ROMA, domenica, 25 luglio 2010 (ZENIT.org).- Abbiamo ancora una volta, questa volta in Germania, l’apertura del varco verso l’eutanasia: è chiamata passiva, ma nella realtà è omissiva, perché prevede la cessazione di terapie o cure mediche valide e ancora efficaci, ritenute finora doverose anche dai codici deontologici europei e internazionali
La Corte Suprema tedesca ha basato questa decisione sulla volontà del paziente, espressa in vita, e i giornali non hanno mancato di sottolineare questa volontà del paziente, la sua autonomia. Intanto, non sembra comprovato neppure questo fatto, ma si capisce che sarà portata avanti questa base giuridica. Ma tiene?
Noi sappiamo che ogni azione libera e responsabile deve nascere da una decisione del soggetto; tutte le azioni moralmente rilevanti nascono da questa fonte, ma l’azione che decide di togliere la vita non può essere moralmente giustificata, perché è soppressiva della stessa fonte dell’autonomia.
Della vita, inoltre, non abbiamo il dominio, quello che chiamiamo la disponibilità. La vita non ci appartiene e non dipende da una nostra scelta: questo vale per tutti, laici e credenti. Prendere e distruggere un bene come la vita che non mi appartiene, non si può chiamare autonomia, è uccisione e soppressione colpevole.
Chi pretende di esaltare l’autonomia con una deliberazione di morte compie un assurdo ed un atto d’indebito arbitrio. E’ proprio grazie alla vita, che possiamo essere autonomi nelle scelte, si spera, responsabili.
La storia dell’intronizzazione di questo principio, pseudo-principio, è lunga e comincia secondo gli studiosi più accreditati (Vedi Ch. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli 2009) dal 1500 con il processo di secolarizzazione, quando si cominciò a togliere in un primo tempo il carattere sacro della autorità politica (laicizzazione del potere).
A questa prima fase di riappropriazione del potere politico da parte dell’uomo-principe e poi dalla borghesia, che ebbe il suo vertice nella Rivoluzione Francese, si operò la esclusione di Dio nella vita sociale che cessò di essere organizzata religiosamente nelle attività lavorative, nel divertimento, nella cultura di tutti i livelli, finché si giunge al 3º livello in cui cambia il centro di riferimento, di legittimazione: per molto tempo era stato Dio; ora è l’Io.
La intronizzazione dell’ “Io legislatore” si è compiuta gradualmente ed è giunta a pretendere l’autonomia assoluta: quell’autonomia che riconosce soltanto l’Io stesso come creatore della verità, della legge morale e pretende l’autodeterminazione non soltanto degli atti morali, ma anche sulla vita stessa. E’ il culmine della secolarizzazione, è il nostro periodo. Questo Io è nihilista, perché non intende riconoscere nulla che sia fuori del proprio Io di modo che valga anche per gli altri; è un Io solitario e asociale nella radice stessa delle decisioni.
Ma, se non esiste Dio, neppure l’Io ha più una radice di sicurezza e di verità, che dia spazio alla speranza e motivi interiormente una ragione di vivere.
Per questo nel Manifesto dell’Eutanasia del 1974 i firmatari, tra cui i Premi Nobel Monad e Pauling scrivevano:
“L’uomo sa finalmente di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso”. Da questa premessa concludevano:
“affermiamo che è immorale accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nel valore e nella dignità dell’individuo; ciò implica che lo si lasci libero di decidere ragionevolmente della sua sorte… Non può esserci eutanasia umanitaria all’infuori di quella rapida ed indolore ed è considerata come un beneficio dell’interessato. E’ crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere e che le si rifiuti l’auspicata liberazione, quando la sua vita ha perduto qualsiasi bellezza, significato, di avvenire. La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere eliminato nelle società civilizzate” (The Humanist, luglio 1974).
Sappiamo che non è né umano né cristiano imporre trattamenti e sofferenze inefficaci, (il c.d. accanimento terapeutico) ma sappiamo che la persona non può chiedere la morte anticipata soltanto perché nella solitudine chiusa non ne comprende più il significato.
In questi casi l’aiuto è nel restituire significato alla vita e nel dare solidarietà per rompere la solitudine e nel presentare una ulteriorità trascendente.
L’avvocato che ha consigliato alla figlia di interrompere la erogazione delle cure di sostegno alla madre, senza che questa l’avesse chiesto per giunta, almeno in quel momento, ed è stato assolto dal reato di istigazione al delitto, ha provocato la morte, insieme alla figlia, a quella anziana madre e nel momento in cui è stato assolto ha provocato una ferita mortale alla inviolabilità della vita da parte della Corte di giustizia e nella coscienza di un intero popolo.
Per la nostra “pastorale della vita” si impone urgentemente una presentazione luminosa sia della Creazione, dell’Amore del Creatore, e poi su Gesù Cristo Morto, Risorto che ha vinto la sofferenza e il dolore e ci viene suggerito impegnarci per la presentazione della Vita eterna, la possibilità di vera e piena realizzazione per ciascuno della felicità.
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*Mons. Elio Sgreccia è Presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita.