di Paolo Pegoraro*
ROMA, martedì, 7 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Mezzo secolo fa vedeva la luce Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor (1960), uno dei massimi capolavori della letteratura americana. Un romanzo tanto perfetto quanto urtante. «Inaffondabile» l’ha definito il critico Harold Bloom, neanche parlasse di un caccia torpediniere, e bisogna dargli ragione. Anche se piuttosto breve, leggerlo richiede tempo. Le pagine sono robuste e sostanziose come razioni di pane nero e lardo: impossibile digerirne più di una ventina al giorno. Ogni parola è definitiva, ogni frase pare incisa nella pietra e nel cielo. Il cielo è dei violenti rappresenta il vertice di un’esistenza interamente dedicata alla scrittura, che la O’Connor intese come precisa vocazione. Non ho più letto nulla di simile e, forse, neppure esiste.
Come ogni grande romanzo lo si ama o lo si detesta. Alla sensibilità politically correct apparirà come l’opera repellente di una zitella inacidita che sbatte sulla pagina “negri”, “deficienti” e amenità del genere. Siamo negli anni Quaranta, da qualche parte nel Sud degli Stati Uniti, probabilmente in Georgia. Sulla scena, una manciata di personaggi: il vecchio Mason Tarwater, suo nipote Francis Marion, lo zio Rayber e suo figlio Bishop. Apprendiamo che Mason – un predicatore ambulante con il fuoco del profetismo nelle ossa – ha appena tirato le cuoia facendo colazione. E Francis Marion, che è cresciuto con lui in una piccola proprietà tra boschi e campi di pannocchie, saluta il vecchio fanatico ubriacandosi al punto d’incendiare l’abitazione. Francis ammira più di quanto gli piace ammettere quel vecchio vissuto in balia della propria brama di assoluto, ma al tempo stesso teme che quel nocciolo di follia possa germogliare nel suo stesso sangue: «Allora anche lui sarebbe stato dilaniato dalla fame, come il prozio, il suo stomaco non avrebbe più avuto fondo e nulla avrebbe potuto guarirlo o saziarlo, se non il pane della vita».
Meglio lasciar perdere e virare su una vita normale. Inebriato da un sogno di completa autonomia, il giovane Tarwater tenta disastrosamente di apprendere un lavoro per poi arrendersi e presentarsi in casa dello zio, il maestro Rayber. Che è l’antitesi del vecchio Mason. Rayber vuole comprendere tutto per non dover credere in niente. Più che un razionalista, è un anestesista: non usa l’intelligenza per cercare la verità, quanto per addomesticare e sottomettere la realtà. Peccato che la realtà si sia fatta beffe di lui impiantando il mistero nella sua stessa casa, nella sua stessa carne. Il figlio Bishop, infatti, è un bambino «che è bambino da secoli», «un povero idiota» dagli occhi limpidi «come se dall’altra parte sprofondassero, giù, giù in due pozzanghere di luce». Uno «sbaglio della natura» che tuttavia Rayber non riesce a non amare disperatamente, quasi fosse l’ultimo baluardo di umanità inespugnato dall’implacabile volontà di dominio della sua ragione. Il giovane Tarwater, invece, lo detesta. Detesta quel bambino ritardato perché vi vede riflesso il proprio futuro, la missione che il vecchio Mason gli ha consegnato prima di morire: battezzare Bishop a ogni costo, perché «anche un idiota è prezioso per il Signore». La battaglia è tutta qui: riuscirà il gelido Rayber a “guarire” Tarwater dal fanatismo del vecchio o sarà il ragazzo a “purificare con il fuoco” gli occhi del maestro? La risposta piomberà attraverso la tragedia senza risparmiare alcuno.
Nel suo primo romanzo, La saggezza del sangue, Flannery O’Connor aveva raccontato le vicende di Hazel Motes, un «cristiano suo malgrado»; similmente il giovane Francis Marion è un «servo forzato di Dio». Nella loro rivolta all’incalzare dell’assoluto, entrambi giungono a macchiarsi con gesti estremi: «Non bisogna dire di no – aveva ammonito il vecchio Tarwater – bisogna fare di no». Eppure proprio qui sta l’eroismo di questi fervidi bestemmiatori, nel loro lanciarsi in una lotta titanica contro Dio che potrà concludersi solo con l’annichilimento di uno dei contendenti. La moralità del loro comportamento è così chiarificata dalla O’Connor: «L’integrità di una persona consiste mai in ciò ch’è incapace di fare? Credo che di solito il caso stia proprio così, poiché libero arbitrio non significa un’unica volontà, ma molte volontà a conflitto in un unico individuo».
Motes come Tarwater tentano disperatamente di distruggere il marchio dell’assoluto sulla propria vita; entrambi hanno percepito che la pretesa cristiana è talmente destabilizzante (perfino la morte – l’unica certezza! – viene stravolta) che non si può venire a compromessi. Non è possibile sottrarsi dal confronto. Non basta spiegarlo e tenerlo a bada, come fa Rayber, perché il rimosso resta lì, accucciato nel buio, tramutato in rimorso e rimpianto abissali che si possono zittire solo pietrificando il proprio cuore. Recalcitranti come il profeta Geremia e pronti alla lotta come Giacobbe, entrambi i protagonisti si formeranno alla scuola della resistenza e della resa, uscendo dallo scontro con la propria anca slogata: la vista per Hazel Motes, la fame per Francis Tarwater.
Viene da chiedersi quale commento avrebbe sganciato Flannery O’Connor, soave e leggera come l’Enola Gay sopra Hiroshima, sull’odierna pratica dello sbattezzo. Per non parlare di Arthur Rimbaud: che bisogno aveva di comporre la Stagione all’Inferno («Voglio la libertà nella salvezza […] Sono schiavo del mio battesimo […] l’inferno non può intaccare i pagani») se la questione si poteva risolvere tanto semplicemente? Forse la differenza tra il loro mondo e il nostro sta tutta qui: una visione assoluta, che non si poteva esprimere se non attraverso grande poesia (fosse pure una virulenta – ma grande! – bestemmia); e una visione che si può cancellare con un tratto di penna. Che è fatta di pratiche burocratiche, curricula, annullamenti, registri, rubriche, archivi. Di archivazione dell’assoluto. Di annullamento di ogni poesia.
Un assaggio dell’opera
Il raggio dei fanali rivelò il ragazzo al margine della strada, mezzo accucciato, la testa voltata in attesa, e gli occhi, per un istante, si accesero rossi come quelli delle lepri e dei cervi che guizzano di notte sullo stradone, davanti alle macchine in corsa. Aveva i calzoni bagnati fino al ginocchio, come se avesse attraversato una palude. L’autista, minuscolo nella cabina a vetri, fermò il camion gigantesco e lasciò il motore al minimo, mentre apriva la portiera sporgendosi sopra il sedile vuoto. Il ragazzo montò.
Era una bisarca, enorme e scheletrica, con un carico di quattro automobili, stipate come proiettili. Il conducente, un tipo segaligno, dal naso piegato seccamente all’ingiù e dalle palpebre grevi, lanciò un’occhiata sospettosa al passeggero, poi cambiò marcia e il camion riprese a muoversi, rombando clamorosamente. – Devi tenermi sveglio, altrimenti non viaggi, bellezza, – annunciò il conducente. – Non ti ho preso su per farti un favore –. La sua voce, con un accento di tutt’altra parte del paese, si arricciava all’insù alla fine di ogni frase.
Tarwater aprì la bocca, come se si aspettasse delle parole, che non vennero. Rimase a fissare l’uomo con la bocca semiaperta e il viso bianco.
– Non scherzo, ragazzino, – disse il camionista.
Il ragazzo teneva i gomiti inchiodati ai fianchi, per dominare un tremito convulso. – Voglio arrivare soltanto dove questa strada incrocia la statale Cinquantasei, – disse infine. C’erano dei curiosi alti e bassi nella sua voce, come se l’usasse per la prima volta dopo averla perduta chissà quando. Pareva che lui stesso l’ascoltasse, che cercasse di afferrare, al di là del tremito che lo scuoteva, una solida base di suono.
– Attacca a parlare, – ordinò il camionista.
il ragazzo si umettò le labbra. Dopo un momento diss
e con voce acutissima, completamente incontrollata: – Non ho mai perso tempo a parlare in vita mia. Ho sempre fatto qualcosa.
– Cos’hai fatto, ultimamente? – s’informò il camionista. – Com’è che hai i calzoni bagnati?
Il ragazzo abbassò gli occhi sui calzoni bagnati, e continuò a fissarli. Pareva che distraessero i suoi pensieri da quanto stava per dire, che assorbissero tutta la sua attenzione.
– Sveglia, cocco, – disse il camionista. – Ti ho domandato com’è che hai i calzoni bagnati.
– Perché, quando l’ho fatto, non me li sono levati, – rispose Tarwater. – Mi sono levato le scarpe, ma i calzoni no.
– Quando hai fatto cosa?
– Sto andando a casa mia, – annunciò il ragazzo. – È un posto che per arrivarci devo scendere alla Cinquantasei; poi, dopo un po’, prendo una carreggiata. Probabilmente, sarà mattina, quando ci arriverò.
– Com’è che hai i calzoni bagnati? – insisté il camionista.
– Ho annegato un bambino, – rispose Tarwater.
– Soltanto uno?
– Sì –. Il ragazzo allungò una mano e afferrò l’uomo per la manica della camicia. Per qualche secondo le sue labbra si mossero a vuoto. Si fermarono, poi ripresero, come se, dietro, vi fosse la forza d’un pensiero, ma non parole. Tarwater chiuse la bocca, poi ritentò, ma non venne alcun suono. Tutt’a un tratto la frase si precipitò fuori e svanì. – L’ho battezzato.
– Che? – fece il camionista.
– È stato un incidente. Io non volevo, – affermò Tarwater, senza fiato. Poi, con voce più calma aggiunse: – Le parole mi sono uscite da sole, ma non vogliono dir niente. Non si può nascere due volte.
– Non dare i numeri, – protestò l’uomo.
– Io volevo soltanto annegarlo, – spiegò il ragazzo. – Si nasce una volta sola. Erano soltanto parole, che mi sono scappate di bocca e sono cadute nell’acqua –. Scosse il capo con violenza, come per disperdere i suoi pensieri.
– Dove sto andando non c’è più niente, solo la stalla, – riprese poi –. La casa è bruciata ma io preferisco così. Non voglio niente di suo. Adesso è tutto mio.
– Suo di chi? – domandò l’uomo.
– Del mio prozio, – spiegò il ragazzo. – Sto tornando là. E non me ne andrò più. Là sono il padrone. Nessuna voce si leverà contro di me. Non avrei mai dovuto andarmene, solo che dovevo dimostrare che non ero un profeta, e adesso l’ho dimostrato –. Fece una pausa e diede uno strattone alla manica del conducente. – L’ho dimostrato annegandolo. E anche se l’ho battezzato, è stato un incidente. Adesso posso farmi gli affari miei finché vivo. Non devo fare battesimi né profezie.
L’uomo lo guardò, brevemente, poi tornò a fissare la strada.
– Non ci sarà né distruzione né fuoco, – dichiarò il ragazzo. – C’è gente che sa agire e gente che non sa agire, gente che ha fame e gente che non ne ha. Tutto qui. Io so agire. E non ho fame –.Le parole si affollavano come se facessero a spintoni per uscire. Poi, improvvisamente, il ragazzo tacque. Aveva l’aria di studiare l’oscurità che i fari spingevano davanti a loro, sempre alla stessa distanza. Improvvisi cartelli pubblicitari balzavano su e svanivano, ai lati della strada.
– È una storia senza capo né coda, ma inventane un altro pezzo, – invitò il camionista. – Devo restar sveglio. Non ti do un passaggio per divertimento.
– Non ho altro da dire, – fece Tarwater. La sua voce era esile come se qualche parola in più dovesse distruggerla per sempre. Sembrava che si rompesse, appena un suono aveva trovato la strada per uscire. – Ho fame, – annunciò Tarwater.
– Hai appena detto che non avevi fame, – osservò il camionista.
– Non ho fame di pane della vita, – spiegò il ragazzo. – Ho fame di qualcosa da mangiare, subito. Ho vomitato il pranzo e non ho cenato.
Il camionista si frugò in tasca e tirò fuori un mezzo tramezzino, avvolto nella carta oleata. – Prendi questo, – offrì. – Ne ho mangiato un boccone solo. Non mi piaceva.
Tarwater prese il tramezzino e lo tenne in mano, incartato. Non lo svolse.
– E dài, mangia! – fece il camionista, esasperato. – Cos’è che hai?
– Quando è il momento di mangiare non ho fame, – spiegò Tarwater. – È come se il vuoto nel mio stomaco fosse una cosa solida che non permette a nient’ altro di andar giù. Se lo mangiassi, vomiterei.
– Senti, – fece il camionista, – io non voglio che tu mi faccia i gattini qua dentro, e se hai qualche malattia contagiosa, fai il favore di scendere subito.
– Non sono malato, – replicò il ragazzo. – Non sono mai stato male in vita mia, salvo qualche volta, quando ho mangiato troppo. Quando l’ho battezzato, erano soltanto parole. A casa, sarò il padrone. Dovrò dormire nella stalla, finché non potrò ricostruirmi una casa. Se non fossi stato così idiota, l’avrei portato fuori e l’avrei bruciato all’aperto. Non avrei bruciato la casa, insieme a lui.
– Vivendo s’impara, – affermò il camionista.
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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L’Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.