I segni esterni di devozione del celebrante

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

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di don Nicola Bux*

ROMA, mercoledì, 15 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La fede nella presenza del Signore nella Chiesa, in specie quella eucaristica, il sacerdote la esprime esemplarmente con l’adorazione che si documenta nella riverenza profonda delle genuflessioni durante la Santa Messa e fuori di essa. Nella liturgia postconciliare sono ridotte al minimo: la ragione addotta è la sobrietà; il risultato è che son diventate rare, oppure sono appena abbozzate. Siamo diventati avari di gesti verso il Signore; però elogiamo ebrei e musulmani per il loro fervore nel modo di pregare.

La genuflessione più delle parole manifesta l’umiltà del sacerdote, che sa di essere solo un ministro, e la sua dignità per il potere di rendere presente il Signore nel sacramento. Ma vi sono altri segni di devozione. Le mani levate in alto dal sacerdote stanno ad indicare la supplica del povero e dell’umile: «Ti preghiamo umilmente», si sottolinea nelle preghiere eucaristiche II e III del messale di Paolo VI. L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) stabilisce che il sacerdote, «quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo» (n. 93). L’umiltà dell’atteggiamento e della parola è consona a Cristo stesso, mite e umile di cuore. Egli deve crescere e io diminuire.

Nell’incedere all’altare, il sacerdote deve essere umile, non ostentato, senza indulgere nello sguardo a destra e a manca, quasi a cercare l’applauso. Invece, deve guardare a Gesù Cristo crocifisso e presente nel tabernacolo: a Lui si fa l’inchino e la genuflessione; poi alle immagini sacre esposte nell’abside dietro o ai lati dell’altare, la Vergine, il santo titolare, gli altri santi. Sono lì per essere contemplate o solo per decorare? È in sintesi la presenza divina. Segue il bacio riverente dell’altare ed eventualmente l’incensazione; il secondo atto è il segno di croce e il saluto sobrio ai fedeli; il terzo è l’atto penitenziale, da compiere profondamente e con gli occhi bassi, mentre i fedeli potrebbero inginocchiarsi – perché no? – come nella forma straordinaria, imitando il pubblicano gradito al Signore.

Il sacerdote celebrante non alzerà la voce e manterrà un tono chiaro per l’omelia ma sommesso e supplice per le preghiere, solenne se in canto. Si preparerà inchinato «in spirito di umiltà e con animo contrito» alla preghiera eucaristica o anafora: è la supplica per definizione e va recitata in modo che la voce corrisponda al genere del testo (cf. OGMR 38); il celebrante potrebbe pronunziare con tono più alto le parole iniziali dei singoli paragrafi, e recitare il resto in tono sommesso per permettere ai fedeli di seguire e raccogliersi nell’intimo del cuore. Toccherà i santi doni con stupore, e purificherà i vasi sacri con calma e attenzione, secondo il richiamo di tanti padri e santi. Si inchinerà sul pane e sul calice nel pronunziare le parole di Cristo consacrante e nell’invocazione allo Spirito Santo (epiclesi). Li eleverà separatamente fissando in essi lo sguardo in adorazione e poi abbassandolo in meditazione. Si inginocchierà due volte in adorazione solenne. Continuerà con raccoglimento e tono orante l’anafora fino alla dossologia, elevando i santi doni in offerta al Padre. Il Padre nostro lo reciterà con le mani alzate e non tenendo per mano altri, perché ciò è proprio del rito della pace; il sacerdote non lascerà il Sacramento sull’altare per dare la pace fuori del presbiterio, invece frazionerà l’Ostia in modo solenne e visibile, quindi genufletterà davanti all’Eucaristia e pregherà in silenzio chiedendo ancora di essere liberato da ogni indegnità per non mangiare e bere la propria condanna e di essere custodito per la vita eterna dal santo Corpo e prezioso Sangue di Cristo; poi presenterà ai fedeli l’Ostia per la comunione, supplicando Domine non sum dignus, e inchinato si comunicherà per primo. Così sarà di esempio ai fedeli.

Dopo la comunione, il silenzio per il ringraziamento si può fare in piedi, meglio che seduti, in segno di rispetto, oppure inginocchiati, se è possibile, come ha fatto fino all’ultimo Giovanni Paolo II, quando celebrava nella sua cappella privata, col capo inchinato e le mani congiunte, al fine di chiedere che il dono ricevuto ci sia rimedio per la vita eterna, come nella formula che accompagna la purificazione dei vasi sacri; molti fedeli lo fanno e ci sono di esempio. La patena o coppa e il calice (vasi che sono sacri per ciò che contengono) per quale ragione non dovrebbero essere «lodevolmente» ricoperti da un velo (OGMR 118; cf. 183) in segno di rispetto – e anche per ragioni d’igiene – come fanno gli orientali? Il sacerdote, dopo il saluto e la benedizione finale, salendo all’altare per baciarlo, ancora alzerà gli occhi al crocifisso e si inchinerà, e genufletterà al tabernacolo. Quindi tornerà in sacristia, raccolto, senza dissipare con sguardi e parole la grazia del mistero celebrato.

Così i fedeli saranno aiutati a comprendere i santi segni della liturgia, che è una cosa seria, in cui tutto ha un senso per l’incontro col mistero presente di Dio (per approfondire: cf. il mio recente Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme 2010).

[Il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 12 gennaio 2011]

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*Don Nicola Bux è professore di Liturgia orientale a Bari e consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Cause dei Santi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

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ZENIT Staff

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