di Mariaelena Finessi
ROMA, lunedì, 23 agosto 2010 (ZENIT.org).- Laggiù in Congo la chiamano coltan: sabbia nera radioattiva particolarmente richiesta dalle industrie di informatica, robotica e telefonia. Conteso dai gruppi para militari e dai guerriglieri, in feroce lotta tra di loro per accaparrarsene l’estrazione, il coltan rende appetibili la regione del Kivu (sul confine centro-orientale del Paese) e i due stati confinanti, Rwanda e Uganda, dove gli intermediari – organizzazioni criminali europee ed asiatiche dedite al traffico illegale di armi – trattano personalmente lo scambio con il minerale.
Il risultato è uno stato di povertà pressoché totale per la popolazione che a 50 anni dall’indipendenza dal Belgio è dilaniata dalla guerra civile e che, nonostante le grandi ricchezze (diamanti, coltan, oro, legname), vive con poco più di un dollaro al giorno. Uno dei punti più cruciali è che i gruppi armati che si impossessano del minerale, vendendolo con grossi introiti ad acquirenti principalmente occidentali od asiatici, non commettono di fatto alcun reato secondo le leggi dei tre stati.
Qualcosa, però, potrebbe presto cambiare – almeno sulla carta – con la nuova legge Dodd-Frank votata a fine luglio dal Congresso degli Stati Uniti atta a regolare le transazioni finanziarie e per l’approvazione della quale molto si è spesa la Conferenza episcopale dei vescovi del Congo (CENCA). Tra le 2.300 pagine è stato inserito infatti l’articolo 1502 che impone alle aziende statunitensi di rivelare quali procedure intendano adottare per assicurare che i loro prodotti (ad esempio cellulari, laptop e apparecchiature mediche) non contengano i cosiddetti “conflict minerals” congolesi, appunto i minerali venduti sul mercato internazionale e che fanno la fortuna dei soli malavitosi.
Il sistema è simile al “Kimberly Process” concepito per certificare i diamanti e dunque volto a impedirne il commercio internazionale quando provengono dalle miniere controllate dai guerriglieri del Sierra Leone e della stessa RDC. La nuova normativa impone alle aziende di presentare una relazione annuale alla Securities and Exchange Commission (l’ente di controllo della borsa) nella quale dovranno specificare se utilizzano dei minerali che sono presenti allo stato naturale nelle zone di conflitto. Nel caso sia così, dovranno descrivere le misure adottate per stabilirne l’origine e la tracciabilità.
Verrà infine introdotta un’etichetta “DRC Conflict Free” per certificare i prodotti che non utilizzano i minerali i cui proventi finanziano i gruppi armati congolesi. Quanto possa essere efficace tutto questo, però, non è dato saperlo: la legge non impone di fatto alcuna penalità per le imprese che ammettono di non impedire l’acquisto di “conflict minerals“. Resta però l’obbligo di rendere pubbliche le informazioni su siti web delle imprese stesse. Ai consumatori sarà quindi data la possibilità dì scegliere se acquistare o meno i prodotti che indirettamente finanziano la guerra civile nell’est dell’ex Congo Belga.
Per raggiungere un tale traguardo i vescovi congolesi hanno messo in atto una vera azione di lobbying con il “progetto Vade Mecum” con il quale hanno avviato nel 2008 una campagna di sensibilizzazione che, tra le altre cose, prevede: la promozione di studi e ricerche indipendenti; incontri per educare la popolazione ad esigere rispetto, trasparenza e partecipazione nelle decisioni che riguardano le risorse naturali del Paese; la formazione di equipe mediche che possano valutare gli effetti radioattivi nelle aree di sfruttamento minerario. E, affinché tutte le misure da adottare e i diritti da far valere siano noti a ciascun congolese, l’impegno è di tradurre ogni documento nelle lingue nazionali.
Sulla scorta di tanto lavoro, monsignor Nicolas Djomo, vescovo di Tshumbe e presidente della Conferenza episcopale, non nasconde l’entusiasmo alla notizia dell’approvazione della normativa USA. «È soprattutto a partire dall’analisi delle cause dei ricorrenti conflitti – ha spiegato Djomo nel corso di una conferenza stampa tenuta il 2 agosto presso il centro interdiocesano di Kinshasa – che la CENCO si è sentita obbligata ad alzare la voce per sottolineare il legame tra lo sfruttamento delle risorse naturali, i conflitti armati, le violazioni dei diritti umani, le imponenti deportazioni delle popolazioni, l’aggravarsi della povertà e della miseria, e la stessa distruzione dell’ambiente».
Un impegno, quello della Chiesa cattolica locale, che quasi si perde nel tempo. Già «nel messaggio del 1999, “Non abbiate paura… (Lc 12,32). La drammatica situazione attuale e il futuro della Repubblica democratica del Congo“, la CENCO aveva denunciato i saccheggi del patrimonio realizzati in specie dalle forze d’occupazione. Elle criminalizzava – ha ricordto il vescovo – la svendita e l’alienazione delle concessioni minerarie ed agricole attraverso degli accordi firmati in modo discutibile ed ha constatato che coloro che facevano la guerra si arricchivano in modo scandaloso augurandosi che la guerra non avesse mai fine».
Sempre nel 1999, nella notte di Natale, monsignor Emmanuel Kataliko, vescovo di Bukavu, pronunciò un’omelia coraggiosa: «Potenze straniere, in combutta con i nostri fratelli congolesi, ancora una volta hanno organizzato la guerra per le risorse naturali del nostro Paese. Le nostre ricchezze oggi servono solo ad ucciderci. Il nostro Paese, il nostro popolo, sono diventati oggetto di sfruttamento. Tutto quel che ha valore è saccheggiato, esportato, o semplicemente distrutto».
Parole dure che a Kataliko costarono l’esilio a Roma, dove morì dopo poco. Così come era morto anche il suo predecessore, Christophe Munzihirwa, trucidato sulla piazza centrale di Bukavu da un gruppo di ribelli congolesi e di soldati ruandesi.
Deciso a difendere con ogni mezzo legale gli interessi del popolo, l’Episcopato congolese ha pure deciso durante la 43esima sessione plenaria del luglio 2007, di istituire un organismo tecnico incaricato di sovrintendere a tutte le questioni relative alle risorse naturali nella Repubblica democratica del Congo, ossia una Commissione episcopale ad hoc per la risorse naturali (CERN).
«Convinto della responsabilità della comunità internazionale – spiega l’abate Donatien Nshole Babula, Primo Segretario Aggiunto della CENCO -, pur senza negare la vergognosa e tragica complicità di alcuni leader locali nell’abusare delle risorse naturali della RDC, i pastori del popolo di Dio in Congo hanno capito che la loro battaglia non sarà vinta se non coinvolgendo alcune istituzioni internazionali capaci di influenzare gli avvoltoi della ricchezza congolese».
Nell’attesa che gli USA elaborino una cartografia delle zone coinvolte nei conflitti e nello sfruttamento delle risorse naturali, monsignor Djomo ha lanciato un appello ai responsabili governativi perché il fine sia una crescente messa in sicurezza dello Stato africano: «Il paese non sarà sicuro delle sue risorse senza un vero esercito repubblicano in grado di difendere la sicurezza del suo popolo e l’integrità territoriale contro i progetti di persistente balcanizzazione. Ciò comporta il completamento della riforma dell’esercito e della polizia».
Allo stesso modo, la Chiesa cattolica continuerà l’opera di sensibilizzazione «animata dall’amor di patria – conclude il vescovo –, in vista di una gestione responsabile delle risorse, tutto a vantaggio della popolazione e nel rispetto dell’ambiente».