di Renzo Puccetti*
ROMA, domenica, 29 novembre 2009 (ZENIT.org).- La commissione sanità del Senato della Repubblica ha concluso la propria indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU 486, approvando a maggioranza un documento estremamente stimolante per la ricchezza di spunti che offre alla riflessione bioetica.[1]
In via preliminare si può affrontare il tema dell’opportunità di una discussione politica riguardo alla questione di un farmaco abortivo (etimologicamente il termine farmaco riconosce la duplice accezione di lenimento e di veleno; dal momento che la gravidanza, desiderata o meno, non costituisce di per sé un elemento patologico, per qualsiasi prodotto abortivo è difficile individuarne la valenza curativa).
Vi sono quanti sostengono che la decisione sull’aborto chimico sia di mera spettanza medico-scientifica. Nel caso italiano questa prospettiva individua nell’approvazione del prodotto da parte del CdA dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), e prima ancora da parte del suo comitato tecnico-scientifico, il punto di svolta oltre il quale ogni ulteriore discussione rappresenta un’indebita intromissione nella relazione sanitaria tra donna e medico.
In termini generali possiamo facilmente comprendere come tale impostazione sia estremamente debole. La bioetica ha tra le sue radici principali la evidenza che la conoscenza tecnologica è divenuta così potente nella sua capacità manipolatoria della vita umana, da rendersi necessario sottrarre l’esclusiva gestione delle decisioni all’ambito tecnico-scientifico.
A tal proposito si possono citare le parole della commissione che interruppe il Tuskegee Syphilis Study: «La società non può più permettere che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla comunità scientifica».
L’aborto costituisce un intervento che, laddove legalizzato o depenalizzato, per la particolarità e rilevanza pubblica dei beni in gioco, viene comunque sempre normato in modo specifico attraverso leggi e regolamenti. Nel nostro paese la legge 194 definisce i criteri di non punibilità dell’aborto, ma non vi sono leggi che regolano in maniera distinta il taglio cesario, l’estrazione dentaria, o la polipectomia endoscopica.
L’indagine del parlamento italiano non può essere indicata come una bizzarra intromissione politica rinvenibile solo nel nostro paese, se non dimostrando scarsa conoscenza della questione. Le “relazioni pericolose” tra politica ed RU 486 costellano la storia del prodotto sin dagli esordi.
Come dimenticare le pressioni esercitate dal ministro della sanità francese Claude Evin sull’azienda Roussel Uclaf che aveva deciso di ritirare dal mercato la RU 486? Come tralasciare l’attivo coinvolgimento del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nell’esortare l’azienda francese produttrice della pillola abortiva ad estenderne il commercio sul territorio americano?
Come omettere la commissione d’indagine parlamentare presieduta dal deputato Mark Sauder che negli USA ha prodotto un rapporto assai critico nei confronti dell’operato dell’ente americano per la sorveglianza dei farmaci? Ed il serrato dibattito nel parlamento australiano? E il concomitante impegno politico di alcuni medici coinvolti nella promozione della RU 486 nel nostro paese?
Alla luce di queste considerazioni l’interessamento dell’organo di rappresentanza del popolo italiano nell’affare RU 486 è da ritenersi non solo lecito, ma addirittura doveroso. È pertanto ridicolo accusare d’incompetenza una commissione parlamentare che al suo interno racchiude numerose e qualificate competenze, per di più presieduta dal senatore Tomassini, medico, già primario di ginecologia ed ostetricia, difficilmente accusabile di non possedere i requisiti per comprendere certi elementi di matrice tecnico-sanitaria.
Come peraltro già evidenziato attraverso un’ampia revisione scientifica dal Gruppo di Studio per l’Aborto Medico (GISAM), la commissione non ha potuto che prendere atto della presenza di elementi di criticità all’interno della procedura abortiva farmacologica con diversi articoli della legge 194.
L’indicazione che l’intera procedura abortiva si svolga all’interno delle strutture sanitarie individuate nella legge espressa nel documento approvato dalla commissione parlamentare deriva dalla preoccupazione che anche nel nostro paese si possano verificare casi tragici come quello di Rebecca Tell Berg, morta a 16 anni per emorragia secondaria ad aborto chimico gestito a domicilio, evitando inoltre che gli aborti avvengano in autobus, come è stato descritto nella letteratura scientifica.
La proposta della commissione senatoriale di un’analisi più approfondita della letteratura medica riguardo al profilo di sicurezza ed efficacia della procedura abortiva farmacologica nasce dalla consapevolezza che la legge italiana prevede il ricorso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”; si tratta di qualità spesso attribuite alla pillola abortiva senza il necessario, metodologicamente rigoroso, supporto scientifico.
La supposta minore dolorabilità associata alla metodica di aborto chimico trova disconferma dall’intero corpo delle sperimentazioni cliniche, compresa quella appena pubblicata di Health Technology Assessment.
Non deve inoltre sfuggire la preoccupazione espressa dal prof. Casavola, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, delle “ricadute nell’immaginario collettivo di ogni prodotto del progresso scientifico, potrebbe apparire più invogliante l’assunzione di una pillola rispetto alla complessità derivante dalla metodica dell’aborto chirurgico”.
Si tratta di una valutazione già empiricamente in parte esplorata dallo studio GISAM già ricordato. Adesso la palla è nelle mani dell’esecutivo. Qui preme identificare almeno altri due punti che sono da puntualizzare in maniera ulteriore.
Il primo riguarda una prassi tutt’altro che astratta, essendo stata adottata in Toscana dove, seppure il protocollo regionale preveda il ricovero ordinario di tre giorni per le donne che abortiscono con la RU 486, di fatto la quasi totalità abortisce anche fuori dalla struttura ospedaliera attraverso il ricorso alle dimissioni volontarie.
Si tratta di un comportamento che, per la sua vastità, per la coincidenza con le risultanze di un’estesa indagine giornalistica e per la dissonanza rispetto agli studi che indicano una preferenza delle donne a completare l’aborto in ospedale, non può non suscitare viva preoccupazione.
È da ritenere che una prospettiva tecnica di soluzione sia individuabile nel documento GISAM che la società Medico Scientifica Interdisciplinare Promed Galileo ha provveduto ad inviare anche agli organi competenti dell’esecutivo.
Sarebbe infatti paradossale che in nome della salute della donna si dovesse assistere a comportamenti su larga scala difficilmente inquadrabili come espressione di tutela della salute delle stesse donne che per giunta, proprio a causa dell’assunzione di responsabilità derivante dalla dimissione volontaria, non potrebbero neppure adire ai percorsi di tutela risarcitoria per eventuali danni alla salute derivanti da un accudimento sanitario insufficiente.
Il secondo aspetto che merita una riflessione ulteriore è quello dell’obiezione di coscienza. Rispetto a quello chirurgico il processo di aborto chimico è enormemente dilatato nel tempo. La inevitabile turnazione del personale sanitario non può andare a ledere il diritto del personale obiettore ad essere esonerato “dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”.
Dal momento che col metodo farmacologico non esistono criteri standardizzati per definire l’avvenuta interruzione della gravidanza, devono essere date adeguate
garanzie al medico obiettore il cui intervento non fosse “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” attraverso una codifica dei compiti e delle responsabilità nell’assistenza sanitaria delle donne che abortiscono col metodo chimico di cui il ministero deve farsi promotore e garante.
Data la complessità e la delicatezza di tali questioni è da temere che le modalità che il ministero del welfare ha adottato per dare seguito alle raccomandazioni della commissione d’indagine parlamentare[2] siano così vaghe da risultare insufficienti ad assicurare gli obiettivi annunciati.
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