Il Papa non rischia alcun interrogatorio

Parla l’avvocato della Santa Sede negli Stati Uniti, Jeffrey Lena

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ROMA, giovedì, 1° luglio 2010 (ZENIT.org).- La Corte Suprema non ha rifiutato l’immunità alla Santa Sede e il Papa non dovrà comparire davanti a nessun tribunale: ad affermarlo è l’avvocato della Santa Sede negli Stati Uniti, Jeffrey Lena, che ha così replicato alle voci circolate negli ultimi giorni sulla stampa.

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso alcuni giorni fa di non esprimersi sull’appello presentato dalla Santa Sede al fine di bloccare un processo in corso a Portland, nell’Oregon, che vede imputato padre Andrew Ronan, dell’Ordine dei Frati Servi di Maria, e nel quale si accusa il Vaticano di aver trasferito il sacerdote, nonostante le accuse di abusi sessuali.

John Doe, che fu violentato da padre Ronan negli anni Sessanta, accusa il Vaticano di negligenza per come ha gestito il caso del sacerdote proveniente dall’Irlanda e deceduto nel 1992, che sebbene accompagnato da costanti denunce di molestie, venne trasferito prima a Chicago e poi a Portland.

La Santa Sede aveva invocato l’immunità riconosciuta agli Stati stranieri sovrani in base al Foreign Sovereign Immunities Act del 1976, che prevede però come eccezione i dipendenti di uno Stato straniero. La tesi degli avvocati dell’accusa sostiene, infatti, che tutti i preti siano impiegati del Vaticano.

Dopo la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, la causa è ora passata nelle mani della Corte distrettuale in Oregon.

Rispondendo alle diverse congetture avanzate dagli organi di stampa Jeffrey Lena ha spiegato ai microfoni della Radio Vaticana che “per quanto riguarda il rischio che il Vaticano possa incorrere nella bancarotta, questa ipotesi è assolutamente infondata. In prima istanza, si parla ancora di giurisdizione: non si è fatta parola in merito al fatto che ci possa essere responsabilità riguardo al caso citato. Quindi, nessuna preoccupazione in questo senso”.

“Inoltre, anche se si venisse a parlare di responsabilità, le leggi in merito al recupero sono molto severe, e in questo caso non è nemmeno un argomento all’ordine del giorno”, ha aggiunto.

Inoltre, ha sottolineato, “la Corte Suprema non ha rifiutato l’immunità. Ciò che ha fatto la Corte Suprema è stato stabilire che non avrebbe affrontato un problema che noi avremmo desiderato portare davanti ad essa”.

“Credo che in questa questione, da un punto di vista sostanzialmente legale, avessimo ragione – gli Stati Uniti ci hanno dato ragione – ma la Corte Suprema, semplicemente, ha stabilito che al momento attuale non è interessata ad affrontare il caso. E il fatto che essa non sia interessata a trattare il caso non è un rifiuto dell’immunità e non è un commento al merito della nostra posizione”.

Jeffrey Lena ha poi fatto sapere che “non c’è nessuna ‘luce verde’ ai risarcimenti. Come ho detto, stiamo ancora discutendo della competenza giurisdizionale in questi casi e quindi, semplicemente, non si tratta di questo”.

Circa le voci diffuse su alcuni quotidiani italiani su un eventuale interrogatorio del Papa o di altri vertici vaticani, l’avvocato della Santa Sede negli Stati Uniti ha affermato che “queste notizie sono tutte assolutamente prive di fondamento”.

“Non ho nessun dubbio in merito al fatto che ci sarà un tentativo in tal senso – ha detto –; credo che l’avvocato della controparte sia interessato a fare questo passo. Ma la legge li tutela”.

“E’ importante comunque riconoscere – ha poi evidenziato – che il fatto che la Santa Sede non sia coinvolta, e il fatto che il prete in questione non possa essere considerato un impiegato della Santa Sede, non sta assolutamente a significare che la vittima in questione non sia realmente vittima. Sicuramente, ha sofferto come nessun bambino dovrebbe soffrire, e non c’è nessun dubbio in questo caso che quest’uomo abbia subito abusi da parte di un prete”.

“Ma è vero anche che la responsabilità per i danni procurati da questa sofferenza, che è giusto siano pagati, ricade sull’Ordine religioso che controllava il prete, che controllava le sue attività e che lo ha trasferito”, ha dichiarato.

“I querelanti hanno tentato di contestare la frode, la negligenza, la cospirazione e noi abbiamo già scartato tutte queste ipotesi di reato molto tempo fa, nonostante continuino ad apparire sui titoli dei giornali”, ha affermato ancora Lena.

“Così, la causa attuale si è ridotta a un solo punto: se il sacerdote in questione, Andrew Ronan, era un dipendente della Santa Sede oppure no. Ora, i fattori che in genere determinano se una persona è un lavoratore dipendente, comprendono il controllo quotidiano del pagamento di questa persona per i servizi resi, l’assicurazione di questa persona, l’intesa tra le parti circa la natura del rapporto di lavoro e diversi altri elementi, nessuno dei quali si ritrova veramente in questo caso”.

“Si tratta – ha continuato – di un sacerdote che prima degli eventi in questione era del tutto sconosciuto alla Santa Sede. L’avvocato della parte offesa ha sostenuto sui giornali che, dal momento che questo prete era andato in Irlanda e vi era tornato, in qualche modo si è trattato di un trasferimento internazionale e che quindi la Santa Sede era per forza coinvolta”.

“Questo si basa su una errata comprensione di come operino la Chiesa cattolica, gli Istituti religiosi e su vari altri malintesi – ha osservato –. Per quanto riguarda le prove, non ce ne sono in questo caso ed è importante sottolinearlo”.

“Le prove – ha concluso – indicano che questo sacerdote apparteneva a un Istituto religioso attivo negli Stati Uniti e in Irlanda che aveva pieno controllo su di lui e sapeva di chi si trattava, ma che né la diocesi coinvolta, né la Santa Sede aveva alcuna conoscenza o controllo su di lui”.

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ZENIT Staff

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