ROMA, venerdì, 28 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Ci sono luoghi che per loro natura sono da sempre dei crocevia, luoghi di acqua e di fuoco, di terra e di mare, di conquistatori e di conquistati, luoghi di tradizioni e vecchie storie. Madeira è un posto così. Più volte conquistata ma mai domata, abitata da marinai e artigiani che seguono fieramente tradizioni antiche.

Festa di Santo Amaro. Appena terminata la lunga processione del santo patrono e una solenne celebrazione della sera, vedi avanzare coraggiosamente un’anziana contadina – con fisarmonica, grande scialle e cappello nero da uomo - intonando ai microfoni della chiesa una antica nenia a squarciagola. Il popolo presente sembra d’incanto risvegliarsi. Dopo una preghiera fino ad allora umile e composta, la gente si mette a ripetere gioiosamente il ritornello, battendo mani e piedi. È una vera esplosione popolare: “Viva, viva santo Amaro!” Sembra un canto di vittoria, contro il male, evidentemente. Qualcuno mi fa: “Quella capita qui tutti gli anni da un villaggio vicino!” indicando il donnone. E la cantata popolare, in nome del santo, pare ormai non avere più fine.

Sia nell’antica chiesa del ‘500 che fuori, tra una miriade di lampadine accese di ogni colore, un’infinità di bandierine di carta colorata e bancherelle a volontà, è un vero tripudio. Lo sarà fino alle prime ore del mattino. Il giorno dopo mi attende la messa solenne delle due del pomeriggio, con in prima linea il consiglio comunale e ancora una lunga processione. Si riporta indietro santo Amaro, discepolo di san Benedetto, nella sua cappellina in fondo al paese. La banda municipale cadenza la lenta avanzata con passi di velluto. Il popolo ai lati, silenzioso, assorto, con centinaia e centinaia di occhi fissi, pare essere lambito al passaggio del nostro santo Amaro da un fluido sacro... dolcissimo. Tutti ne sono estasiati. Al posto d’onore nella processione si trascina una serie lunghissima di donne e uomini che hanno fatto durante l’anno “una promessa”. Tengono in mano un lunga candela scura, che cola giù abbondantemente. Oppure un braccio, una testa o una gamba di cera: segni votivi di un male vinto con la forza e l’aiuto del santo. Qui la fede è concreta, è fatta di segni, si tocca con mano.

È metà gennaio ed è la prima festa dell’anno. Sono accorsi pellegrini da tutta l’isola. Siamo a Madeira, la perla dell’Atlantico, colonizzata dai portoghesi nel XV secolo. Ed ora anche dagli inglesi, ma solo per il famoso vino, la canna da zucchero e il turismo. 

Il clima natalizio qui ancora resiste, perchè è proprio santo Amaro che “fecha Natal,” chiude il periodo di Natale. Si nota ancora un meraviglioso presepio fuori della chiesa con grandi statue antiche immerse in un muschio ancora verde, un altro presepio all’interno della Chiesa più bello ancora, con cascate d’acqua e fiori tropicali – di solito ogni presepio riproduce l’habitat dell’isola – un altro ancora all’entrata del municipio, in ogni vetrina di negozio, in ogni casa... È un senso appassionato, incantato e invadente per questo popolo del mistero del Natale. “Siamo cattolici noi!” mi fa qualcuno davanti al mio stupore. Natale è per loro, in fondo, “la festa” per eccellenza, con milioni di vecchie lampadine colorate, accese la notte, in ogni paese. Ma questo senso lo tocchi anche dal vero. “Guarda, sembra un presepio!” esclama di notte, ammirato, il mio accompagnatore, osservando le colline che scendono da Funchal direttamente sul mare. Sembra di contemplare, infatti, la volta del cielo capovolta e trapunta di stelle! Uno splendore che, il giorno dopo, alla luce del sole, si cambia in un vero squallore... Davanti a voi un numero infinito e disordinato di case e casette hanno preso possesso delle colline dell’isola, senza regola o piano regolatore. Ognuno ha costruito ovunque. Guardando verso il mare, invece, una colata di cemento ha preso la forma di una serie infinita di hotel di ogni misura e dimensione, anche a cinque stelle con 400 camere doppie come il Pestana. Naturalmente occupate al 100%, almeno fino a qualche anno fa. Dal modo di vestire e di atteggiarsi, poi, il personale di servizio sembra formato da statue principesche, che, però, si sciolgono come cera se solo getti loro qualche frase in portoghese... L’amabilità madeirense emerge, allora, come una bella sorpesa, raccontandovi tutto. Così, pure, l’altro giorno Alberto, il sindaco di Santa Cruz, mi accoglieva con un gioviale “Dominus vobiscum!” e poi continuando con la lingua di Dante e la cadenza di Madeira. Sorprendente.

Il senso del Natale, tuttavia, i madeirensi lo vivono, pure. “O Presépio somos nós, é dentro de nós que Jesus nasce, dentro do calor de cada casa...” canta Josè Mendonça. In questo periodo tutte le famiglie amano trovarsi insieme. Mi ritrovo, allora, con una quindicina della stessa famiglia per pranzo fino a sera, tra gioco di carte, uno sguardo al panorama, due passi, quattro chiacchere e tanta libertà. Ed è per ricordare che - “a differenza della mentalità inglese che si batte per la carriera e il lavoro,” mi fa qualcuno - la famiglia qui è un presepio domestico, da coltivare. “I legami sono come i sentieri, se non si passa si riempiono di rovi”, aggiunge la loro saggezza.

Agli inizi, l’isola era un enorme vulcano, che emerse dalle acque dell’Atlantico e divenne una terra semplice, naturale, favolosa. Boschi, piante tropicali, sterlizie, camelie e orchidee la coprirono presto, prendendo il nome di madeira, che in portoghese significa legno, bosco. Tutte le strade sono sempre in salita: montagna e mare si ritrovano contigui, faccia a faccia. Perfino nel piatto. In qualsiasi ristorantino vi serviranno volentieri la specialità casalinga “terra-mare”, cioè pesce e carne, misto. Quasi rivivendo la sua origine vulcanica, da sempre quest’isola disseminò i suoi abitanti dappertutto nel mondo. Le comunità migranti madeirensi si incontrano in Africa del Sud, in Venezuela, in Francia, in Inghilterra... 

Ma di questa terra in mezzo all’oceano gli abitanti – come tutta la gente di mare - ne sono naturalmente gelosi e orgogliosi. Lo noto anche in Francisco, il Presidente della Camacha, che mi porta a visitare in lungo e in largo il suo terrritorio, il centro artigianale e infine il cimitero. Qui si può incontrare la “loura da Camacha”, una cantante famosa con altre personalità della regione in un posto speciale, ad opera del municipio. Ammiro poi l’antichissima arte dei vimini, in cui tutta la famiglia era impegnata, dai piccoli agli adulti, per far nascere dal nulla - da volgari vimini di campagna - specchiere, poltrone, sedie, oggettini, capolavori di artigianato. “Uma maravilha!, senti esclamare. Anche se su questo versante si abbatte ormai la crisi con il cambio della moda, la tradizione perduta, gli artigiani dispersi... Prospettive nere, infatti, quando cambia il mondo, per questo piccolo regno artigianale. 

Scendendo a Funchal, quattro parole scritte in grande nell’atrio della Chiesa del Collegio fanno in tempo a risvegliarvi tutti i sensi. “Esta igreja é um poema”. Entri e ammiri: un vero splendore! Soffittature d’oro, altari barocchi, intarsiati, azulejos, lavori di artigianato prezioso... tutto invita semplicemente a contemplare e a pregare. È l’antica Chiesa dei Gesuiti espulsi dal Portogallo nel 1759 dal famoso marquese di Pombal e mai più rientrati. Marco, un giovane parroco, mi viene incontro per presentarmi questo capolavoro fino agli angoli della sagrestia. Parliamo della fede degli emigranti, partiti per il mondo. “Una fede congelata” mi fa senza remissione. “È rimasta ancora come ai tempi di allora, non adulta, passano qui e mi chiedono solo immagini sacre. E i loro figli non seguono, prendendo altre strade...”. Una radiografia quasi perfetta in due parole. Ed è da parte di un prete di cui qualcuno diceva poco prima: “Sa, lui non ama confessare, ama conversare, è bravissimo!”, annumerandolo q uasi tra i tesori della sua chiesa. 

Dal pulpito, intanto, senti per caso raccontare di un centinaio di giovani studenti gesuiti passati proprio qui dal Portogallo, per catechizzare nelle missioni del Brasile. Avvertiti, però, che partiva solo chi non temeva l’eventualità del martirio, solo quaranta salparono. E furono tutti martiri. Questa Chiesa è veramente un poema!



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*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l'Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista "Presenza italiana". Dopo l'esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d'Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.