di don Massimo Camisasca*
ROMA, mercoledì, 17 febbraio 2010 (ZENIT.org).- I dati statistici riferiti agli ultimi trent’anni parlano di un aumento del 5% dei sacerdoti diocesani nel mondo, a fronte di un aumento dei battezzati pari al 48%. Già questo breve accenno potrebbe spiegare l’interrogativo che appare nel titolo di questo mio libro e che è sotteso a tutto il testo. Ma, ancor più del numero dei sacerdoti, alla Chiesa sta a cuore la verità della loro esperienza.
Per motivi legati al mio lavoro come superiore di una fraternità di missionari, giro il mondo e vengo a contatto con le realtà più diverse. E, incontrando i preti alle diverse latitudini, noto che molti di loro oggi vivono delle difficoltà, non più di tipo ideologico, bensì di ordine affettivo. Perché oggi un tipo di vita come quello sacerdotale, che ha reso felici migliaia di uomini e ha contribuito enormemente alla crescita spirituale dell’umanità, attraversa una crisi qualitativa tanto profonda?
Il mio libro “Padre” (San Paolo) nasce da questa domanda. Il mio è un tentativo di ripensare la vita del prete dalle sue radici. La rigenerazione della vita sacerdotale è una delle condizioni affinché rifiorisca il cristianesimo in Europa e più in generale nel nostro occidente stanco (discorso a parte meriterebbero l’Asia e l’Africa). Ho cercato di tracciare le strade per una rinascita riandando ai fondamenti del sacerdozio. Trovo uno di quei fondamenti nella preghiera.
Oggi moltissimi sacerdoti si smarriscono nell’agire, nell’infinito numero di attività e preoccupazioni che li attanagliano. Perché l’azione di ognuno di noi sia sempre fonte di nutrimento, occorre che essa si riconduca continuamente del nostro rapporto con Cristo. E il luogo del nostro rapporto con Cristo è la preghiera, inscindibile dal silenzio. Il silenzio, la preghiera, la riflessione, lo studio sono la risposta ad uno dei mali che affliggono la figura del prete: l’attivismo, che si ferma alla superficie delle cose ed ha il tempo delle nostre energie e dei nostri sentimenti. L’azione che sgorga dalla carità ci introduce invece nell’opera di Dio, che ci precede e ci supera.
Altro pilastro del rinnovamento della vita sacerdotale è la liturgia. Dico questo seguendo l’insegnamento del Papa, non spinto dal desiderio di accodarmi ad una corrente, ma per un mio profondo convincimento, che nasce dall’esperienza. Se il sacerdote non ritrova il senso vero della liturgia nella sua vita, non può ritrovare se stesso. Scavalcando il processo di banalizzazione cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni, è necessario tornare a quella “fons et origo” che il Concilio Vaticano II individua nella liturgia. Quando è fedele all’intenzione di chi l’ha istituita, quando è vissuta in tutta la sua rigorosa interezza, attinta alla tradizione della Chiesa, la liturgia è il luogo dell’educazione alla comunione. Il protagonista della liturgia è Cristo. Vivendo la liturgia, possiamo entrare nella vita di Dio e solo così noi sacerdoti possiamo essere compagnia efficace agli uomini.
In terzo luogo, nella vita del prete è centrale la questione affettiva. La solitudine è l’altro grande male che affligge oggi migliaia di sacerdoti. Solo riscoprendosi figlio, il prete può essere padre. Il libro parla dell’amicizia come esperienza positiva nella vita affettiva della persona. Nella Chiesa si ha ancora molta paura dell’amicizia. Non si arginano le patologie, se non si aiuta lo sviluppo di una vita sana. Le amicizie morbose e negative, che non sono perciò propriamente neppure amicizie, non devono chiuderci al valore essenziale di quei legami di preferenza che aprono all’amore per gli altri e ci aiutano a capire chi sia Dio.
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*Don Massimo Camisasca è superiore della Fraternità Sacerdotale di San Carlo Borromeo.