Pasqua: è la Vita che tiene la morte in suo potere

III Domenica di Pasqua, 8 maggio 2011

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 6 maggio 2011 (ZENIT.org).- Nel giorno di Pentecoste, Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: “…Gesù di Nazaret,…consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,14a.22-33).

Ed ecco, in quello stesso giorno, il primo della settimana, due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro, ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.(…) Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. (…) Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, (…) Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane (Lc 24,14-35).

Confermando “ciò che era accaduto lungo la via” ai due discepoli in cammino verso Emmaus, Pietro annuncia all’assemblea degli Israeliti la verità sulla morte di Gesù di Nazaret : “Dio lo ha risuscitato liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.

Perché non era possibile che la morte tenesse Gesù in suo potere? Si meritavano, i discepoli, il rimprovero del Signore?

Essi, certo, avevano veduto morire il Signore e deporre il suo cadavere nella tomba, come poco tempo prima era accaduto a Lazzaro che però Gesù aveva liberato dal potere della morte; inoltre Gesù stesso aveva più volte detto loro che sarebbe stato ucciso per risuscitare dopo tre giorni; infine la testimonianza delle donne che lo avevano incontrato vivo, era assolutamente credibile.

Eppure tutto questo non bastò per comprendere che la fine ignominiosa del Signore non costituiva il fallimento delle speranze riposte in lui, ma il preludio necessario della sua risurrezione, come predetto dalle Scritture (ad es. il salmo 16/15). Sì, era davvero chiaro che la morte non poteva tenere in suo potere l’ “Autore della vita” (At 3,15), ma, insieme, non era possibile che la morte non tenesse in suo potere il cuore dei discepoli. La prima impossibilità dipendeva dalle Scritture (che non potevano essere smentite), la seconda dalla frontiera del limite umano, che non poteva essere oltrepassata senza l’intervento dello Spirito del Risorto.

Ora, tutto ciò che era scritto e che è avvenuto riguardo a Gesù, è scritto ed avverrà anche per ognuno di noi. Infatti: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito, in certo modo, a ogni uomo. (…) Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale e assimilato alla morte di Cristo, andrà incontro alla risurrezione confortato dalla speranza. E ciò non vale solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina. (…) Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte che, al di fuori del suo vangelo, ci opprime. Cristo è risorto distruggendo la morte con la sua morte, e ci ha donato la vita affinché, figli nel Figlio, esclamiamo nello Spirito: Abbà, Padre!” (Cost. past. “Gaudium et spes”, n. 22).

Torniamo per un momento sul Calvario con il Signore crocifisso e ormai morto.

Quando il “buon ladrone” che aveva creduto in Gesù e nel suo regno, vide arrivare il soldato incaricato di farlo morire subito mediante la frattura violenta delle gambe (cosa che provocava la morte per asfissia, dato che le gambe sollevavano il corpo sui chiodi permettendo al crocifisso di respirare), con tutta probabilità trasalì di gioia, ma non per la fine imminente delle sue atroci sofferenze. Gesù gli aveva promesso poco prima: “Oggi con me sarai nel Paradiso” (Lc, 23,43) ed egli, certamente, non vedeva l’ora di morire per raggiungerlo, avendo creduto alle sue parole.

Pur finendo crocifisso quale malfattore, quest’uomo realizzò in pienezza la propria vita, cosa che gli sarebbe stata impossibile se una norma “pietosa” avesse permesso di accelerarne in croce la morte prima di potersi rivolgere a Gesù. Prima della sua promessa egli si trovava in potere della morte, ma appena udì e credette alle sue parole, egli sconfisse la morte grazie alla speranza riposta in Lui (Rm 8,37).

Così fu il primo a sperimentare la verità di queste parole di Benedetto XVI: “La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino.(…) Qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. (…) Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nova” (Enciclica “Spe salvi</i>”, n. 1-2).

Quando si vive come se non ci fosse il Dio di Gesù Cristo, vale a dire senza la speranza della Vita eterna, la verità del valore assoluto, divino, inalienabile della vita, non può essere riconosciuta, poiché non se ne conosce la meta trascendente. Ciò è vero, ad esempio, negli stati di vita più poveri, come il concepito nel grembo, il malato sofferente ed inguaribile, o la persona in stato cronico di “coscienza sommersa”.

Per questo non c’è che una “battaglia” da fare a favore della vita umana: quella per farne conoscere la verità tutta intera, quella che solo il Vangelo della risurrezione rivela.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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