. Preoccupato per la stabilità del Paese, il primo ministro Essam Sharaf sembra infatti deciso a prendere di petto la situazione della più numerosa minoranza cristiana di tutto il Medio Oriente. I circa 6-10 milioni di copti, i quali costituiscono il 10% circa della popolazione egiziana, si sentono cittadini di “serie B” nel proprio Paese e sono costretti a subire varie forme di discriminazione, in modo subdolo o plateale.

Come riferito dal quotidiano Al-Ahram (11 maggio), il premier Sharaf, che in seguito al bagno di sangue nel quartiere cairota di Imbaba aveva rimandato una visita nel Bahrein e negli Emirati Arabi Uniti, ha annunciato questo mercoledì che il suo esecutivo preparerà una legge unificata sulla costruzione dei luoghi di culto, che dovrebbe essere varata nell’arco di un mese. Sharaf ha annunciato inoltre la creazione di una Commissione Nazionale di Giustizia, la quale sarà incaricata della stesura della normativa. Compito della commissione sarà anche di preparare una legge per combattere la discriminazione e la crescente violenza settaria.

Come ricorda il giornale, un codice unificato per la costruzione di moschee e chiese costituisce da anni una delle principali richieste da parte della comunità copta. L’attuale normativa, la quale risale al 1934 ed impone severe restrizioni sia per la costruzione di nuove chiese sia per la manutenzione di quelle già esistenti, è infatti fonte di discriminazione. Secondo un rapporto governativo, il Paese conta appena 2.000 chiese ma almeno 93.000 moschee. La questione dei permessi edilizi è stata d’altronde anche all’origine di numerosi episodi di violenza (anche da parte ufficiale) contro monasteri copti o luoghi di culto cristiani.

Nel corso degli ultimi mesi vari monasteri sono stati attaccati ad esempio dall’esercito per buttare giù i muri di protezione considerati “abusivi” e costruiti dai monaci per proteggersi dai gruppi di malviventi, che cercano di sfruttare lo stato di insicurezza generale che domina l’Egitto post-Mubarak. Uno dei complessi monastici finiti nel mirino dei militari per “abusivismo” è quello di Deir Anba Bishoy, uno dei quattro grandi monasteri copti rimasti oggi nel deserto di Wadi el-Natroun, nel governatorato di Al Buhayrah, a nord-ovest del Cairo. A fine febbraio, le forze armate egiziane hanno sferrato ben due assalti al complesso di San Bishoy (ZENIT, 25 febbraio).

Anche per i salafiti ed altri gruppi fondamentalisti, la questione dei permessi edilizi è un facile alibi per attaccare la comunità cristiana. Con lo scopo di impedire l’avvio dei lavori di riparazione dell’edificio, rimasto danneggiato dalle forti piogge dell’ultimo inverno, un gruppo di musulmani ha occupato ad esempio il 5 aprile scorso nel villaggio di Kamadeer (nei pressi di Samalout, nel governatorato di Minya) la chiesa di San Giovanni l’Amato (ZENIT, 14 aprile 2011).

Il primo ministro Sharaf, che ha incontrato mercoledì anche una delegazione di manifestanti copti, ha annunciato del resto la riapertura di tutte le chiese chiuse per la mancanza di permessi o autorizzazioni. Verrà ricostruita o rinnovata inoltre la chiesa della Vergine Maria, rimasta fortemente danneggiata durante le violenze di sabato scorso nel quartiere di Imbaba. Per evitare futuri attacchi, il governo sta discutendo anche un divieto di organizzare manifestazioni davanti ai luoghi di culto e l’uso di slogan religiosi nella campagne elettorali.

La domanda spinosa è se le buone intenzioni del premier egiziano saranno sufficienti a riportare un po’ di serenità e a porre fine così ai ripetuti episodi di violenza anticristiana. Come dimostra un articolo pubblicato l’11 maggio da Compass Direct News, a pesare negativamente sui rapporti interconfessionali è anche ciò che si potrebbe definire la “versione egiziana” della famigerata legge pachistana sulla blasfemia. Si tratta dell’articolo 98 (f) del Codice penale egiziano, noto nell’ambiente legale anche come l’accusa di “oltraggio alla religione”.

Come spiega Compass, a rigor di termine l’articolo in questione non è una norma anti-blasfemia. Ma ha un impatto altrettanto devastante: chi viola il 98 (f) viene accusato di “diffamazione di una religione celeste” e rischia non la pena di morte ma comunque fino a cinque anni di carcere. “Chiunque sfrutta la religione – dice il testo – in modo da promuovere ideologie estremiste con la parola parlata, scritta o in qualsiasi altro modo, allo scopo di provocare sedizione, denigrazione o oltraggio di una religione celeste o dei suoi seguaci, o di pregiudicare l’unità nazionale, sarà punito con una pena da sei mesi a cinque anni di prigione o il pagamento di una multa di 500 sterline egiziane”.

L’accusa di diffamazione della religione viene usata ad esempio per far tacere giornalisti, intellettuali o studiosi che difendono o divulgano opinioni “non ortodosse” sull’islam, come nel caso del noto scrittore e teologo Nasr Hamed Abu Zaid. Accusato da esponenti dell’Università di Al-Azhar – il più famoso centro d’insegnamento dell’islam sunnita – di aver diffamato l’islam con la sua ermeneutica storica del Corano, il teologo è stato condanato nel 1995 per “apostasia”. Successivamente, Abu Zaid è stato comunque aiutato a fuggire dall’Egitto e si è trasferito sempre nel 1995 in Olanda, dove ha insegnato all’Università di Leiden (Leida).

Una seconda categoria a subire le scuri della normativa sono i convertiti dall’islam. Secondo Paul Marshall, del Center for Religious Freedom dell’Hudson Institute – un pensatoio o “think tank” statunitense fondato nel 1961 -, convertirsi significa quasi sempre avere guai con le autorità e incorrere nella probabile accusa di offendere la religione islamica: chi sceglie Cristo deve abbandonare l’islam e comunica in qualche modo il messaggio che si tratta di una religione “cattiva” (Compass Direct News, 11 maggio).

Un convertito che ha sperimentato sulla propria pelle l’effetto dell’art. 98 (f) è il quarantacinquenne Ashraf Thabet, di Port Said. Dopo la sua conversione al cristianesimo, maturata in seguito ad un tracollo economico, l’agente attivo nel settore dell’importazione è finito nella mira del temuto State Security Intelligence o SSI. Arrestato a casa davanti alla sua famiglia il 22 marzo del 2010, Thabet ha trascorso 132 giorni in carcere in isolamento ma non è mai stato portato a giudizio.

Purtroppo l’applicazione della normativa è “a senso unico”. Le autorità mantengono il silenzio quando vengono diffamate le religioni minoritarie. Come osserva Marshall, soprattutto quando si tratta dei seguaci di religioni “non rivelate”, ad esempio i baha’i e gli zoroastriani, non ci sono freni agli insulti. Un’altra minoranza che viene denigrata “a ruota libera” è quella ebraica. “In pratica – sostiene il ricercatore dell’Hudson Institute – puoi insultare l’ebraismo a volontà, persino sui media statali”.

Per Sharaf, la strada appare dunque lunga e alquanto difficile. Secondo i commentatori, il più grande ostacolo – forse insuperabile – sulla via della normalizzazione dei rapporti interreligiosi è il discusso articolo 2 della Costituzione egiziana, il quale sancisce che la legge islamica – cioè la shari’a – è la fonte principale di ogni legislazione. Infatti, nel referendum del 19 marzo scorso ha vinto la proposta di una riforma costituzionale “light”, lasciando inalterati sia l’art. 2 che la normativa sulla diffamazione.

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ZENIT Staff

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