di Giorgio Salina*

ROMA, venerdì, 6 novembre 2009 (ZENIT.org).- A proposito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, circa il crocifisso nelle aule italiane, probabilmente è necessario un minimo di chiarezza.

Questa Corte è un’emanazione del Consiglio europeo che ha sede a Strasburgo, composto da 47 Stati membri tra i quali la Federazione russa, la Georgia, l’Azerbaigian, l’Ucraina, la Turchia e diversi stati della ex Repubblica jugoslava. Come si può constatare non ha nulla a che fare con l’Unione europea. La Corte europea dei diritti dell’uomo vigila sul rispetto dei diritti umani nei Paesi membri.

Una denuncia, se dichiarata ammissibile, viene esaminata da una Collegio giudicante composta da 7 Giudici. In questo caso la sentenza è stata emessa all’unanimità, da 7 Giudici tra i quali un turco, ed un serbo. È possibile interporre appello contro le sentenze; l’appello sarà valutato da un Collegio di 5 giudici: se è considerato non ammissibile, la sentenza diviene automaticamente esecutiva, se viene ammesso, verrà esaminato dalla Grande Camera della Corte, composta da 17 Giudici, inclusi Presidente e Vice Presidenti della Corte e delle sezioni.

Alcune considerazioni per inquadrare meglio il problema. Le sentenze teoricamente sono vincolanti, ma il loro “valore” è certamente più politico che giuridico. Nessuno pensa che anche se la sentenza divenisse definitiva il Governo italiano correrebbe a rimuovere i crocifissi dalle aule.

Il valore politico si basa sulla constatazione che i motivi ispiratori sono da rintracciare nella deriva relativista e nichilista della mentalità dominante in Europa.

Teoricamente è possibile, ma è altamente improbabile che venga ribaltata un sentenza assunta all’unanimità. Anche in questo caso il valore dell’appello è politico, ed è in funzione della mobilitazione dell’opinione pubblica.

Infatti il portavoce della Corte, viste le reazioni nettamente contrarie, ha assunto un tono di giustificazione e di attenuazione della sentenza.

Come abbiamo visto ciò non ha, finora, nulla a che fare con la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che dovrebbe essere coinvolta con un ricorso a lei diretto. Ma se ciò accadesse le conseguenze sarebbero certamente ben più gravi, infatti: vista la recente giurisprudenza, un’eventuale sentenza non si discosterebbe molto da quella emessa a Strasburgo.

Ratificando il Trattato di Lisbona per via parlamentare, senza un serio dibattito, ma soltanto con retoriche affermazioni europeiste, abbiamo accettato senza alcuna eccezione che la Carta dei diritti fondamentali e la relativa giurisprudenza siano vincolanti per noi.

La Carta è un documento ambiguo, che può consentire tutto ed il contrario di tutto. Un esempio: l’articolo 9 della Carta sancisce il diritto di ciascun cittadino europeo di costituire una famiglia, e separatamente il diritto di sposarsi.

È evidente cosa potrà essere previsto in quest’ambito. E ciò è ancor più grave perché i Trattati riservano alla esclusiva competenza degli Stati il diritto familiare e quello matrimoniale. Con la giustificazione della uniformità dei diritti in tutti gli Stati dell’Unione, si tenta in modo surrettizio di legiferare in merito, attraverso la giurisprudenza.

Quattro Paesi (Gran Bretagna, Irlanda, Polonia e Repubblica ceca) hanno affermato, a vario titolo, con deroga riconosciuta dall’Unione, che la Carta dei diritti fondamentali e la relativa giurisprudenza varranno solo se non in contrasto con la loro Legislazione. Operazione che è stata definita «drop-out», con un termine inglese che descrive pressapoco chi rifiuta schemi e convenzioni della società, ponendosene ai margini.

Abbiamo accettato che la nostra cultura, la nostra storia e le nostre tradizioni siano giudicate dalla deriva relativista, senza possibilità di appello. Il Trattato di Lisbona sta entrando in vigore, e quindi avremo purtroppo modo di verificare i gravi rischi che la nostra posizione comporta.

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*Giorgio Salina è presidente dell'Associazione per la Fondazione Europa.