CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 4 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della prima meditazione d’Avvento che il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì alla presenza di Benedetto XVI nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.
Il tema delle meditazioni di quest’anno è: “Ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4, 1),
Le prossime Prediche si terranno l’11 e il 18 dicembre.
* * *
1. Alla sorgente di ogni sacerdozio
Nella scelta del tema da proporre in queste prediche alla Casa Pontificia cerco sempre di farmi guidare dalla particolare grazia che la Chiesa sta vivendo. L’anno scorso era la grazia dell’anno paolino, quest’anno è la grazia dell’anno sacerdotale, della cui proclamazione, Santo Padre, le siamo tutti profondamente grati.
Il concilio Vaticano II ha dedicato al tema del sacerdozio un intero documento, il Presbyterorum ordinis; Giovanni Paolo II, nel 1992, ha indirizzato a tutta la Chiesa l’esortazione post-sinodale Pastores dabo vobis, sulla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali; l’attuale Sommo Pontefice, nell’indire il presente anno sacerdotale, ha tracciato un breve ma intenso profilo del sacerdote alla luce della vita del Santo Curato d’Ars. Non si contano gli interventi di singoli vescovi su questo tema, per non parlare dei libri scritti sulla figura e la missione del sacerdote nel secolo da poco terminato, alcuni dei quali opere letterarie di prima grandezza.
Che cosa si può aggiungere a tutto ciò nel breve tempo di una meditazione? Mi incoraggia il detto con cui, ricordo, un predicatore iniziava il suo corso di esercizi: “Non nova ut sciatis, sed vetera ut faciatis”: l’importante non è conoscere cose nuove, ma mettere in pratica quelle conosciute. Rinuncio dunque a ogni tentativo di sintesi dottrinale, di presentazioni globali o profili ideali sul sacerdote (non ne avrei né il tempo, né la capacità) e cerco, se possibile, di far vibrare il nostro cuore sacerdotale, al contatto con qualche parola di Dio.
La parola della Scrittura che ci servirà da filo conduttore è 1 Corinzi 4,1 che molti di noi ricordano nella traduzione latina della Volgata: “Sic nos existimet homo ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei”: “Così ognuno ci consideri: servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”. Ad essa possiamo affiancare, per certi aspetti, la definizione della Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote, preso tra gli uomini, è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1).
Queste frasi hanno il vantaggio di riportarci alla radice comune di ogni sacerdozio, cioè a quello stadio della rivelazione quando il ministero apostolico non si è ancora diversificato, dando luogo ai tre gradi canonici di vescovi, presbiteri e diaconi, che, almeno per quanto riguarda le rispettive funzioni, diventeranno chiari solo con sant’Ignazio d’Antiochia, all’inizio del II secolo. Questa radice comune è messa in luce dal Catechismo della Chiesa Cattolica che definisce l’Ordine sacro “il sacramento grazie al quale la missione affidata da Cristo ai suoi apostoli continua ad essere esercitata nella Chiesa sino alla fine dei tempi: è dunque il sacramento del ministero apostolico” (n. 1536).
È a questo stadio iniziale che cercheremo di riferirci il più possibile nelle nostre meditazioni, allo scopo di cogliere l’essenza del ministero sacerdotale. In questo Avvento, prenderemo in considerazione solo la prima parte della frase dell’Apostolo: “Servitori di Cristo”. Se Dio vuole, proseguiremo in Quaresima la nostra riflessione, meditando su cosa significa per un sacerdote essere “amministratore dei misteri di Dio” e quali sono i misteri che deve amministrare.
“Servi di Cristo!” (con il punto esclamativo a indicare la grandezza, dignità e bellezza di questo titolo): ecco la parola che dovrebbe toccare il nostro cuore nella presente meditazione e farlo vibrare di santo orgoglio. Qui non parliamo dei servizi pratici o ministeriali, come amministrare la parola e i sacramenti (di questo, dicevo, parleremo in Quaresima); non parliamo, in altre parole, del servizio come atto, ma del servizio come stato, come vocazione fondamentale e come identità del sacerdote e ne parliamo nello stesso senso e con lo stesso spirito di Paolo che all’inizio delle sue lettere si presenta sempre così: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione”.
Sul passaporto invisibile del sacerdote, quello con cui si presenta ogni giorno al cospetto di Dio e del suo popolo, alla voce “professione”, si dovrebbe poter leggere: “Servo di Gesù Cristo”. Tutti i cristiani sono naturalmente servi di Cristo, ma il sacerdote lo è a un titolo e in un senso tutto particolare, come tutti i battezzati sono sacerdoti, ma il ministro ordinato lo è a un titolo e in un senso diverso e superiore.
2. Continuatori dell’opera di Cristo
Il servizio essenziale che il sacerdote è chiamato a rendere a Cristo è continuare la sua opera nel mondo: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21). Il papa san Clemente, nella sua famosa Lettera ai Corinzi, commenta: “Cristo è mandato da Dio e gli Apostoli da Cristo… Essi, predicando dappertutto in campagna ed in città, nominarono i loro primi successori, essendo stati messi alla prova dallo Spirito, per essere vescovi e diaconi”. Cristo è mandato dal Padre, gli apostoli da Cristo, i vescovi dagli apostoli: è la prima enunciazione chiara del principio della successione apostolica.
Ma quella parola di Gesù non ha solo un significato giuridico e formale. Non fonda, in altre parole, solo il diritto dei ministri ordinati di parlare come “mandati” da Cristo; indica anche il motivo e il contenuto di questo mandato che è lo stesso per cui il Padre ha mandato il Figlio nel mondo. E perché Dio ha mandato il Figlio suo nel mondo? Anche qui rinunciamo a risposte globali, esaustive, per le quali bisognerebbe leggere tutto il vangelo; solo qualche dichiarazione programmatica di Gesù.
Davanti a Pilato egli afferma solennemente: “Per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità” (Gv 18,37). Continuare l’opera di Cristo comporta dunque per il sacerdote un rendere testimonianza alla verità, far brillare la luce del vero. Solo bisogna tener conto del duplice significato della parola verità, aletheia, in Giovanni. Esso oscilla tra la realtà divina e la conoscenza della realtà divina, tra un significato ontologico o oggettivo e uno gnoseologico o soggettivo. Verità è “la realtà eterna in quanto rivelata agli uomini, riferibile sia alla realtà stessa che alla sua rivelazione”[1].
L’interpretazione tradizionale ha inteso “verità” soprattutto nel senso di rivelazione e conoscenza della verità; in altre parole, come verità dogmatica. Questo è un compito certamente essenziale. La Chiesa, nel suo insieme, lo assolve per mezzo del magistero, dei concili, dei teologi, e il singolo sacerdote predicando al popolo la “sana dottrina”.
Non bisogna però dimenticare l’altro significato giovanneo di verità: quello di realtà conosciuta, più che conoscenza della realtà. In questa luce, il compito della Chiesa e del singolo sacerdote non si limita a proclamare le verità della fede, ma deve aiutare a farne l’esperienza, a entrare in un contatto intimo e personale con la realtà di Dio, mediante lo Spirito Santo.
“La fede, ha scritto san Tommaso d’Aquino, non termina all’enunciato, ma alla cosa” (“Fides non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”). Parimenti, i maestri della fede non possono accontentarsi di insegnare le cosiddette verità di fede, devono aiutare le persone ad attingere la “cosa”, a non avere s
oltanto una idea di Dio, ma a fare l’esperienza di lui, secondo il senso biblico di conoscere, diverso, come è noto, da quello greco e filosofico.
Altra dichiarazione programmatica di intenti è quella che Gesù pronuncia davanti a Nicodemo: “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 16). Questa frase va letta alla luce di quella che la precede immediatamente: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”. Gesù è venuto a rivelare agli uomini la volontà salvifica e l’amore misericordioso del Padre. Tutta la sua predicazione è riassunta nella parola che rivolge ai discepoli nell’ultima cena: “Il Padre vi ama!” (Gv 16, 27).
Essere continuatore nel mondo dell’opera di Cristo significa fare proprio questo atteggiamento di fondo nei confronti della gente, anche dei più lontani. Non giudicare, ma salvare. Non dovrebbe passare inosservato il tratto umano sul quale la Lettera agli Ebrei maggiormente insiste nel delineare la figura di Cristo sommo Sacerdote e di ogni sacerdote: la simpatia, il senso di solidarietà, la compassione nei confronti del popolo.
Di Cristo è detto: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato”. Del sacerdote umano si afferma che “preso tra gli uomini, è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati; così può avere compassione verso gli ignoranti e gli erranti, perché anch’egli è soggetto a debolezza; ed è a motivo di questa che egli è obbligato a offrire dei sacrifici per i peccati, tanto per se stesso quanto per il popolo” (Eb 4,15-5,3).
È vero che Gesù, nei vangeli, si mostra anche severo, giudica e condanna, ma con chi lo fa? Non con la gente semplice, che lo seguiva e veniva ad ascoltarlo, ma con gli ipocriti, gli autosufficienti, i maestri e le guide del popolo. Gesù non era davvero, come si dice di certi uomini politici : “forte con i deboli e debole con i forti”. Tutto il contrario!
3. Continuatori, non successori
Ma in che senso possiamo parlare dei sacerdoti come continuatori dell’opera di Cristo? In ogni istituzione umana, come era a quel tempo l’impero romano e come sono oggi gli ordini religiosi e tutte le imprese mondane, i successori continuano l’opera, ma non la persona del fondatore. Questi a volte viene corretto, superato e perfino sconfessato. Non così la Chiesa. Gesù non ha successori perché non è morto, ma vivo; “risorto da morte, la morte non ha più potere su di lui”.
Quale sarà allora il compito dei suoi ministri? Quello di rappresentarlo, cioè di renderlo presente, di dare forma visibile alla sua presenza invisibile. In questo consiste la dimensione profetica del sacerdozio. Prima di Cristo la profezia consisteva essenzialmente nell’annunciare una salvezza futura, “negli ultimi giorni”, dopo di lui consiste nel rivelare al mondo la presenza nascosta di Cristo, nel gridare come Giovanni Battista: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete”.
“Un giorno alcuni greci si rivolsero all’apostolo Filippo con la domanda: “Vorremmo vedere Gesù!” (Gv 12, 21); la stessa domanda, più o meno esplicita, ha nel cuore chi si avvicina oggi al sacerdote.
San Gregorio Nisseno ha coniato un’espressione famosa, che viene di solito applicata all’esperienza dei mistici: “Sentimento di presenza” [2] Il sentimento di presenza è più che la semplice fede nella presenza di Cristo; è avere il sentimento vivo, la percezione quasi fisica, della sua presenza di Risorto. Se questo è proprio della mistica, allora vuol dire che ogni sacerdote deve essere un mistico, o almeno un “mistagogo”, uno che introduce le persone al mistero di Dio e di Cristo, come tenendole per mano.
Il compito del sacerdote non è diverso, anche se subordinato, rispetto a quello che il Santo Padre additava come priorità assoluta del Successore di Pietro e della Chiesa intera nella lettera indirizzata ai Vescovi il 10 Marzo scorso:
“Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto… Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo”.
4. Servi e amici
Ma ora dobbiamo fare un passo avanti nella nostra riflessione. “Servi di Gesù Cristo!”: questo titolo non dovrebbe mai stare da solo; ad esso si deve affiancare sempre, almeno, nel fondo del proprio cuore, un altro titolo: quello di amici!
La radice comune di tutti i ministeri ordinati che si delineeranno in seguito è la scelta che Gesù fece un giorno dei Dodici; questo è ciò che, dell’istituzione sacerdotale, risale al Gesù storico. La liturgia colloca, è vero, l’istituzione del sacerdozio il Giovedì Santo, a causa della parola che Gesù pronunciò dopo l’istituzione dell’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me”. Ma anche questa parola presuppone la scelta dei Dodici, senza contare che, presa da sola, giustificherebbe il ruolo di sacrificatore e liturgo del sacerdote, ma non quello, altrettanto fondamentale, di annunciatore del vangelo.
Ora, che cosa disse in quella circostanza Gesù? Perché scelse i Dodici, dopo aver pregato tutta la notte? “Ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a predicare” (Mc 3,14-15). Stare con Gesù e andare a predicare: stare e andare, ricevere e dare: c’è in poche parole l’essenziale del compito dei collaboratori di Cristo.
Stare “con” con Gesù non significa evidentemente solo una vicinanza fisica; c’è già, in nuce, tutta la ricchezza che Paolo racchiuderà nella formula pregnante “in Cristo” o “con Cristo”. Significa condividere tutto di Gesù: la sua vita itinerante, certo, ma anche i suoi pensieri, gli scopi, lo spirito. La parola compagno viene dal latino medievale e significa colui che ha in comune (con-) il pane (panis), che mangia lo stesso pane.
Nei discorsi di addio, Gesù fa un passo avanti, completando il titolo di compagni con quello di amici: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (Gv 15.15).
C’è qualcosa di commovente in questa dichiarazione d’amore di Gesù. Ricorderò sempre il momento in cui fu dato anche a me, per un istante, di conoscere qualcosa di questa commozione. In un incontro di preghiera qualcuno aveva aperto la Bibbia e aveva letto quel brano di Giovanni. La parola “amici” mi raggiunse a una profondità mai sperimentata; smosse qualcosa nel profondo di me, tanto che per tutto il resto della giornata andavo ripetendo tra me, pieno di stupore e di incredulità: Mi ha chiamato amico! Gesù di Nazareth, il Signore, il mio Dio! Mi ha chiamato amico! Io sono suo amico! E mi pareva che si potesse volare sui tetti della città e attraversare anche il fuoco, con quella certezza.
Quando parla dell’amore di Gesù Cristo san Paolo appare sempre “commosso”: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rom 8, 35), “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Noi siamo portati a diffidare della commozione e perfino a vergognarcene. Non sappiamo di quale ricchezza ci priviamo. Gesù “si commosse prof
ondamente” e pianse davanti alla vedova di Nain (cf Lc 7, 13) e alle sorelle di Lazzaro (cf Gv 11, 33.35). Un sacerdote capace di commuoversi quando parla dell’amore di Dio e della sofferenza di Cristo o raccoglie la confidenza di un grande dolore, convince meglio che con infiniti ragionamenti. Commuoversi non significa necessariamente mettersi a piangere; è qualcosa che si avverte negli occhi, nella voce. La Bibbia è piena del pathos di Dio.
5. L’anima di ogni sacerdozio
Un rapporto personale, pieno di confidenza e di amicizia con la persona di Gesù è l’anima di ogni sacerdozio. In vista dell’anno sacerdotale mi sono riletto il libro di Dom Chautard “L’anima di ogni apostolato” che fece tanto bene e scosse tante coscienze negli anni anteriori al concilio. In un momento in cui c’era grande entusiasmo per le “opere parrocchiali”: cinema, ricreatori, iniziative sociali, circoli culturali, l’autore riportava bruscamente il discorso al cuore del problema, denunciando il pericolo di un attivismo vuoto. “Dio, scriveva, vuole che Gesù sia la vita delle opere”.
Non riduceva l’importanza delle attività pastorali, tutt’altro, affermava però che senza una vita di unione con Cristo, esse non erano che “stampelle”, o, come le definiva san Bernardo, “maledette occupazioni”. Gesù disse a Pietro: “Simone mi ami? Pasci le mie pecore”. L’azione pastorale di ogni ministro della Chiesa, dal papa all’ultimo sacerdote, non è che l’espressione concreta dell’amore per Cristo. Mi ami? Allora pasci! L’amore per Gesù è quello che fa la differenza tra il sacerdote funzionario e manager e il sacerdote servo di Cristo e dispensatore dei misteri di Dio.
Il libro di Dom Chautard avrebbe potuto benissimo intitolarsi “L’anima di ogni sacerdozio”, perché è di lui che si parla, in pratica, in tutta l’opera, come agente e responsabile in prima linea della pastorale della Chiesa. A quel tempo, il pericolo a cui si intendeva reagire era il cosiddetto “americanismo”. L’Abate si rifà spesso, infatti, alla lettera di Leone XIII “Testem benevolentiae” che aveva condannato tale “eresia”.
Oggi questa eresia, se di eresia si può parlare, non è più solo “americana”, ma una minaccia che, anche a causa del diminuito numero dei sacerdoti, insidia il clero di tutta la Chiesa: si chiama attivismo frenetico. (Molte delle istanze, del resto, che provenivano in quel tempo dai cristiani degli Stati Uniti, e in particolare dal movimento creato dal servo di Dio Isaac Hecker, fondatore dei Paulist Fathers, bollate con il termine “americanismo”, per esempio la libertà di coscienza e la necessità di un dialogo con il mondo moderno, non erano eresie, ma istanze profetiche che il Concilio Vaticano II, in parte, farà proprie!).
Il primo passo, per fare di Gesù l’anima del proprio sacerdozio, è passare dal Gesù personaggio al Gesù persona. Il personaggio è uno del quale si può parlare a piacimento, ma al quale e con il quale nessuno si sogna di parlare. Si può parlare di Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone finché si vuole, ma se uno dicesse di parlare con qualcuno di essi, lo manderebbero subito da uno psichiatra. La persona, al contrario, è uno con il quale e al quale si può parlare. Finché Gesù rimane un insieme di notizie, di dogmi o di eresie, qualcuno che si colloca istintivamente nel passato, una memoria, non una presenza, è un personaggio. Bisogna convincersi che egli è vivo e presente, e più importante che parlare di lui, è parlare con lui.
Uno dei tratti più belli della figura del don Camillo di Guareschi, naturalmente tenendo conto del genere letterario adottato, è il suo parlare ad alta voce con il Crocifisso di tutte le cose che succedono nella parrocchia. Se prendessimo l’abitudine di farlo, così spontaneamente, con parole proprie, quante cose cambierebbe nella nostra vita sacerdotale! Ci accorgeremmo che non parliamo mai a vuoto, ma a qualcuno che è presente, ascolta e risponde, magari non ad alta voce come a Don Camillo.
<p>6. Mettere al sicuro “le grosse pietre”
Come in Dio tutta l’opera esterna della creazione, sgorga dalla sua vita intima, “dall’incessante flusso del suo amore”, e come tutta l’attività di Cristo sgorga dal suo dialogo ininterrotto con il Padre, così tutte le opere del sacerdote devono essere il prolungamento della sua unione con Cristo. “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”, significa anche questo: “Io sono venuto nel mondo senza separarmi dal Padre, voi andate nel mondo senza separarvi da me”.
Quando questo contatto si interrompe, è come quando in una casa cade la corrente elettrica e tutto si ferma e rimane al buio, o, se si tratta del rifornimento idrico, i rubinetti non danno più acqua. Si sente dire talvolta: come starsene tranquilli a pregare quando tanti bisogni reclamano la nostra presenza? Come non correre, quando la casa brucia? E’ vero, ma immaginiamo cosa succederebbe a una squadra di pompieri che accorresse, a sirene spiegate, per spegnere un incendio e poi, giunta sul posto, si accorgesse di non avere con sé, nei serbatoi, neppure una goccia d’acqua. Così siamo noi, quando corriamo a predicare o ad altro ministero vuoti di preghiera e di Spirito Santo.
Ho letto da qualche parte una storia che mi sembra si applichi in modo esemplare ai sacerdoti. Un giorno, un vecchio professore fu chiamato come esperto a parlare sulla pianificazione più efficace del proprio tempo ai quadri superiori di alcune grosse compagnie nordamericane. Decise allora di tentare un esperimento. In piedi, tirò fuori da sotto il tavolo un grosso vaso di vetro vuoto. Insieme prese anche una dozzina di pietre grosse quanto palle da tennis che depose delicatamente una a una nel vaso fino a riempirlo. Quando non si poteva aggiungere più altri sassi, chiese agli allievi: «Vi sembra che il vaso sia pieno?» e tutti risposero «Si!».
Si chinò di nuovo e tirò fuori da sotto il tavolo una scatola piena di breccia che versò sopra le grosse pietre, movendo il vaso perché la breccia potesse infiltrarsi tra le pietre grosse fino al fondo. «È pieno questa volta il vaso?» chiese. Divenuti più prudenti, gli allievi cominciarono a capire e risposero: «Forse non ancora». Il vecchio professore si chinò di nuovo e tirò fuori questa volta un sacchetto di sabbia che versò nel vaso. La sabbia riempì gli spazi tra i sassi e la breccia. Quindi chiese di nuovo: «È pieno ora il vaso?». E tutti, senza esitare, risposero: «No!». Infatti il vecchio prese la caraffa che era sul tavolo e versò l’acqua nel vaso fino all’orlo.
A questo punto domanda: «Quale grande verità ci mostra questo esperimento?». Il più audace rispose: «Questo dimostra che anche quando la nostra agenda è completamente piena, con un po’ di buona volontà, si può sempre aggiungervi qualche impegno in più, qualche altra cosa da fare». «No» rispose il professore. «Quello che l’esperimento dimostra è che se non si mettono per primo le grosse pietre nel vaso, non si riuscirà mai a farvele entrare in seguito.» «Quali sono le grosse pietre, le priorità, nella vostra vita? La cosa importante è mettere queste grosse pietre per prime nella vostra agenda».
San Pietro ha indicato, una volta per tutte, quali sono le grosse pietre, le priorità assolute, degli apostoli e dei loro successori, vescovi e sacerdoti: “Quanto a noi, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola” (At 6,4).
Noi sacerdoti, più che chiunque altro, siamo esposti al pericolo di sacrificare l’importante all’urgente. La preghiera, la preparazione dell’omelia o alla Messa, lo studio e la formazione, sono tutte cose importanti, ma non urgenti; se si rimandano, apparentemente, non casca il mondo, mentre ci sono tante piccole cose – un incontro, una telefonata, un lavoretto materiale – che sono urgenti. Così si finisce per rimandare sistematicamente le cose importanti a
un “dopo” che non arriva mai.
Per un sacerdote, mettere per prime nel vaso le pietre grosse, può significare molto concretamente, iniziare la giornata con un tempo di preghiera e di dialogo con Dio, in modo che le attività e gli impegni vari non finiscano per occupare tutto lo spazio.
Termino con una preghiera dell’abate Chautard che si trova stampata nel programma di queste meditazioni: “O Dio, date alla Chiesa tanti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore una sete ardente di intimità con Voi e insieme un desiderio di lavorare per il bene del prossimo. Date a tutti un’attività contemplativa e una contemplazione operosa”. Così sia!
———-
1) H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Paideia, Brescia 1974, p. 227.
2) Gregorio Nisseno, Sul Cantico, XI, 5, 2 (PG 44, 1001) (aisthesis parousias).