Immigrazione e cittadinanza dei diritti e dei doveri

ROMA, giovedì, 17 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 14 dicembre scorso da Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla Dottrina sociale della Chiesa, in occasione di un Convegno ad Arezzo sul tema “Cittadinanze e nuovi cittadini. L’immigrazione che (ci) cambia”.

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In questo intervento vorrei affrontare il problema dell’immigrazione spostando l’attenzione da “loro” a “noi”, vale a dire dagli immigrati a noi cittadini della società di approdo o di accoglienza. Sono convinto, infatti, che il vero problema sia questo. Di fronte alle richieste degli immigrati la prima domanda che noi dobbiamo porci è non tanto chi siano loro, ma prima di tutto chi siamo noi. Il problema vero non sono loro, siamo noi.

Questo tipo di approccio comporta, di conseguenza, anche un’altra modifica a quanto di solito si fa: come dobbiamo concentrarsi prima su di noi che su di loro, così dobbiamo anche concentrarci prima sui doveri che sui diritti. Non intendo sottovalutare l’importanza dei diritti in questa problematica, solo che iniziando dai diritti non risponderemmo primariamente alla domanda che ci siamo fatti sopra: chi siamo noi? Solo partendo dai doveri potremmo ricostruire la nostra identità e da lì aprirci ad una vera accoglienza.

L’enfasi sui soli diritti non permette di costruire nessuna identità né nessuna vera comunità. E senza una identità comunitaria non si può essere nemmeno veramente accoglienti. L’integrazione è impossibile senza che la comunità di accoglienza abbia un volto e sia una vera comunità. I diritti, infatti, presi da soli sono rivendicazioni di possibilità. Il diritto è poter avere o poter fare qualcosa; è la titolarità ad una disponibilità. Si ha diritto a qualcosa quando questa rientra nel nostro spazio di disponibilità. Estensione dei diritti ed estensione del disponibile sono la stessa cosa. L’indisponibile non rientra nella sfera del diritto. Esso ha a che fare con il dovere, non con il diritto. Mentre infatti il diritto è avere-a-disposizione, il dovere è essere-a-disposizione. Il dovere è accoglimento di qualcosa che ci precede, che riteniamo importante e meritevole in sé e che non abbiamo prodotto noi. Il dovere rivela l’indisponibile ed è possibile solo se esiste qualcosa di indisponibile. Anche la stessa indisponibilità dei diritti non nasce dai diritti stessi, ma dal fatto che si sente il dovere di rispettarli in quanto essi non dipendono da noi. Non saranno i diritti a fondare se stessi, ossia a fondare la loro disponibilità, ma il dovere di rispettarli.

Ora, dicevo, i diritti presi da soli non sono in grado di costituire nessuna identità comunitaria. Nessuna compagine sociale è nata dalla rivendicazione dei diritti, come bene ci insegnava Hobbes. I diritti infatti dividono, in quanto creano il conflitto delle possibilità. Inoltre i diritti spezzettano la società in vari percorsi individuali. Essi, infine, non finiscono mai e non si sanno porre dei limiti, per questo si autodistruggono se non sono salvati dai doveri. I diritti, se lasciati alla sola loro logica interna, non hanno limite perché nuove cose da avere o da fare ce ne saranno sempre. Si spiega così l’attuale deriva dei diritti nelle società avanzate, ossia la rivendicazione di nuovi diritti individualistici, narcisistici, postnaturali resi possibili dallo sviluppo della tecnica. La nuda tecnica è l’espressione più piena della deriva dei diritti lasciati a se stessi: ciò che si può fare si deve fare. La pura possibilità di fare è la piena espressione dei diritti come avere-a-disposizione.

Per tutti questi motivi l’esasperazione dei diritti non solo non crea comunità sociale, ma la distrugge. Infatti noi possiamo sentirci legati solo da qualcosa che non abbiamo prodotto noi e che ci è indisponibile. Solo i doveri ci mobilitano ad operare insieme ed anche quando ci mobilitiamo per difendere dei diritti è perché ne sentiamo il dovere: non solo per il diritto in quanto tale, quindi, ma per il diritto sentito come un dovere, come indisponibile. Una società che abbia solo diritti o che abbia diritto a tutto non esiste già più. I doveri legano, i diritti slegano. La verità e il bene costituiscono la comunità in quanto si dà prima di tutto il dovere di cercarli, da cui discende poi – poi – il diritto di farlo. Anche per quanto riguarda il diritto alla libertà religiosa la Dignitaits humanae – non lo si dimentichi – lo fonda sul dovere di cercare la verità. Non si tratta qui solo della complementarietà tra diritti e doveri, per cui per ogni diritto esiste un corrispettivo dovere. Si tratta invece della priorità del dovere sul diritto. Solo in un quadro di doveri i diritti sono veramente tali e vengono salvati dalla schiavitù dell’arbitrio. Una società dei soli diritti sarebbe una società dell’arbitrio, ossia non sarebbe più una società.

Chiedersi chi siamo vuol dire allora precisare il quadro dei doveri dentro cui inserire i nostri diritti. Questo si chiama cittadinanza. La cittadinanza non è solo acquisizione di diritti, essa è prima di tutto accoglienza di doveri dentro i quali godere dei diritti non arbitrari. E’ chiaro che se non abbiamo chiaro questo per noi, non possiamo proporlo in modo chiaro agli immigrati. Purtroppo su questo punto dobbiamo registrare una grande debolezza delle società occidentali in genere ed anche di quella italiana. La debolezza del quadro dei doveri produce l’indifferenza per i diritti. Indifferenza nel negarli e indifferenza nel riconoscerli. Manca il criterio per il discernimento, che può essere dato solo dalla cornice dei doveri. Una società come la nostra, così divisa su quanto sia giusto e ingiusto, bene e male e perfino su quanto sia umano e non umano, così incerta sui doveri che hanno fatto la sua identità e così incerta sulla sua stessa identità come potrà elaborare veri progetti di conferimento di cittadinanza a persone immigrate? Sarà continuamente sballottata tra il concederla a tutti, rendendola così insignificante, o di negarla a tutti per esempio con i respingimenti. Mentre vengono progressivamente meno i due criteri che in passato avevano regolato il conferimento della cittadinanza, quello dello jus soli e quello dello jus sanguinis, ed emerge un criterio di umanità, un criterio di cittadinanza etica, le nostre società occidentali perdono di vista cosa significhi essere uomo e cadono nel relativismo etico. Pensano che quello pubblico sia lo spazio ove tutte le identità hanno indifferentemente diritto di esprimersi e chiamano questo vuoto laicità o democrazia.

Non bisogna essere legati alla propria identità in quanto propria, ma a quanto ha reso possibile tale identità e le ha conferito dei criteri di bene universale e di umanità. Non dobbiamo cessare di avere un volto, pensando così di accogliere meglio il volto degli altri. Senza un volto, le relazioni dovute all’immigrazione scadono nella indifferenza. E’ vero che la mia identità è suscitata dalla tua identità, ma questo manifesta appunto il valore dell’identità e non dell’indifferenza. Le due identità si interpellano solo se non si intendono indifferenti né si intendono chiuse, ossia solo se indicano parzialmente tramite se stesse la “pienezza dell’umano”. Chiedendo agli immigrati di assumere prima di tutto dei doveri, la nostra società è costretta a verificare anche se stessa circa il rispetto di quei doveri. Se la nostra società si limita a conferire dei diritti, rimane preda dell’indifferenza dei diritti.

I diritti degli immigrati si pongono a tre diversi livelli: c’è il diritto ad essere trattato come persona umana, alimentato, vestito, curato in caso di fuga dal paese di origine e di approdo in un paese nuovo; ci sono poi i diritti civili relativi all’alloggio e al lavoro per i cittadini stranieri regolarizzati; ci sono infine i diritti politici, come quello del voto. Ognuno di questi livelli dei diritti si fonda sui dei doveri precedentemente assunti. Compreso il primo livello, che si fonda sul dovere naturale di mantenersi in vita. La società che li riceve sentirà di avere un dovere nei loro confronti, ma anche che il progressivo inserimento nella società deve passare dalla loro responsabile assunzione di doveri, che precedono i diritti civili e quelli politici
. Naturalmente la cittadinanza politica richiederà più tempo, in quanto il suo conferimento si fonda su una profonda condivisione dei doveri, dato che quei diritti mettono in grado di guidare la società e di governare degli uomini. Facendo questo, però, la società accogliente deve chiarire a se stessa i propri doveri e perché essi siano tali non perché propri ma perché doveri, ossia abbiano un tale carattere di verità da doverli pretendere anche da altri. Questo è l’atteggiamento oggi più difficoltoso nelle nostre società: siamo legati alla nostra identità ma non sappiamo dire quali doveri la fondano e se i doveri che la fondano sono tali non solo in quanto nostri ma in se stessi e quindi meritevoli di essere proposti anche ad altri.

Il problema che sto ponendo riguarda la ragione politica e la sua capacità di conoscere, e quindi trovare un accordo condiviso, su un quadro di doveri di riferimento per tutti. La ragione politica delle democrazie occidentali, e quindi anche della nostra nazione, ritiene di avere la forza necessaria per stabilire quali comportamenti di chi viene accolto sono inaccettabili in quanto non rispettosi di alcuni doveri fondamentali cui non si vuole rinunciare? La sfida, come si vede, è per noi. Se pensiamo di non essere nessuno, se abbiamo già inconsciamente abiurato dal nostro passato, se non nutriamo più alcuna fiducia nella capacità della ragione di vedere cos’è l’uomo o cos’è la donna, se siamo tutti uguali oppure no, se sia lecito per motivi culturali umiliare il prossimo o fargli violenza, se il principio della sovranità della legge sia ancora valido o se sia superato … se riteniamo di non aver più queste capacità, allora non sapremo accogliere, ma solo inserire, accostare o ammucchiare.

Nasce da qui il fallimento dei due principali progetti di integrazione attuati in Europa, quello multiculturalista e quello dell’indifferenza dello spazio pubblico rispettivamente inglese e francese. In ambedue i casi le culture convivono senza conoscersi e senza integrarsi. In Inghilterra viene accolta la sharia e le donne possono presentarsi in tribunale con il volto completamente coperto. In Francia esiste solo la legge della Repubblica e non si possono esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. Due modelli diversi, ma ugualmente non accoglienti e non integranti, a causa dell’abdicazione della ragione pubblica del proprio dovere di conoscere quanto è umano da quanto non lo è. Due modelli diversi ma in entrambi vige la poligamia. In Germania gli immigrati turchi godono dei vantaggi del walfare ma vivono con leggi ed usanze collaterali. L’accoglienza delle culture come indifferenza alle culture non è accoglienza. Del resto, se le leggi occidentali permettono l’aborto, l’eutanasia e il suicidio assistito su quali basi dovrebbero vietare, per esempio, la poligamia di fatto, tribunali improntati alla legge islamica, oppure il rifiuto delle trasfusioni per i Testimoni di Jehowa? E’ la mancanza di un quadro di doveri, dei nostri doveri, a renderci deboli anche nell’accoglienza degli altri. Il dovere è essere-a-disposizione. Senza doveri non siamo a disposizione degli altri perché non lo siamo nemmeno di noi stessi. Semplicemente non-siamo-a-disposizione.

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ZENIT Staff

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