KARAGANDA (Kazakistan), lunedì, 5 luglio 2010 (ZENIT.org).- L’esperienza fatta da giovane quando sfuggiva alle autorità comuniste pur di poter andare a Messa, ha instillato nell’attuale vescovo ausiliare di Karaganda una particolare devozione per l’Eucaristia che egli si augura possa essere condivisa da tutti.
Monsignor Athanasius Schneider è il segretario generale della Conferenza episcopale del Kakakistan e autore del libro “Dominus Est. It is the Lord: Reflections from a Bishop in Central Asia on Holy Communion" (Newman House Press, 2009), in cui parla di come ricevere l’Eucaristia in maniera appropriata.
Nato in Kirghizistan, dove i suoi genitori tedeschi erano stati esiliati dal regime comunista. Nel 1973 è migrato in Germania, trasferendosi dopo poco in Austria per entrare nel monastero dei Canonici regolari della Santa Croce.
Monsignor Schneider insegna teologia al Seminario Mary, Mother of the Church di Karaganda sin dal 1999. La sua ordinazione episcopale è avvenuta a Roma il 2 giugno 2006.
In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, il Vescovo parla della sua esperienza nella Chiesa cattolica mentre viveva sotto il regime comunista, del percorso che lo ha portato fino al suo attuale incarico, e delle necessità della comunità in Kazakistan.
Quando si sente parlare del Kazakistan non si pensa immediatamente ai cattolici, ma in effetti la Chiesa cattolica ha radici profonde in quel Paese. Ci può parlare della storia della Chiesa cattolica in Kazakistan?
Mons. Schneider: Vorrei precisare: non la Chiesa cattolica in sé, ma il Cristianesimo stesso ha radici molto profonde.
Già nel III e IV secolo vi erano segni del Cristianesimo in Asia centrale e nel Medioevo vi sono stati anche missionari di rito latino. Ma la grande presenza del Cristianesimo e soprattutto dei cattolici è legata al regime di Stalin.
Alla fine degli anni ’30 Stalin ha fatto deportare milioni di europei in Kazakistan, che è diventato un enorme campo di concentramento in cui improvvisamente si sono ritrovati quasi mezzo milione di cattolici.
Questa presenza era tuttavia caratterizzata dalla sofferenza e la Chiesa poteva esistere solo se clandestina.
Lei è tedesco. Come è arrivato in Kazakistan?
Mons. Schneider: I miei genitori facevano parte degli insediamenti tedeschi nel Mar Nero, vicino Odessa. Verso la fine della Seconda guerra mondiale, le forze armate tedesche hanno preso tutta questa gente – 300.000 persone – e l’hanno portata a Berlino per proteggerla dai russi.
E quando l’esercito russo ha occupato Berlino questa gente è stata ripresa e messa ai lavori forzati, dislocandola in tre luoghi: Kazakistan, Siberia e gli Urali.
I miei genitori sono finiti tra i monti degli Urali. Sono stati costretti a lavorare lì ed è un miracolo che siano sopravvissuti. Quando sono stati liberati si sono spostati in Asia centrale, che allora faceva parte dell’Unione Sovietica. Sono andati nell’attuale Kirghizistan, una piccola Repubblica ai confini con la Cina, poco al di sotto del Kazakistan.
Lì sono nato io e ho vissuto la mia infanzia. Poi, dal Kirghizistan ci siamo trasferiti in Estonia, che era ancora parte dell’Unione Sovietica. Lì ho vissuto per quattro anni.
Avevamo una chiesa a 100 chilometri di distanza e solo lì potevamo andare a Messa.
Ogni domenica percorrevate 100 chilometri?
Mons. Schneider: Una volta al mese, perché non ce lo potevamo permettere. Eravamo quattro figli più i genitori.
Come vi spostavate, in macchina?
Mons. Schneider: In treno. Ma anche così era pericoloso, perché a quel tempo il governo comunista vietava ai bambini di partecipare alla Santa Messa.
Solo gli adulti potevano andare, ma noi eravamo quattro bambini. Allora i miei genitori decisero di prendere il primo treno della mattina quando era ancora buio, così da essere meno visibili. Ricordo il nostro primo viaggio; è stato per me indimenticabile.
Ero un bambino di 10-12 anni e queste escursioni e questi viaggi per partecipare alla Santa Messa erano indimenticabili. La sera prendevamo l’ultimo treno, quando il cielo era già scuro.
Queste domeniche le passavamo con il nostro parroco che aveva solo una piccola stanza – non una casa, ma solo una piccola stanza, che era al contempo la sua cucina, camera da letto e libreria. Le trascorrevamo lì perché eravamo la famiglia che veniva da lontano.
Lì ho fatto la mia prima confessione e la Prima Comunione con questo santo sacerdote che era anche stato imprigionato a Karaganda in precedenza.
Quando era in Brasile il suo superiore l’ha mandata a Roma per proseguire gli studi: il dottorato in patrologia[1]. Durante il suo soggiorno a Roma è stato nominato consigliere generale dell’Ordine e sognava sempre di tornare in Brasile al termine del mandato. Ma poi ha incontrato qualcun altro, che le ha fatto dare una svolta alla vita?
Mons. Schneider: Sì, qualcuno mi ha detto che c’era un sacerdote che era appena arrivato dal Kazakistan (io non ero mai stato in Kazakistan, ero stato in Kirghizistan). E mi è stato detto che voleva parlare con me. Non conoscevo questo prete, né lui conosceva me.
Però mi disse: “Abbiamo istituito un seminario a Karaganda e non abbiamo insegnanti. Potrebbe venire ad aiutarci?”. E così mi ha invitato.
Come descriverebbe la fede della gente?
Mons. Schneider: La fede della gente è caratterizzata dal dolore per i nostri martiri - testimoni della fede, e dalla situazione di persecuzione della Chiesa. La gente quindi cerca di mantenere viva questa vede, di viverla, di dare grande valore ai sacramenti, alla sacralità, alla dignità del sacerdote.
L’ex Unione Sovietica ha sofferto 70 anni di ateismo di Stato. Sono ancora visibili le ferite dell’ateismo di Stato nel cuore della gente?
Mons. Schneider: Come conseguenza di questo ateismo, che era intrinsecamente materialistico, si sono distrutti il soprannaturale, i valori spirituali. Per esempio, l’alcolismo si è diffuso ancora di più, perché la vita della gente non aveva senso senza spiritualità, senza valore spirituale.
Si è creato un vuoto, che è cresciuto nei tempi del Comunismo. La famiglia è stata distrutta dal materialismo; si sono diffuse pratiche come il divorzio e l’aborto.
Questo materialismo ha distrutto il senso dei valori spirituali.
Lei ha scritto il libro “Dominus Est. It is the Lord: Reflections from a Bishop in Central Asia on Holy Communion”, nel quale sostiene l’opportunità di riconsiderare la modalità di ricevere la Comunione con le mani e se non sia meglio di riceverla, come in passato, direttamente in bocca e stando in ginocchio. Come è arrivato a questa considerazione?
Mons. Schneider: Per me non è una novità. L'ho vissuta durante tutta la mia vita. Ricevevo la Santa Comunione durante la persecuzione, e questa devozione era per me del tutto naturale.
Mi veniva detto che lì era realmente presente Dio. Era quindi del tutto naturale inginocchiarsi davanti al “Santissimo”.
Anche mia madre la viveva così, ai tempi della persecuzione. Una volta ha salvato un sacerdote dalla polizia, negli Urali dove era stata deportata. Quando poi quel prete doveva partire, mia nonna che era molto malata ha chiesto a mia madre di farsi lasciare dal prete un’ostia consacrata, per poter ricevere la Santa Comunione in punto di morte. Il sacerdote disse: “Sì, vi lascio un’ostia consacrata, ma a condizione che voi la amministriate con la più grande deferenza possibile”.
Mia madre poi diede la Santa Comunione a mia nonna e per farlo si mise un paio di guanti nuovi, per non toccare l’ostia con le mani nude. Non osava toccare il Santissimo Sacramento con le sue mani n
ude e utilizzò un cucchiaio per amministrarla.
Questo sentimento era così profondo e così naturale per noi, che quando siamo arrivati e abbiamo visto le chiese occidentali, più che sorpresi, eravamo addolorati nell’anima. Non giudico la persona che riceve la Comunione nelle mani: questa è un’altra questione, perché può comunque riceverla così, con la stessa deferenza e lo stesso amore. Ma giudico invece la situazione oggettiva di distribuire così la Santa Comunione. È innegabile che vi sia stata una banalizzazione; come distribuire fette di torta.
Questo è il Signore. Quando il Signore risorto è apparso alle donne e queste lo videro, si inginocchiarono.
Caddero in ginocchio.
Mons. Schneider: Caddero in ginocchio e lo adorarono.
E anche gli Apostoli fecero lo stesso quando il Signore salì al Cielo. Perché non dovremmo noi fare lo stesso?
Ecco il Signore, realmente presente come è stato per millenni nella Chiesa cattolica. Perché dovremmo cambiare questo?
Che appello vorrebbe fare ai cattolici? Quali sono le necessità della Chiesa in Kazakistan?
Mons. Schneider: Certamente l'appello a pregare. Perché le preghiere sono il dono più prezioso che possiamo fare gli uni agli altri, in solidarietà con la Chiesa locale, che è molto lontana e in una situazione difficile. Abbiamo pochissime risorse umane e materiali. Chiediamo preghiere per le vocazioni sacerdotali locali.
Abbiamo bisogno di un clero locale, perché solo allora la Chiesa potrà mettere radici. E, per favore, se è possibile, sosteneteci nello sforzo di costruire più chiese, per rendere la Chiesa più visibile in questa parte del mondo in cui viviamo, come segno di evangelizzazione.
Siamo grati per tutti questi segni di fraternità e di solidarietà.
NOTE
[1] Patrologia deriva dal latino (pater) e dal greco (logos). In termini teologici, è lo studio della persona del Padre. Essa consiste nello studio teologico della sua qualità di Dio Padre, dei suoi attributi essenziali che compongono il suo essere Dio, come l’onniscenza, l’onnipotenza, ecc., e della sua rivelazione nell’Antico e nel Nuovo Testamento. (Glossary of Theologically useful terms)
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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.
Per maggiori informazioni: www.WhereGodWeeps.org