Discorso del Papa per il conferimento della cittadinanza onoraria di Frisinga

“Nella biografia del mio cuore”

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CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 19 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo del discorso improvvisato da Benedetto XVI nel ricevere in udienza, il 16 gennaio scorso in Vaticano, la delegazione che gli ha conferito la cittadinanza onoraria di Frisinga.

* * *

Signor Sindaco,

caro signor Cardinale,

caro signor Arcivescovo,

caro signor Vescovo ausiliare,

care cittadine e cari cittadini di Frisinga,

cari amici!

È per me un momento di commozione essere diventato ora, anche giuridicamente, cittadino di Frisinga e appartenere così in modo nuovo e tanto ampio e profondo a questa città, della quale nell’intimo sento di far parte. Per questo posso solo dire di cuore: «Vergelt’s Gott» (Dio ve ne renda merito). È una gioia che ora mi accompagna e che rimarrà con me. Nella biografia della mia vita — nella biografia del mio cuore, se così posso dire — la città di Frisinga ha un ruolo molto speciale. In essa ho ricevuto la formazione che da allora caratterizza la mia vita. Così, in qualche modo questa città è sempre presente in me e io in lei. E il fatto che — come lei, signor Sindaco ha osservato — io abbia incluso nel mio stemma il moro e l’orso di Frisinga mostra al mondo intero quanto io appartenga ad essa. Il fatto, poi, che io sia ora cittadino di Frisinga, anche dal punto di vista legale, ne è il coronamento e mi rallegra profondamente.

In questa occasione affiora in me un intero orizzonte di immagini e di ricordi. Lei ha già accennato ad alcuni di essi, caro signor Sindaco. Vorrei riprendere alcuni spunti. Anzitutto c’è il 3 gennaio 1946. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivato il momento in cui il seminario di Frisinga poteva aprire le porte a quanti ritornavano. In effetti, era ancora un lazzaretto per ex prigionieri di guerra, ma ora potevamo cominciare. Quel momento rappresentava una svolta nella vita: essere sul cammino al quale ci sentivamo chiamati. Nell’ottica di oggi, abbiamo vissuto in modo molto «antiquato» e privo di comodità: eravamo in dormitori, in sale per gli studi e così via, ma eravamo felici, non solo perché finalmente sfuggiti alle miserie e alle minacce della guerra e del dominio nazista, ma anche perché eravamo liberi e soprattutto perché eravamo sul cammino al quale ci sentivamo di essere chiamati. Sapevamo che Cristo era più forte della tirannia, del potere dell’ideologia nazista e dei suoi meccanismi di oppressione. Sapevamo che a Cristo appartengono il tempo e il futuro, e sapevamo che Egli ci aveva chiamati e che aveva bisogno di noi, che c’era bisogno di noi. Sapevamo che la gente di quei tempi mutati ci attendeva, attendeva sacerdoti che arrivassero con un nuovo slancio di fede per costruire la casa viva di Dio. In questa occasione devo elevare anche un piccolo inno di lode al vecchio ateneo, del quale ho fatto parte, prima come studente e poi come docente. C’erano studiosi molto seri, alcuni anche di fama internazionale, ma la cosa più importante — secondo me — è che essi non erano solo studiosi, ma anche maestri, persone che non offrivano solamente le primizie della loro specializzazione, ma persone alle quali interessava dare agli studenti l’essenziale, il pane sano di cui avevano bisogno per ricevere la fede da dentro. Ed era importante il fatto che noi — se ora posso dire noi — non ci sentivamo dei singoli esperti, ma parte di un insieme; che ciascuno di noi lavorava all’insieme della teologia; che dal nostro operare doveva rendersi visibile la logica della fede come unità, e, in tal modo, crescere la capacità di dare ragione della nostra fede, come dice san Pietro (1 Pt 3, 15), di trasmetterla in un tempo nuovo, all’interno delle nuove sfide.

La seconda immagine che vorrei riprendere è il giorno dell’ordinazione sacerdotale. Il duomo è sempre stato il centro della nostra vita, come pure in seminario eravamo una famiglia ed è stato padre Höck a fare di noi una vera famiglia. Il duomo era il centro e lo è diventato per tutta la vita nel giorno indimenticabile dell’ordinazione sacerdotale. Sono tre i momenti che mi sono rimasti particolarmente impressi. Anzitutto lo stare distesi per terra durante le litanie dei santi. Stando prostrati a terra, si diventa ancora una volta consapevoli di tutta la propria povertà e ci si domanda: davvero ne sono capace? E allo stesso tempo risuonano i nomi di tutti i santi della storia e l’implorazione dei fedeli: «Ascoltaci; aiutali». Cresce così la consapevolezza: sì, sono debole e inadeguato, ma non sono solo, ci sono altri con me, l’intera comunità dei santi è con me, essi mi accompagnano e quindi posso percorrere questo cammino e diventare compagno e guida per gli altri. Il secondo, l’imposizione delle mani da parte dell’anziano, venerabile cardinale Faulhaber — che ha imposto a me, a tutti noi, le mani in modo profondo ed intenso — e la consapevolezza che è il Signore a porre le mani su di me e dice: appartieni a me, non appartieni semplicemente a te stesso, ti voglio, sei al mio servizio; ma anche la consapevolezza che questa imposizione delle mani è una grazia, che non crea solo obblighi, ma che è soprattutto un dono, che Lui è con me e che il suo amore mi protegge e mi accompagna. Poi c’era ancora il vecchio rito, in cui il potere di rimettere i peccati veniva conferito in un momento a parte, che iniziava quando il vescovo diceva, con le parole del Signore: «Non vi chiamo più servi, ma amici». E sapevo — noi sapevamo — che questa non è solo una citazione di Giovanni 15, ma una parola attuale che il Signore mi sta rivolgendo adesso. Egli mi accetta come amico; sono in questo rapporto d’amicizia; egli mi ha donato la sua fiducia, e in questa amicizia posso operare e rendere altri amici di Cristo.

Alla terza immagine lei ha già fatto allusione, signor Sindaco: ho potuto trascorrere altri indimenticabili tre anni e mezzo con i miei genitori nel Lerchenfeldhof e quindi sentirmi ancora una volta pienamente a casa. Questi ultimi tre anni e mezzo con i miei genitori sono stati per me un dono immenso e hanno davvero reso Frisinga la mia casa. Penso alle feste, a come abbiamo celebrato insieme il Natale, la Pasqua, la Pentecoste; alle passeggiate che abbiamo fatto insieme nei prati; a come siamo andati nel bosco a prendere i rami d’abete e il muschio per il presepe, e alle nostre escursioni nei campi lungo l’Isar. Così Frisinga è diventata per noi una vera patria, e come patria rimane nel mio cuore.

Oggi alle porte di Frisinga si trova l’aeroporto di Monaco. Chi vi atterra o decolla vede le torri del duomo di Frisinga, vede il mons doctus, e forse può intuire un po’ della sua storia e del suo presente. Frisinga ha da sempre un’ampia veduta sulla catena delle Alpi; attraverso l’aeroporto essa è diventata, in un certo senso, anche mondiale e aperta al mondo. E tuttavia vorrei dire: il duomo con le sue torri indica un’altezza che è molto superiore e diversa rispetto a quella che raggiungiamo con gli aerei, è la vera altezza, l’altezza di Dio, dalla quale proviene l’amore che ci dona l’umanità autentica. Il duomo, però, non indica solo l’altezza di Dio, che ci forma e ci addita il cammino, ma indica anche l’ampiezza, e questo non solo perché nel duomo sono racchiusi secoli di fede e di preghiera, perché in esso è presente, per così dire, tutta la comunità dei santi, di tutti coloro che prima di noi hanno creduto, pregato, sofferto, gioito. Esso indica, in generale, la grande ampiezza di tutti i credenti di ogni tempo, mostrando così anche una vastità che va oltre la globalizzazione, poiché nella diversità, addirittura nel contrasto delle culture e delle origini, dona la forza dell’unità interiore, dona ciò che può unirci: la forza unificatrice dell’essere amati da Dio. Così Frisinga rimane per me anche l’indicazione di un cammino.

In conclusione vorrei ancora una volta ringraziare per il grande onore che mi fate, anche la banda musicale, che rende qui presente la cultura veramente bavarese. Il mio des
iderio — la mia preghiera — è che il Signore continui a benedire questa città e che Nostra Signora del duomo di Frisinga la protegga, affinché essa possa essere, anche in futuro, un luogo di vita umana di fede e di gioia. Molte grazie.

[Traduzione dal testo originale in tedesco a cura de “L’Osservatore Romano”]

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ZENIT Staff

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