L'influsso orientale nella Chiesa ambrosiana

ROMA, sabato, 24 luglio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo ampi stralci della conferenza che l’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi ha tenuto mercoledì 21 luglio in Libano, presso il convento Mar Roukoz di Dekwaneh, alla periferia di Beirut, alla presenza di autorità religiose e politiche del Paese.

 

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La Chiesa di Milano è sempre stata aperta all’Oriente. Questo rapporto è attestato da moltissime testimonianze, a partire dalla tradizione — sebbene leggendaria — secondo la quale l’origine della Chiesa milanese risalirebbe a san Barnaba, il levita di Cipro protagonista con san Paolo della prima evangelizzazione in Asia minore. Ancor oggi la Chiesa ambrosiana ricorda il 25 settembre tutti i santi vescovi milanesi dei primi secoli, tra i quali spiccano molti nomi chiaramente greci o orientali: così Anàtalo, Calimero, Mona, Eustorgio, Dionigi, Màrolo originario della provincia del Tigri, Lazzaro ed Eusebio. Ancora: la prima chiesa cattedrale di Milano era dedicata a santa Tecla, martire della chiesa di Siria, le cui reliquie principali sono venerate nella chiesa di Ma‘alula dove, sulle aspre montagne tra Damasco e il Libano, si continua a parlare l’aramaico come ai tempi di Gesù.

Mi pare che l’atteggiamento del credente ambrosiano è riassumibile nella felice formula latina Ex oriente lux, dove l’Oriente è divenuto simbolo di tutti i misteri, dei quali il vertice è il mistero di Cristo e della sua Chiesa. Ora fin dai suoi inizi la Chiesa ha accolto la ricca molteplicità dei significati propri dell’Oriente: significati che rimandavano alle potenze dell’universo — la luce, l’energia, il fuoco, la nascita, la risurrezione, la forza, la sapienza — e che venivano vivificati con la riflessione dei Padri. Il loro pensiero dalle scuole catechetiche di Siria e di Cappadocia, di Palestina e d’Egitto, è passato alla Chiesa di Milano, grazie alla mediazione di Ambrogio.

L’influsso orientale è rimasto vivo — e lo è tuttora — nella Chiesa di Milano come emerge dai moltissimi aspetti della sua vita liturgica. Le melodie dei canti sacri, i ritmi del digiuno e delle feste che danno rilievo al sabato, le processioni come quelle del santo Chiodo della Croce e dei santi Magi, il rito della Lampada che dalla chiesa di San Sepolcro viene portata nella notte pasquale ad accendere il cero pasquale in Duomo, le particolari anafore e i cicli di letture sacre, sono tutti segni che ancora saldano in Milano la tradizione d’occidente con quella d’oriente. Ma è soprattutto nei riti della Settimana santa che si manifesta un’originale e felice sintesi tra la mistica bizantina della luce mite e gioiosa, che celebra la gloria della creazione e della redenzione, e il pragmatismo occidentale, romano e gallicano.

È importante rilevare come la Chiesa di Milano abbia svolto un servizio umile e prezioso per l’unità cattolica nell’ecumene cristiana quando, agli inizi del secolo iv, cominciava a manifestarsi il pericolo della dottrina ariana. I vescovi Protaso ed Eustorgio i promossero la fede professata nel concilio di Nicea, e dopo di essi nel 355 il vescovo Dionigi sopportò con coraggio l’esilio impostogli dall’imperatore Costanzo, per il fatto che aveva rifiutato di sottoscrivere l’eresia ariana. Soprattutto Ambrogio con i suoi principali scritti teologici (De fide, De Spiritu sancto, De incarnationis dominicae sacramento) contribuì a formare una solida teologia trinitaria latina, alimentata da fonti greche.

Particolarmente grave fu la separazione che s’introdusse tra la Chiesa latina e quella greco-bizantina, e alcuni errori tragici — come lo scisma con la Chiesa bizantina del 1054, il sacco crociato di Costantinopoli, gli atteggiamenti di disprezzo e di antisemitismo — segnarono questo lungo periodo storico.

In questo quadro piuttosto buio, la tradizione ambrosiana continuò a offrire un po’ di luce, perché specialmente nell’architettura sacra e nella liturgia mantenne vivo nel popolo il senso d’uno stretto rapporto con l’Oriente. Intorno all’anno 1000 sorge sull’area del Foro, ormai abbandonato, una chiesa che col tempo viene ristrutturata sul modello della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme e per questo chiamata con il nome di San Sepolcro. Questo tempio, collocato nel cuore della Milano romana, medievale e moderna, divenne ben presto centro della spiritualità del movimento di riforma della Chiesa ambrosiana, contribuendo a mantenere fisicamente e spiritualmente viva, fino a oggi, la devozione e la coscienza di un rapporto diretto e peculiare fra Milano, Roma, Costantinopoli e Gerusalemme. San Sepolcro costituisce per noi, ancora oggi, un invito e un appello all’unità ecumenica della Chiesa indivisa di Cristo, e alla solidarietà con il popolo primogenito dell’Alleanza, Israele «secondo la carne». Ci è chiesta, oggi, una più viva coscienza del debito di grazia che ci lega con l’Oriente: c’è una ricchezza spirituale e di umanità che, lungo i secoli e in modalità diverse, ci è stata donata. E ciò deve suscitare in noi ammirazione, gratitudine e insieme rinnovata responsabilità per il presente e il futuro delle nostre Chiese. Per alimentare questa coscienza siamo chiamati a una maggiore conoscenza della vostra situazione, non solo sociale, economica, culturale e politica, ma anzitutto religiosa ed ecclesiale. Il localismo rischia, infatti, di trasformarsi per tutti in isolazionismo. Al contrario il fenomeno storico della crescente globalizzazione e ancor più la natura universalistica della Chiesa del Signore ci spingono a essere più attenti — direi più curiosi — delle vicende difficili e promettenti dei nostri popoli e delle nostre comunità religiose.

La conoscenza passa, in modo più concreto, popolare ed efficace, attraverso la visita e la presenza sul territorio delle Chiese orientali. È quanto avviene soprattutto con i pellegrinaggi che con il concilio Vaticano ii e il postconcilio hanno ricevuto un particolare impulso e un’ampia diffusione. Per la Terra Santa vorrei ricordare l’esperienza della Chiesa ambrosiana, che vede nell’arcivescovo milanese Andrea Carlo Ferrari il primo cardinale che porta i suoi diocesani a visitare Gerusalemme e la terra del Signore e a diffonderne la pratica. Per stare poi agli anni a noi più vicini non posso dimenticare il mio predecessore, il cardinale Carlo Maria Martini, per la sua intensa attività pastorale ecumenica e, conclusa la sua guida pastorale della diocesi, per la sua presenza per alcuni anni a Gerusalemme, favorendo così una straordinaria fioritura di pellegrinaggi dalla diocesi di Milano. In questo momento, a distanza di poco più d’un mese dalla tragica morte di monsignor Luigi Padovese, ricordo la serie di pellegrinaggi in terra di Turchia in occasione dell’Anno paolino.

Una provvidenziale occasione a noi vicina, dal 10 al 24 ottobre di quest’anno, è la celebrazione del Sinodo dei vescovi come Assemblea speciale per il Medio Oriente, dal tema «La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza».

L’impegno immediato che ci viene affidato è la lettura dell’Instrumentum laboris con le riflessioni che suscita e i confronti che stimola. Da questo testo, che riferisce peraltro le risposte fornite dai rappresentanti delle Chiese particolari del Medio Oriente al questionario dei Lineamenta, risulta che la situazione della fede e della vita ecclesiale si rivela piuttosto ricca di convergenze sia nell’ambito occidentale che in quello orientale, evidentemente con la presenza di differenze inevitabili dovute alla tipicità dei singoli popoli e delle circostanze concrete. È dunque un testo meritevole di essere affrontato nei problemi posti con un discernimento evangelico condiviso.

Vorrei soffermarmi su tre passaggi dell’Instrumentum laboris che ritroviamo nella conclusione sotto l’interrogativo: «Quale avvenire per i cristiani del Medio Oriente?». Siamo rimandati a ritrovarci tutti quanti, fratelli e sorelle, nella preoccupazione per le difficoltà del m
omento presente e nella speranza, fondata sulla fede cristiana, in un futuro migliore, pieno di filiale affidamento alla divina Provvidenza.

«La storia ha fatto sì che diventassimo un piccolo gregge. Ma noi, con la nostra condotta, possiamo tornare a essere una presenza che conta. Da decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’egoismo delle grandi potenze hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione» (n. 118).

E quindi: «Anche se, a volte, pastori e fedeli possono cedere alla sconforto, dobbiamo ricordare che siamo discepoli del Cristo risorto, vincitore del peccato e della morte. Abbiamo quindi un avvenire e dobbiamo prenderlo in mano. Ciò dipenderà in gran parte dalla maniera con cui sapremo collaborare con gli uomini di buona volontà in vista del bene comune delle società di cui siamo membri. Ai cristiani del Medio Oriente, si può ripetere ancora oggi: “Non temere, piccolo gregge” (Luca, 12, 32), tu hai una missione, da te dipenderà la crescita del tuo Paese e la vitalità della tua Chiesa, e ciò avverrà solo con la pace, la giustizia e l’uguaglianza di tutti i suoi cittadini!» (n. 119).

Infine: «La speranza, nata in Terra Santa, anima tutti i popoli e le persone in difficoltà nel mondo da 2.000 anni. Nel mezzo delle difficoltà e delle sfide, essa resta una fonte inesauribile di fede, carità e gioia per formare testimoni del Signore risorto, sempre presente tra la comunità dei suoi discepoli» (n. 120). Di questa speranza, che viene dal Risorto e dal suo Spirito, tutti abbiamo immenso bisogno.

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[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – del 24 luglio 2010]

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ZENIT Staff

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