La divina bellezza liturgica: il canto gregoriano nel XXI sec.

ROMA, sabato, 16 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la presentazione di don Nicola Bux, Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, al libro di Giannicola D’Amico, Il canto gregoriano nel Magistero della Chiesa. Normativa canonica, prassi e documenti tra Età moderna e contemporanea (Rovigo 2009, pp 232).

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Nel libro del maestro Giannicola D’Amico è menzionato Johann Michael Sailer(cfr p 118). Un suo pensiero è riportato in una pagellina donatami dall’allora cardinal Joseph Ratzinger per i suoi settant’anni. Trattasi di un vescovo di Regensburg, la storica Ratisbona, precursore tra i vescovi tedeschi del movimento ceciliano che in Baviera ebbe il suo epicentro tra questa città e Monaco: è la patria d’origine del regnante pontefice. Il fatto che questi lo abbia scelto come testimone del suo percorso di studioso e di pastore, permette di intuire che Ratzinger sta restaurando col suo pensiero la liturgia e la musica sacra un po’ come ai tempi di Sailer. Del resto, la sua sensibilità e formazione musicale sono note. Più volte Benedetto XVI usa la metafora del restauro a proposito della riforma della liturgia prima e dopo il Vaticano II: “Vorrei arrischiare – egli scrive – un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora – nel 1918 – per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo…Grazie al movimento liturgico e – in maniera definitiva – grazie al concilio Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei diversi tentativi errati di restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina”[1].

Ora è sotto questa cifra che mi piace leggere e presentare il testo di Giannicola D’Amico, perché egli, attraverso la storia – che è sì maestra di vita, ma ha purtroppo pochi discepoli e, come ci ammoniva un altro Benedetto (Croce), “chi non la studia, è destinato a ripeterla” – si è fatto tale per salvare ad ogni costo dal naufragio l’ingente patrimonio del canto gregoriano uno e multiforme, se mi si permette. Anzi, questo libro è un contributo a comprenderlo in modo completo; e siccome si tratta di patrimonio sacro, cioè che attiene al divino, ho ragione di ritenere che non andrà perduto ma permarrà. Allora si tratta di farlo conoscere oggi. Chi è educatore sa che le cose vanno ridette continuamente. Come ha scritto Ratzinger a proposito del lavoro di un altro giovane studioso tedesco mio amico, p. Uwe Michael Lang, sull’orientamento della preghiera ad Dominum, c’è da sperare e operare che “possa essere di aiuto nella lotta necessaria in ogni generazione, per la corretta interpretazione e la degna celebrazione della sacra liturgia”[2]. La musica sacra è tutt’uno con la liturgia, anzi è essa stessa sacra liturgia, ad onta degli attuali tentativi di musealizzarla con la scusa che prende troppo tempo. Ma nella liturgia il tempo-kronos non ci deve condizionare del tutto, in quanto in essa vige il tempo-kairòs, ossia quello favorevole alla salvezza dell’uomo che si colloca nella prospettiva dell’Eterno: in questa ottica l’incontro fra Verità e Bellezza che il canto gregoriano indubbiamente favorisce e costruisce può garantire alle celebrazioni liturgiche una valenza artistica ed estetica, priva di archeologismi manierati, ma sostanziata e radicata in una delle forme più spirituali e, al contempo, vissute e viventi dell’arte sacra cattolica.

Dopo questa ampia premessa passiamo in breve rassegna il libro del maestro D’Amico, che questo Conservatorio ha avuto – oserei dire – il “profetico coraggio” di pubblicare, in un momento storico in cui le sorti della liturgia sembrano, finalmente, imboccare vie di corretta e ponderata riforma che auspica il recupero di quel patrimonio di cui l’Autore tesse un elogio, oltre che da intenditore, da vero innamorato.

Non ho la pretesa di sintetizzare il volume – cosa impossibile, bisogna attingervi a sorsi e non d’un fiato, tanto è ricco di dati e riferimenti musicali, storici e giuridici, per non dire delle lunghe erudite note, alcune volte di carattere canonistico e dottrinario – ma di presentare i passaggi salienti, quasi fossero il fluire, a volte placido e rasserenante, a volte impetuoso e intricato, a volte limaccioso e sconcertante, di un fiume, fatto dal canto dei nostri padri, che dal Medioevo giunge ai nostri giorni.

L’opera parte prima del Rinascimento, dal fulgore del canto liturgico agli abusi stigmatizzati da papa Giovanni XXII nella Cost.Ap. Docta Sanctorum; in verità non sempre si trattava di abusi, “ma di progressi nella tecnica poetica e musicale” (p 13) se si pensa alla diffusione della forma innica, per non parlare della polifonia che pian piano prendeva il posto della monodia e della “rivoluzione” di Guido d’Arezzo nel quale l’Autore vede, in concomitanza con un innegabile progresso facilitativo della notazione musicale e del contemporaneo apprendimento, l’inizio della decadenza estetica del gregoriano, giunto poi lentamente, attraverso numerose, contorte e deplorevoli manomissioni, cui contribuì l’introduzione della stampa nel corso del Quattrocento, nel sec.XVIII ad un imbastardimento quasi generalizzato che finiva per presentare il canto liturgico sotto il nome di cantus fractus, cioè spezzato nel ritmo: ormai quasi ovunque totalmente irriconoscibile rispetto ai suoi prototipi, cominciò a perdere anche la originaria connotazione anonima. Tuttavia la produzione innica era avanzata grazie in gran parte ad anonimi, ma anche a noti o addirittura notissimi come Abelardo e Tommaso d’Aquino. Non si trattava necessariamente di composizioni originali, ma spesso in origine dotate di una impressionante “sensazione di Assoluto”: a chi vi parla è stato possibile riscontrare l’ispirazione dell’Angelico all’Officium S.Nicolai in auge dal sec X e composto da Reginold di Eichstätt[3].

Il progresso del canto liturgico è dipeso non poco, come nell’alto medioevo dai benedettini così nel basso medioevo dai nuovi ordini religiosi che lo prescrivevano all’interno “con regole precise per lo studio e l’esecuzione”(p 42): così fece ancora l’incrollabile Ignazio di Loyola: e siamo già all’età rinascimentale e al concilio di Trento. Non fu da meno il cardinal Ghisleri, futuro Pio V, cui si deve la promulgazione dei libri liturgici voluti dal Concilio tridentino.

Se qualcuno però pensasse che il Concilio abbia solo conservato, scoprirebbe invero che le forbici intervennero largamente su molte parti della liturgia latina e, con specifico riferimento a quel che qui interessa, su molta parte del tardo repertorio cantuale, e principalmente sulle sequenze, note composizioni medievali che in tutta Europa si erano sviluppate all’inverosimile, spesso trasferendo nell’ambiente rituale leggende e credenze che la Chiesa ufficialmente riprovava: la falcidie fu forse fin troppo severa, salvando esclusivamente Victimae paschali, Veni Sancte Spiritus, Lauda Sion e Dies Irae. Lo Stabat Mater di Jacopone restò fuori del Messale instaurato, tuttavia, con l’autorizzazione ai riti locali ultrabicentenari, che il Concilio tridentino concesse (ad onta di quanti ancora pensano ad un ossessivo centralismo romanistico), si salvarono preziosi patrimoni di canto liturgico particolare contenuti nelle tradizioni del rito ambrosiano che trovò un campione nella figura eccelsa di Carlo Borromeo, nel rito aquileiense nelle Venezie – ben presto però decaduto, in concomitanza con la decadenza dell’antico patriarcato-, quello bracarense in Portogallo, alcune peculiarità dei vari riti gallicani, il c.d. rito augustano in Val d’Aosta, oltre ad alcune tradizioni rituali di diversi ordini religio
si.

Un punto di snodo nevralgico nella vicenda del canto liturgico, fu l’introduzione della stampa, avvenuta nel momento storico della imposizione delle logiche prosodiche classiche, che l’Umanesimo stava diffondendo, ad un repertorio testuale che con l’antichità non aveva nulla a che vedere: gli antichi segni reumatici persero ogni significato, per essere sostituiti gradualmente con le “rozze” figurazioni a stampa.

Cosa successe all’editoria liturgica romana prima e dopo i provvedimenti tridentini? D’Amico ricorda che si stampò quanto “avvenuto all’ombra della Curia papale negli ultimi 250 anni” (p 57) ovvero il lento lavorio liturgico intervenuto almeno dalla fine del Trecento, epoca in cui il papato era tornato da Avignone, sui precedenti nobilissimi, come l’opera di Durando di Mende.

Bisognava uniformare la liturgia romana, grazie all’opera previa dei Francescani che con la loro missione portarono con sé la liturgia della Curia e così – come ho potuto constatare studiando i codici liturgici latini di Terra Santa nel museo di Gerusalemme – “alla fine del sec.XIV a Roma tutti i libri liturgici erano ‘novi et franciscani’.[4]

L’esempio preclaro è che il primo libro a stampa venuto in luce a Roma nel 1476, presso la stamperia francescana della basilica dell’Ara caeli fu proprio il Messale romano, con le intonazioni gregoriane in note nere sul rigo rosso: un prototipo di enorme fortuna in tutta Europa e oltre.

Ma dopo Trento si voleva restaurare integralmente i libri ufficiali liturgici per il canto: così Gregorio XIII incaricò il princeps musicae Pierluigi da Palestrina dell’emendazione del repertorio gregoriano (operazione tortuosa e, agli occhi odierni, apparentemente bizzarra, vista la volontà di “tagliare le melodie” considerate da più parti un incomprensibile sequela di suoni) che però fu opera di altre mani e divenne la quintessenza del travisamento cui fu sottoposto tra ‘500 e 600 il canto liturgico e contro cui si schierarono eminenti studiosi come il fiorentino Giovan Battista Doni, a voi musicisti ben noto, o liturgisti di grande levatura, come il card. Giovanni Bona – rimando in proposito alle pagine che descrivono la vicenda in cui l’Autore, non senza una vena ironica, stigmatizza quanto alcune “abitudini romane” avessero contribuito alla cattiva riuscita del progetto.

L’Autore passa poi a considerare le sorti del canto liturgico tra Seicento e Primo Ottocento, gli studi, le edizioni, la normativa: già, perché lo studio di D’Amico è importante documento a sostegno del “diritto liturgico”, ossia del modo giusto di adorare Dio in quanto stabilito dal medesimo, ed è certamente un tentativo, molto sommesso – ma in questo particolarmente elegante – di rammentare a musicisti e liturgisti quella dimensione giuridica degli studi di musicologia liturgica, negli ultimi decenni un po’ perduta.

Si pensi, fra le norme citate, alla Costituzione Piae sollicitudinis di papa Alessandro VII del 1657 “che costituisce – scrive D’Amico – un caposaldo della normativa pontificia in materia musicale: il papa denunziava apertamente l’indegnità di molti coristi e cantori di Roma, divenuti ‘offesa alla Maestà divina, scandalo ai fedeli ed ostacolo alla pietà cristiana’ ” (p 92): quanta attualità in queste parole.

Ma, si annota, “i tempi non erano ancora maturi per una rinascita gregoriana”(p 102) che doveva arrivare faticosamente molto tempo dopo e tramite alcuni tentativi passati attraverso la molta erudizione bibliografica settecentesca, ad esempio l’immensa opera dell’abate Gerbert in Germania, come tramite la normativa promulgata da Benedetto XIV, pontefice fra i massimi canonisti di tutti i tempi, a metà del Settecento (ad es. la Lett. Ap. Annus qui), mentre le chiese locali, soprattutto nella Francia neo-gallicana del XVIII sec. facevano del repertorio di canto liturgico ampio strazio, in nome di particolarismi che, in realtà, mascheravano aspirazioni nemmeno troppo copertamente scismatiche in alcuni casi: la musica ed il canto liturgici divennero luogo di lotte politiche e di una novella iperproduzione di scarso rilievo artistico pelopiù.

In questa temperie europea si giunge al risveglio dell’Ottocento con il già citato mons. Sailer: in tutto il Continente, invero, i segnali si moltiplicarono come il tentativo di riforma suggerito da Gaspare Spontini, musicista di fama universale, al papa Gregorio XVI (p. 112 e ss) o le fruttuose ricerche archivistiche in Francia, Belgio, Germania.

In realtà sarà Solesmes ad inaugurare la più feconda opera di restaurazione del canto liturgico, con Dom Prosper Guèranger che, con l’inizio degli anni Trenta dell’800, infuse a quella comunità “Una altissima sensibilità liturgico-musicale” (p 129) a partire da alcune celebri opere: Les institutions liturgiques e L’année liturgique, opere pubblicate in tre e nove volumi tra il 1840 e il 1866 (di quest’ultima altri sei saranno opera del discepolo dom L. Fromage). Da allora la sua diffusione è stata ininterrotta. Oggi le si trova su internet. L’influenza di quel monastero fu lenta, a volte contestata, ma inesorabile, e giunse a Roma alcuni decenni dopo, prima in mezzo a schermaglie di scuola con gli ambienti tedeschi ed italiani, congressi musicali, pubblicazioni sempre più specifiche da un lato e nel contempo divulgative dall’altro, in mezzo a cui giganteggiano le figure di grandi musicisti come Giovanni Tebaldini, religiosi di veemente figura come l’abate Amelli, musicologi come Luigi Casamorata, solo per citare gli italiani, fino ad avere un suggello autoritativo nel 1898 grazie al suo antico allievo Lorenzo Perosi divenuto direttore aggiunto della Cappella Sistina, forse dietro suggerimento del card.Sarto, futuro papa Pio X (p 141). E le cose cambiarono davvero sotto il pontificato di questi (1903-1914).

Cosa succede da Pio X al concilio Vaticano II forse è cosa più nota, a partire dal Motu proprio Tra le sollecitudini emanato da papa Sarto tre mesi dopo l’elezione. Un documento giuridico di capitale importanza, perché “La santità della musica sacra, definita humilis ancilla liturgiae…è legata alla santità del culto quale antitesi di tutto ciò che è profano e secolare ed in questo essa deriva ontologicamente dalla purezza dei sacri testi e dalla estrinseca bellezza dei riti” (p 149). Saggiamente il Maestro D’Amico, pur riportando la valutazione di chi lo ritiene una reazione alla mondanità della musica sacra ottocentesca, ricorda “che il perpetuo divenire storico della musica e del canto liturgico ha proposto ininterrottamente…tale azione/reazione nel corso dei secoli, in forme tutto sommato simili” (Ibidem). Definendo che il canto gregoriano è proprio della Chiesa romana – allo stesso modo in cui altri papi avevano riconosciuto alle Chiese orientali il loro proprio canto – Pio X ammoniva che “tanto più l’arte musicale è sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, ispirazione e sapore si accosta alla melodia gregoriana, dotata delle suddette caratteristiche approvate per la musica sacra” (p 150).

Era il coronamento del cecilianesimo che riceveva il sigillo della suprema autorità apostolica.Un ruolo preminente come abbiamo detto ebbe Perosi nel raccordo tra musica liturgica e dogma. Lo ricorda la lapide apposta all’ingresso del S.Uffizio ove egli abitò fino alla morte, avvenuta nel 1956.

Le edizioni liturgiche di canto nel 1904 furono definitivamente affidate ai monaci di Solesmes e poi venne la nota Commissione per l’edizione vaticana, con le diatribe fra i grandi gregorianisti dell’epoca, Pothier e Moquereau, e la progressiva “normalizzazione” voluta da Pio X per scongiurare lo spettro di altre edizioni particolari e localismi di bassa lega che, dalla metà dell’800, proprio sotto l’influsso degli scritti di Gueranger si erano lentamente eclissati, in favore di un universalismo liturgico e musicale di ampio respiro, anche estetico e musicale.

Ma non bisogna trascurare che tutto
ciò fu in certo senso “canonizzato” nel can 1264 del Codice di Diritto Canonico del 1917 che “si occupava dell’osservanza delle leggi liturgiche espressamente in materia di musica sacra, esprimendo la sollecitudine della S.Sede nel regolare universalmente la materia con norme certe e di valenza giuridica, anche sulla scorta del magistero di Pio X”(p 162).

Sarà dunque Benedetto XV che, promulgando il codice, fisserà il termine “musica sacra” come categoria di un repertorio il cui contenuto principale è il canto gregoriano” (p 163): l’Autore vuole sottolineare così, la costante sollecitudine del Magistero ecclesiastico, nel sussumere in categorie giuridiche, al più alto grado, quel che i musicisti pratica(va)no con naturale regolarità.

E siamo a Pio XII, personalmente appassionato del gregoriano, violinista e amico di Perosi; affrontò i problemi del canto sacro nella enciclica Mediator Dei (1947) assumendo, ricorda D’Amico, la guida del movimento liturgico (cfr p 166). Egli lo dimostrò in specie nel 1955 con la grande enciclica Musicae Sacrae disciplina ribadendo per la musica sacra le qualità di santità, bontà di forme e universalità, fondate – ricorda l’Autore -“prima nella essenza della musica quale donum Dei e poi nel connubio (oserei dire) mistico della musica con la liturgia e principalmente con il vertice di questa, cioè il sacrificio eucaristico” (p 168).

Intanto il movimento di rinnovamento liturgico procedeva con i noti convegni di Maria-Laach ove si distingueva Luigi Augustoni, scomparso da pochissimi anni, tra i massimi gregorianisti del XX secolo. L’impulso rinnovato al gregoriano, non impediva a papa Pio XII, in linea con la tradizione cattolica e forte ormai di cento anni di ritrovata effettiva universalità del rito romano, di incoraggiare anche gli altri riti latini come l’ambrosiano, il mozarabico e il gallicano.

Ne sortiva un florilegio di studi impareggiabile, in tutta Europa.

Seguiva l’Istruzione De musica sacra et de sacra liturgia nel 1958. Pio XII di lì a un mese moriva.

Con il Concilio Vaticano II si avvia la revisione dei libri liturgici, dopo aver affermato nel cap VI – richiamandosi al magistero precedente e principalmente a Pio XII, iniziatore già negli anni ’40 delle prime importanti riforme liturgiche che coinvolgevano il canto gregoriano – che la musica sacra partecipa della dimensione sacramentale della liturgia. Le categorie tradizionali vengono rielaborate in favore della connessione maggiore con l’azione liturgica (n 128). Il canto gregoriano è riconosciuto come proprio della liturgia romana “a parità di condizioni”(n 116): “Si completava il percorso di definizione dello status (giuridico) del canto gregoriano, intrapreso agli albori del Novecento”(p 180). Ma tutto ciò non bastò allo sfratto dalla liturgia postconciliare(p 183) per causa di equivoche interpretazioni della riforma.

Che strano, annota D’Amico: “il Concilio aveva riavvicinato l’Occidente latino ad alcune ragioni dell’Oriente, le cui chiese mai avevano abdicato l’idea cosmica della liturgia da cui derivava un modus celebrandi rigoroso ed intatto nei secoli per il Culto divino” (p 187) eppure da noi ne sortì una banalizzazione rituale passata soprattutto attraverso la deposizione di ogni tradizione musicale: via il gregoriano, via l’organo, proscritta come il fumo negli occhi la polifonia, si introducevano repertori di un tale probabilismo liturgico e di valore artistico a volte pressoché inesistente, accompagnati dalle forme più becere – mi si passi il termine – di assemblearismo a tutti i costi.

Furono gli anni in cui la tradizione musicale della Chiesa cattolica pagò il più alto tributo alle concessioni con la modernità: antiche e nobili istituzioni musicali che assicuravano da secoli il servizio musicale nei luoghi liturgici più illustri dell’Occidente vennero chiuse, venerate tradizioni musicali furono liquidate in breve.

Ciò che è avvenuto dopo il concilio è quasi cronaca. Paolo VI con la Congregazione dei Riti aveva pubblicato nel 1967 l’Istruzione Musicam sacram, che ribadiva certi punti forti del magistero dei predecessori, e più volte si era pronunciato contro deviazioni dal retto sentiero (ad es con la Lett. Ap. Sacrificium laudis) spesso con quello stile così elevato e al contempo struggente che a volte connotava i discorsi di papa Montini, ma…i buoi erano già scappati dalla stalla ed alcuni storici non hanno escluso anche influenze “esterne” all’apparato ecclesiastico in questo deplorevole abbandono.

In quegli stessi anni, un po’ defilata per ragioni storiche, Solesmes dava il meglio di sé dal punto di vista degli studi semiologici con la scuola di dom Eugene Cardine: gli antichi segni recuperati, dopo quasi cent’anni di studio, spiegavano la materializzazione musicale ed estetica del Verbo divino, nelle mani di quell’esercito di oscuri ed, al contempo, illuminati melografi del Medioevo.

Il maestro D’Amico affronta anche la questione della lingua liturgica (p. 192 e ss), a cui rimando, e che invito caldamente a meditare: la vicinanza di molti giovani, oggi, al latino ed alla liturgia tradizionale deve far riflettere.

Il nuovo Codice di Diritto canonico del 1983 al can 1173 parla più genericamente del canto. Cosa pensare? Alcuni fatti da interpretare: Domenico Bartolucci lascia nel 1997 la Cappella Sistina; nel 2003, il Chirografo di Giovanni Paolo II per il centenario del Motu proprio di Pio X, in cui ne ribadisce la attualità e auspica che le nuove composizioni siano pervase dallo stesso spirito. Ma, annota d’Amico, poco è trapelato, ahimè quasi nulla.Il localismo ha prevalso sull’universalismo cattolico.

In conclusione, siamo – diceva l’Autore nel 2005 – alla separazione generale tra liturgia e canto gregoriano senza precedenti (cfr p 212). Ma, come l’araba fenice il gregoriano e la musica sacra con Benedetto XVI riprenderanno vigore, perché come egli ha detto al maestro Bartolucci nella Cappella Sistina nel giugno 2006: “Un autentico aggiornamento della musica sacra non può avvenire che nel solco della grande tradizione del passato, del canto gregoriano e della polifonia sacra” (p 216). Perché? Giannicola D’Amico fornisce egli stesso la ragione: “In una società ormai profondamente secolarizzata come la nostra, il canto gregoriano garantisce il recupero del senso del sacro ormai in gran parte smarrito” (p 215), e – aggiungo – sempre più ricercato come necessario a guarire le malattie dell’uomo. Beninteso, il senso del sacro è il bisogno di sentire Dio vicino, altrimenti l’uomo non si spiega a se stesso. Del resto, come D’Amico riconosce e il testo sta ad attestarlo, le vicende della musica liturgica si sono susseguite a fasi alterne, in una sorta di lento circolo vichiano: oggi è giunto il momento di superare la boa che si attendeva da oltre 45 anni.

Il regnante pontefice, col Motu proprio Summorum Pontificum nel 2007 e le allocuzioni durante il viaggio in Francia nel 2008 ( forse che la patria del canto franco-romano – come i musicisti mi insegnano dovrebbe meglio definirsi il gregoriano -, culla della sua rinascita solesmense, ha ispirato al papa una intuizione particolare?) sta ricordando la non opposizione tra la liturgia rinnovata dal Concilio e quella antica, c’è solo bisogno di pacificazione degli spiriti e questo può avvenire solo nella contemplazione della bellezza che trova nella liturgia (cantata) l’anticipo celeste: Benedetto XVI sta predicando incessantemente la Bellezza nella casa di Dio, quale casa di tutti i fedeli.

Il libro, che è dotato di un utile Glossario dei libri liturgici e di una bibliografia di oltre 200 titoli, si chiude così, con l’auspicio che una componente così determinante della bellezza del rito romano torni in esso, al suo posto proprio e non più nei concerti ad appannaggio di pochi intenditori: è l’opera che nelle nostre città pugliesi, l’Autore da anni, nonostante la sua età non ingravescente, ma
memore di suoi predecessori illustri, pone in essere con calore tutto meridionale, affinché il canto liturgico dei padri, quale linfa pulsante di cuore e di sangue, non sia dimenticato dai figli.

Auguro che questo libro coltissimo – vera “tesi magistrale” – del maestro e giurisperito Giannicola D’Amico, trovi un vasto pubblico di lettori attenti, e sia un segno di pacificazione tra musicisti e liturgisti.

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1) Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello B. 2001, p 6.

2) Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, Siena 2003,p 10.

3) Nicola Bux, La liturgia di San Nicola.Testi medievali e moderni, Levante, Bari 1986, p 7

4) Nicola Bux, Codici liturgici latini di terra Santa/Liturgic Latin Codices of the Holy Land, Schena, Fasano(Br), 1990, p 26.

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ZENIT Staff

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