di padre John Jay Hughes
ST. LOUIS, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- “I sacerdoti a cui piace essere sacerdoti sono tra le persone più felici al mondo”. Queste parole di Andrew Greeley, sacerdote e sociologo di Chicago, mi fecero sobbalzare sulla sedia quando le lessi qualche anno fa. “Andy, hai ragione – gli scrissi –. Posso confermarlo per esperienza”.
Figlio e nipote di pastori della Chiesa episcopaliana, sono cresciuto in un mondo in cui il culto pubblico e la preghiera privata formavano parte della vita quotidiana come il mangiare e il dormire. Sin dai nove anni facevo parte del coro della cattedrale di St. John the Divine di New York, allora una sorta di versione americana della cattedrale di Canterbury o di York in Inghilterra. Cantavamo i salmi nei Vespri quotidiani e la domenica gli inni e le parti musicali della liturgia eucaristica. Mi piaceva molto.
A dodici anni, mi resi conto che volevo essere pastore. Quando entrai in collegio, mi chiesero di scrivere un tema su “ciò che avrei voluto fare nei prossimi venti anni”. Scrissi sull’essere missionario in Africa. Questa idea a cui non avevo dedicato in precedenza neanche un pensiero passeggero, mi deve essere venuta dal cappellano della scuola, un pastore dell’Ordine anglicano della Santa Croce, che era stato in missione in Liberia.
Ogni volta che aiutavo a servire la Messa pensavo: “un giorno starò lì. Indosserò quegli abiti. Dirò quelle parole”. L’idea di una vocazione missionaria presto svanì. Ma quella del sacerdozio mai. Ero attratto da quell’obiettivo come un chiodo a una calamita, finché, dopo dodici anni, l’ho raggiunto. Dopo la mia prima Messa, il 4 aprile 1954, ero così contento che ho recitato l’intero “Te Deum” a voce alta nella sacrestia.
Per i primi sei felici anni di ministero parrocchiale, sentivo di aver trovato tutto ciò a cui aspiravo, e anche di più. La mia religione personale era “Cattolicesimo senza il Papa”. I miei studi mi avevano insegnato che le moderne rivendicazioni papali alla giurisdizione universale e all’infallibilità erano illegittime aggiunte alla fede dell’antica Chiesa cattolica. Gli opuscoli cattolici in cui si presenta il Papa come una sorta di oracolo “che ci dà la risposta a ogni domanda” (una caricatura dell’autentica fede cattolica) confermavano il mio rifiuto dell’infallibilità del Papa così definita. Durante quegli anni ho visitato innumerevoli chiese cattoliche sulle due sponde dell’Atlantico. Ho trovato le Messe silenziose e frettolose, in cui il latino (quando si riusciva a sentire) era così farfugliato e ingarbugliato che avrebbe potuto essere cinese: uno spettacolo avvilente rispetto alla solenne liturgia che amavo, con grande partecipazione dei fedeli, con inni pieni di fervore che continuano a mancarmi anche oggi.
Ho sempre considerato l’Anglicanesimo come un castello di carte teologico. Ma era pur sempre il “mio” castello. Era lì dove il Signore mi aveva posto. Non si lascia il luogo che Dio ti ha assegnato, senza motivazioni molto serie. E questo si verificò quando scoprii, durante un lungo viaggio in Europa, nel 1959, che la Chiesa cattolica aveva un volto diverso da quello che avevo conosciuto negli Stati Uniti. Iniziò allora un tormentato periodo di studio e di riflessione, accompagnato da lunghe preghiere quotidiane. Per quasi un anno, le questioni sulla Chiesa e sul mio dovere di coscienza, non lasciavano la mia mente per più di due ore di veglia consecutive.
La mia decisione finale, presa nella Pasqua del 1960, fu di lasciare la Chiesa anglicana che amavo (mi aveva accompagnato dal fonte battesimale all’altare) e di entrare in un mondo estraneo, che esercitava ancora poca attrattiva su di me. Fu la cosa più difficile che io abbia mai fatto. Ma guardando indietro, anni dopo (e solo allora), riconobbi che era stata la cosa migliore.
Ero diventato sacerdote per una ragione molto semplice: per poter celebrare la Messa. È stato meraviglioso la prima volta, quasi 56 anni fa, ed è – se possibile – ancora più meraviglioso oggi. Celebrare la Messa e nutrire il popolo santo di Dio con il pane della vita è un privilegio che va al di là di ogni merito umano. In preparazione alla Messa, da anni dedico mezz’ora alla meditazione in silenzio su ciò che Dio disse a Mosè dal roveto ardente: “Togliti i sandali dai piedi, poiché il luogo dove tu stai è terra santa” (Esodo 3,5).
Il sacerdozio ha anche altre ricompense. C’è la gioia di proclamare il Vangelo: nutrire il popolo di Dio dalla tavola della sua Parola. Un inno evangelico definisce il compito del predicatore in questo modo: “Raccontami l’antica, antica, storia / Di Gesù e del suo amore”. Il Vangelo di Giovanni lo dice in modo più sintetico, nelle parole una volta affisse nella parte interna dei pulpiti, visibile dal predicatore: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (Giovanni 12,21). La storia di Gesù e le sue parole ci sostengono quando siamo deboli, ci rimproverano quando sbagliamo, e ci aprono la bocca al sorriso e ci sciolgono la lingua in canti di gioia (per dirla con il salmista) quando la luce dell’amore di Dio risplende su di noi.
C’è poi anche la gioia del ministero pastorale. Come ogni sacerdote sono stato testimone dei miracoli della grazia di Dio nella gente che ho servito. Meno di dieci anni fa, era entrato nel mio confessionale un uomo ferito e dolorante a causa di un fallimento matrimoniale. Allora era un cattolico “solo Pasqua e Natale”, mentre oggi si comunica tutti i giorni e si confessa regolarmente. Ogni sacerdote ha storie come queste, molte anche più drammatiche.
Sono stati tutti felici i miei quasi 56 anni di sacerdozio? Certamente no. Ma questo è così per qualsiasi vita. Una vedova, parlando del matrimonio, mi disse: “Padre, quando si sale all’altare il giorno del matrimonio, non si vedono le Stazioni della Via Crucis”.
Il sacerdozio mi ha portato sia gioia che sofferenze. Per sette anni sono rimasto senza incarico e letteralmente disoccupato. Sottoposto a un vescovo tedesco, pur essendo residente a St. Louis, ero come un ufficiale dell’esercito distaccato dal suo reggimento. La struttura ecclesiale non sapeva cosa fare con me. La Chiesa per la quale avevo sacrificato tutto sembrava non volermi. Sono sopravvissuto solo grazie alla preghiera. Ma a chiunque mi chieda se mi sono mai pentito della decisione di farmi prete, rispondo subito e con sincerità: mai, neanche un singolo giorno.
Scrivendo, nell’aprile 2005, al mio ex professore di dottorato a Münster, in Germania, Joseph Ratzinger, per esprimere la mia gioia per la sua elezione al Soglio Pontificio, e assicurargli le mie preghiere, ho concluso la lettera “nella gioia del nostro comune sacerdozio”. Cosa si può dire di più? Sin dall’età di dodici anni, il sacerdozio è stato tutto ciò che ho sempre voluto. Se dovessi morire oggi, morirei da uomo felice.
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* Sacerdote dell’Arcidiocesi di St. Louis e storico della Chiesa, padre John Jay Hughes è autore di dodici libri e centinaia di articoli. Questo articolo è tratto dalle sue memorie, “No Ordinary Fool: a Testimony to Grace” (Ed. Tate). Chi vuole può scrivergli all’indirizzo: jaystl@sbcglobal.net.