Il prossimo più prossimo

XV Domenica del Tempo Ordinario, 11 luglio 2010

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 9 luglio 2010 (ZENIT.org).- “Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: ‘Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?’. Gesù gli disse: ‘Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?’. Costui rispose: ‘Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso’. Gli disse: ‘Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai’. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: ‘E chi è il mio prossimo?’. Gesù riprese: ‘Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente tirò fuori due denari e li diede all’albergatore dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più te lo darò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?’. Quello rispose: ‘Chi ha avuto compassione di lui’. Gesù gli disse: ‘Va’ e anche tu fa’ così’” (Lc 10,25-37).

Anche l’evangelista Marco racconta di un tale che domandò a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Gesù non gli risponde con una parabola, ma, dopo aver accertato la sua osservanza dei comandamenti, lo invita a lasciare tutto e a seguirlo.

Marco suggerisce così che la prima cosa da fare per “ereditare la vita eterna” (la pienezza beata della comunione con Dio) è seguire colui che è la Vita eterna: un “fare” che necessariamente consiste nella rinuncia ad ogni pretesa di autosufficienza e nella beatitudine del distacco da quei beni che vorrebbero garantirla: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,1).

Un simile distacco sembra più impegnativo e difficile dello slancio generoso del Samaritano, ma non è confronto da fare, perché in realtà ne è il presupposto profondo. Egli infatti non rappresenta solamente una mirabile icona di bontà (il nome “buon samaritano” è divenuto sinonimo di pietà, di misericordia, di “buon cuore”), quanto piuttosto di quell’essenziale distacco del cuore che Gesù chiedeva al giovane ricco: il Samaritano è pronto a rinunciare subito al suo programma, al suo viaggio, alle sue cose; non bada né alla fatica, né al tempo, né al denaro, né al giudizio altrui pur di soccorrere l’uomo “mezzo morto” in cui s’è imbattuto per caso. I suoi gesti amorevoli ed esperti, la sua ansia per l’uomo colpito dimostrano che egli possiede il tesoro più prezioso che ci sia: la compassione del cuore.

I due racconti evangelici (Mc e Lc) orientano perciò la riflessione verso un centro e un messaggio comune: quell’amore puro e concreto che sa immediatamente farsi prossimo del fratello sofferente.

Ma la parabola odierna ci porta a riflettere ulteriormente.

La domanda del dottore della Legge, oggi, risuona così: chi è il mio prossimo più prossimo? Qual è l’ambito della prossimità (intendendo con questa parola il grido silenzioso del fratello bisognoso di soccorso) che interpella più da vicino il cuore?

Giorni fa mi sono recato nella Rianimazione dell’ospedale a visitare un sacerdote operato, già sveglio e seduto nel letto; nella lunga stanza, osservavo la fila degli altri pazienti immobili nel letto, intubati e incannulati, come “mezzi morti”. Gli ho chiesto: “E’ passato il medico?”. Risposta: “E’ passato, ma ha finito velocemente il giro limitandosi a guardare le cartelle ai piedi del letto di ognuno”.

Ecco: la prossimità professionale c’era stata, ma non quella umana.

Allora ho fatto anch’io un brevissimo giro, per consegnare nella mano di chi poteva alzarla la preghiera per ottenere la prossimità perfetta: “O Maria, aurora di un mondo nuovo, Madre dei viventi, affidiamo a te la causa della vita…” (Enciclica “Evangelium vitae”, n. 105).

Torniamo al Vangelo. Gesù oggi conclude così: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc 10,37). Dice “Va’”, che non significa “torna a casa”, ma: va’ subito a farti prossimo di coloro che hanno bisogno del tuo aiuto. Viene allora da domandare al Signore: “da chi devo andare? Dove mi mandi?”.

Proviamo una direzione. Quell’uomo “mezzo morto”, probabilmente di lì a poco sarebbe morto del tutto se non fosse stato soccorso, inerme e sanguinante com’era, incapace a proseguire da solo il cammino verso un luogo di rifugio. La sua condizione la possiamo paragonare a quella di un uomo traumatizzato della strada, che sta perdendo sangue da un’arteria lacerata, prigioniero delle lamiere.

Ecco: io credo che Gesù ci voglia mandare anzitutto là dove ci sono fratelli particolarmente deboli ed indifesi, destinati inesorabilmente a morire in breve tempo a causa dell’aggressione improvvisa di un nemico.

Certo sono molti i luoghi dove incontrare e soccorrere queste persone percosse a morte, ma rileggendo la citata preghiera a Maria possiamo riconoscere anzitutto quelli che Giovanni Paolo II ha messo al primo posto: “..guarda, o Madre, al numero sconfinato di bimbi cui viene impedito di nascere”!

Sì, sono loro, sono i bambini nel grembo, quei piccoli e piccolissimi innocenti che hanno già iniziato il cammino della vita e ai quali un ingiusto aggressore vuole togliere tutto, togliendo loro la vita. E per quale motivo? Rispondo con parole non mie. Il motivo primo ed ultimo è questo: “tu morirai perché io possa vivere meglio”.

Una terribile formula di morte che riassume la filosofia perversa sia dell’aborto sia della fecondazione artificiale, dove una donna acconsente a far distruggere una decina di figli per farne nascere a tutti i costi uno solo.

Ma la pace del cuore non viene altro che dalla formula perfetta della prossimità evangelica, che il Buon Samaritano Gesù ci ha mostrato ed insegnato: “io darò la mia vita perché tu possa vivere meglio”.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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