I profughi del Nagorno Karabach sperano di tornare a casa

di Serena Sartini

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ROMA, domenica, 18 luglio 2010 (ZENIT.org).- Il volto è commosso, gli occhi lucidi. Davit, 27 anni, trattiene a stento le lacrime quando, dal campo profughi del conflitto del Nagorno Karabach, a Baku, in Azerbaijan, ricorda i suoi anni – da bambino – trascorsi in un campo profughi in Georgia.

Davit è georgiano, ma ha una famiglia mista, dove si incrociano radici georgiane e radici abcase.

Ora abita a Tiblisi, ma gli anni bui nel campo sfollati a Qobuleti sono stati duri. “Anche io ho vissuto in un campo di sfollati – racconta il ragazzo –, mi ricordo giorni e giorni senza cibo e senza vestiti, e quando ero piccolo chiedevo sempre perché tutto questo succedesse a me e non agli altri”.

“E’ stato un periodo molto difficile. Poi ho studiato tanto, prima in Georgia, a Tiblisi, e poi in Italia, grazie all’Associazione Rondine, con la quale ho capito che tutte le persone possono cambiare qualcosa, e non dobbiamo aspettare il passo degli altri”.

“Credo che anche io, nel mio piccolo, posso fare qualcosa per risolvere i conflitti nella mia area”, ha confessato.

Questo sabato mattina la delegazione di Rondine – Cittadella della Pace, che si trova in Azerbaijan per un “Viaggio di Amicizia” nel Caucaso del Sud, ha visitato il campo profughi del distretto Binagadi, a Baku, per vedere con i propri occhi come vive questa gente, allontanata dalla propria terra.

Una stanza di 15 metri quadrati dove vivono anche 5-6 persone. Bambini, uomini, donne, anziani: tutti arrivano dal Nagorno Karabach, uno dei tanti conflitti dimenticati nel mondo. Il bagno e la cucina sono in comune con altre famiglie, perché manca l’elettricità. Al terzo piano non arriva e tocca condividere la stanza. L’odore è nauseabondo. Non si respira, c’è poca aria.

“Ci manca l’aria. Qui è un carcere”, dicono.

I bambini corrono lungo la strada – sterrata – del cortile. Giocano con pistolette giocattolo: nella loro vita il segno della guerra è già inciso. A pochi passi c’è un via vai per il mercato: è strettissimo e affollatissimo. Qui i più anziani cercano di raccattare poche manat (la moneta azera) per poter in qualche modo sopravvivere. Qualcuno si è inventato un tavolino mezzo rotto per giocare a carte.

“Ho visto morire davanti ai miei occhi bambini, uomini, donne. Ho perso anche mio fratello”, racconta uno dei profughi.

“E’ un ricordo molto doloroso. Da 11 anni vivo in questo campo profughi, le condizioni sono pessime. Vogliamo tornare a casa, vogliamo tornare nel Nagorno Karabach”, ripete l’uomo senza uccidere la speranza.

“Quella è la nostra terra. Sono sicuro che ci torneremo, ce l’ha promesso il nostro Presidente”, conclude, con la luce negli occhi di chi spera ancora.

Il dipartimento per i profughi del Nagorno Karabach ha poi portato la delegazione di Rondine a visitare i nuovi campi costruiti dal Governo azero, con migliori condizioni di vita.

In queste strutture, simili a case popolari, vivono 369 famiglie. Le stanze sono per due-tre persone, ci sono il riscaldamento e l’elettricità. Ma le case non possono essere acquistate, sono di proprietà dello Stato.

Eppure queste nuove costruzioni, affiancate anche da una scuola secondaria per i bambini dai 7 ai 18 anni, lasciano ben sperare che il maggior numero possibile di sfollati possa essere prima o poi reintegrato.

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ZENIT Staff

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