Quando l'accoglienza familiare si fa dovere ineludibile

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ROMA, martedì, 10 maggio 2011 (ZENIT.org).- L’affido può essere non solo una opportunità di crescita per molti bambini in difficoltà ma anche il modo per favorire il coinvolgimento della società civile, creando una rete di solidarietà e una cultura dell’accoglienza.

E’ questo un altro aspetto messo in rilievo lunedì nel corso del convegno di apertura a Salerno della “Settimana del diritto alla famiglia”, promossa da Progetto Famiglia Onlus, Federazione di enti no-profit per i minori e la famiglia (www.progettofamiglia.org), con lo slogan “Famiglie insieme, promotrici di accoglienza”.

Nel suo intervento don Silvio Longobardi, fondatore della federazione Progetto Famiglia, ha sottolineato come il legame coniugale sia “la prima e più importante vittoria sul ogni forma di individualismo” e come la famiglia sia “un potente fattore di umanizzazione sociale” che “si fonda sui valori dell’accoglienza e dell’accudimento della persona”.

Per questo, ha continuato il sacerdote, “l’accoglienza dei minori non appartiene solo all’ambito della carità ma a quello della cultura. C’è una cultura che passa per la conoscenza, lo studio e l’approfondimento; e una cultura che passa per la testimonianza di quei valori che mantengono viva una società. L’affido custodisce e costruisce l’idea di una città dove i diritti di alcuni divengono per gli altri un dovere ineludibile”.

Nel prendere la parola Frida Tonizzo, consigliere nazionale dell’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie (Anfaa), ha sottolineato come le migliaia di esperienze finora realizzate dimostrino che “l’affidamento familiare è possibile e praticabile solo se c’è a monte un’adeguata organizzazione di servizi socio-assistenziali e sanitari e un lavoro integrato che si faccia carico non solo del supporto degli affidatari e del minore ma prioritariamente del recupero della famiglia di origine”.

“Quando questo non avviene – ha avvertito –, gli affidamenti rischiano di i trasformarsi in “affibbiamenti” con tutte le conseguenze negative che ne derivano e che possono portare alla interruzione dell’affidamento stesso”.

Arnaldo De Giuseppe, coordinatore Comunità Familiari Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), ha spiegato che negli ultimi anni la sua associazione ha avviato una riflessione su quel tipo di comunità per minori che hanno una famiglia come struttura portante del servizio educativo, cercando di definirne specificità e caratteristiche.

“La comunità familiare – ha detto – è una realtà che fonde la personale scelta di vita di essere coppia e famiglia con la scelta di fornire un servizio (strutturato) per i minori in difficoltà. La dimensione più propriamente familiare e quella professionale si integrano e si sostengono vicendevolmente e collocano la comunità familiare in un ambito intermedio tra la comunità educativa e l’affido familiare”.

“Il significato di tali esperienze – ha aggiunto Arnaldo De Giuseppe – va oltre il servizio per minori e può essere un’opportunità per ripensare modelli di famiglia attivi e responsabili all’interno del contesto sociale”.

Gianni Fulvi, presidente Coordinamento Nazionale Comunità per Minori (CNCM), ha osservato che “il dato preoccupante che vede nelle comunità di accoglienza per pre-adolescenti e adolescenti, la presenza intorno al 20% di minori provenienti da affidi conclusi (falliti?) e adozioni, impone una seria riflessione sulle modalità di realizzazione dei progetti di affido familiare e una più stretta collaborazione tra le comunità, i servizi sociali e le reti di famiglie affidatarie al fine di ridurre drasticamente questo dato”. “Sicuramente – ha notato – a monte va strutturata la valutazione del minore, la capacità di reggere una relazione affettiva valida”.

Tommaso di Nomadelfia, responsabile dell’accoglienza dei minori nella comunità di Nomadelfia, ha invece ricordato come nel campo dell’accoglienza familiare di persone in difficoltà, in particolare dei minori, don Zeno Saltini agli inizi degli anni Trenta si sia scostato radicalmente dalla tradizione che solitamente veniva espressa anche all’interno della Chiesa.

La sua proposta consisteva nella realizzazione di “un nuovo rapporto umano, basato su una fraternità condivisa, capace di rimuovere le cause che creano e portano al bisogno socio assistenziale”; Don Zeno era “contro la istituzionalizzazione e andrà subito al valore fondamentale della famiglia, convinto che l’accoglienza può avvenire solo al suo interno per poterlo rigenerare nell’amore. Una famiglia allargata in collaborazione con altre sul piano educativo e di un ambiente formativo”.

“Don Zeno – ha concluso – ha anticipato i tempi attraverso le sue intuizioni sul recupero della devianza, come verrà dopo mezzo secolo codificato dalle normative giuridiche oggi in atto e riguardanti il diritto minorile. La sua creatura, Nomadelfia, è la risposta tuttora operante di famiglie liberamente associate, attraverso l’applicazione di una metodologia e una organizzazione di tipo familiare, con figure di riferimento stabili e la complementarietà di tutti gli altri membri della comunità in una pedagogia di condivisone”.

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ZENIT Staff

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