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Il 29 giugno 2009 Benedetto XVI ha firmato la sua terza Enciclica. Dopo 18 anni dalla Centesimus annus finalmente abbiamo una nuova Enciclica sociale. Questo numero de “La Società” è interamente dedicato alla Caritas in Veritate, con saggi monografici e interventi di approfondimento. Si tratta di una Enciclica sociale che si pone nella grande tradizione aperta dalla Rerum novarum di Leone XIII (1981) che si era occupata della questione operaia, della Quadragesimo anno di Pio XI (1931) che rifletteva sulla grande crisi finanziaria del ’29, della Mater et magistra di Giovanni XXIII (1961) che reagiva alla guerra fredda e al conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest, della Populorum progressio di Paolo VI (1967) che affrontava il grande tema del Terzo mondo e della giustizia sociale planetaria, della Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991) che interrogava di fronte al crollo del muro di Berlino del 1989.
Per comprendere la novità della Rerum Novarum ci sono voluti dieci anni. Altrettanti ce ne vorranno per comprendere le novità di questa enciclica. Molti dei commenti che abbiamo letto e ascoltato sembravano formulati da chi questa enciclica l’aveva scorsa senza leggerla. Invitiamo i lettori alla fatica delle lettura di questo testo magisteriale, alla meditazione, alla preghiera, alla riflessione comunitaria e dell’approfondimento. A leggere con attenzione il testo vi si trovano diversi linguaggi e diverse “stratificazioni”.
Vi è un primo strato del testo che riguarda l’aggiornamento dei temi della Dottrina sociale. Questo strato è profondamente debitore al lavoro di sistematizzazione e aggiornamento che ha trovato espressione compiuta nel Compendio della Dottrina Sociale.
Vi è un secondo strato che riguarda la rilettura della Populorum Progressio e ne sottolinea l’acutezza e la straordinaria profondità, al di fuori delle lenti deformanti dell’ideologia terzomondista, nella logica della “ermeneutica della continuità” che papa Ratzinger ha applicato anche al Concilio. Vi è un terzo strato, profondamente ratzingeriano, che riguarda il rapporto carità-verità e che ha un suo spazio e una sua autonomia concettuale. Vi è poi lo strato più profondo, lo strato contemplativo e spirituale, che è connotato da profondo realismo agostiniano. Papa Benedetto parla con semplicità di Dio e fonda teologicamente e trinitariamente tutta la ricerca della Dottrina sociale: senza Dio non sappiamo né chi siamo né dove andiamo.. Noi amiamo Cristo e per questo amiamo i poveri, non sostituiamo i poveri a Cristo.
Tutti questi strati trovano approfondimenti con toni e sfumature diverse nei diversi saggi a partire da quello fondativi di Mons. Mario Toso, nuovo Segretario della Pontificia Commissione Giustizia e Pace. Il tema di ogni Enciclica sociale è il posto di Dio nel mondo. Con la Caritas in veritate di Benedetto XVI, la Dottrina sociale della Chiesa fa un passo avanti nel difficile cammino della storia. L’Enciclica risponde ad una tentazione del nostro tempo. Poiché i cristiani sono simpatici quando fanno volontariato e si occupano dei poveri e risultano antipatici quando parlano di famiglia naturale, divorzio, aborto, eutanasia, cellule staminali, clonazione, allora – potremmo essere tentai di concludere “è meglio accontentarsi di fare la carità senza parlare della verità”.
E’ la tentazione di una sorta di “moratoria sulla verità” nel tempo del relativismo, facendo del Cristianesimo una filantropia. È una tentazione che alberga anche in molti cosiddetti “cattolici adulti” che mettono la sordina alle idee di fondo della Dottrina sociale per non affrontare temi eticamente sensibili e non trovarsi in dissenso col pensiero scientista dominante. Senza la forza della carità (intesa non come assistenza ma come amore) e la luce della verità cristiane l'uomo non è capace di tenersi insieme, perde i propri pezzi, si decompone.
C’è di più. Ed è il rapporto giustizia – carità. La giustizia è importantissima. A ognuno deve essere dato il suo. Ma – dicevano i romani – “summum jus summa iniuria”. Quando cerchiamo di raggiungere il massimo della giustizia rischiamo di essere iniqui. La storia è lì a dimostrarlo. Invece la carità eccede la giustizia anche se la ritiene indispensabile. Diceva il Toniolo “chi più può, più deve; chi meno può, più riceve”. Il pregio della Caritas in veritate sta nel superamento (già avviato con la Evangelium vitae di Giovanni Paolo II) della separazione dei temi della vita e della famiglia da quelli della giustizia sociale e della pace, e nella chiara affermazione che oggi “la questione sociale è questione antropologica”. Ci sono alcune “parole chiave” che sono rinvenibili nei sei capitoli in cui si divide l’Enciclica. Sono: sviluppo, dono, fraternità, diritti e doveri, cooperazione, globalizzazione. Ce n’è per tutti. Si confuta la teoria (apprezzata anche in alcune associazioni cattoliche) della “decrescita”. Si chiede a chi fa impresa di mettere l’uomo e il dono al centro dell’economia. Si invitano i sindacati a occuparsi anche dei giovani e dei disoccupati. Si confuta l’animalismo che pretende di rinunciare al primato dell’uomo sugli altri esseri viventi. Si criticano gli sprechi delle grandi organizzazioni internazionali. Si propone la nascita di un organismo internazionale che si occupi dell’immigrazione in chiave globale. Si guarda con simpatia e senza residui anticapitalistici al libero mercato come istituzione della libertà ma se ne criticano le deviazioni che nascono dalla rinuncia alla conciliazione tra etica e economia di cui la crisi finanziaria è un evidente conseguenza. Si parla dell’economia del dono (nel capitolo III su cui tanto si è discusso), del no profit, del commercio equo e solidale, dell’educazione, della finanza che deve rispettare le regole, del bene comune, della crisi economica, di una società che ha dimenticato il senso del dovere e scambia i desideri per diritti.
Si denuncia l'ideologia della tecnica come un nuovo assolutismo (in particolare nel capitolo VI dell’Enciclica). La Caritas in veritate si presenta come un bilancio politico e sociale della modernità e dei danni al vero sviluppo provocati dalla incapacità di cogliere ciò che non sia prodotto da noi. Senza Dio l'economia è solo economia, la natura è solo un deposito di materiale, la famiglia solo un contratto, la vita solo una produzione di laboratorio, l'amore solo chimica e lo sviluppo solo una crescita di beni materiali.
Si può dire che questa è l’Enciclica della globalizzazione. Ma le parti che mi hanno più appassionato, quelle in cui si coglie la penna del Papa - teologo, sono l’introduzione, il paragrafo 10 che denuncia una interpretazione sociologica della grande Enciclica Populorum progressio e ne pone l’interpretazione nel solco della tradizione apostolica, e il paragrafo 78, che costituisce una sorta di sintesi magistrale del messaggio di questa Enciclica molto complessa e ricca in cui in 127 pagine viene citato per 63 volte Giovanni Paolo II, per 61 volte Paolo VI (dedicando ben 55 citazioni alla Populorum progressio), per 2 volte San Tommaso, per 1 volta Sant’Agostino e per 1 volta Eraclito. Tutta l’Enciclica può essere riletta alla luce del famoso paragrafo 22 della Gaudium et spes: solo Gesù Cristo svela pienamente l'uomo all'uomo e gli permette di 'tenersi', come un tutto.
Noi cristiani sappiamo che non è possibile costruire una società perfetta. Una società definitivamente salva dentro la storia non esiste. E questo ha a che fare con il peccato originale. L’idea di progresso nasce con il cristianesimo. Ma l’idea di una salvezza collettiva e programmabile non è cristiana ed è propria di quei sogni ideologici che in nome della giustizia e della società perfetta chiudono nei lager o deportano in Siberia. Sogni che hanno attraversato la storia delle dottrine politiche e dei messianismi ideologici da Gioachino da Fiore a Rousseau, da Marx a Lenin, da Hitler a Stalin, da Mao a Che Guevara. Sogni che si sono rivelati speranze vane e hanno lasciato il passo alla disillusione.
Naturalmente il cristiano non è neppure l’uomo dell’accettazione dell’ingiustizia. Cambiare il mondo significa togliere agli uomini le loro paure, ridurre le aggressività, dare una patria in cui ci si senta sicuri, a tutti ma soprattutto a bambini, stranieri, moribondi, malati, ridurre il divario tra il Nord e il Sud del mondo.
In questo senso mettere il bavaglio alla Dottrina Sociale della Chiesa sarebbe un gesto contro i poveri e contro la storia. Chi denuncia le “ingerenze” della Chiesa nella vita pubblica (pensando agli interventi del Magistero quando sono in gioco i valori della vita, della persona, del bene comune) dovrebbe ricordare che – ammesso e non concesso che si tratti di “ingerenze” – si tratta di “ingerenze umanitarie”, cioè di interventi che mirano a proteggere la dignità delle persone immagine di Dio da ogni strumentalizzazione e da ogni sfruttamento.
La Chiesa, quando annuncia il Vangelo e le sue esigenze sociali, si fa paladina di ecologia umana, protegge l’ambiente umano da ogni sorta di inquinamento che ne minacci la dignità. Ogni uomo è per noi una storia sacra. Ma alle volte siamo noi cattolici a privilegiare una presenza pubblica low profile, in cui il silenzio sui temi politicamente più sensibili viene ritenuto saggio e opportuno. In questi casi siamo all'autogoal.
Con il loro quaerere Deum i monaci benedettini hanno fatto cultura. È un messaggio che vale anche per noi e per il nostro tempo e che ci invita alla serietà e alla fatica dello studio e del discernimento. Uno studio e un discernimento che è faticoso ma inevitabile se non vogliamo ridurc, nella democrazia televisiva a spettatori del “Grande Fratello” o a tifosi scalmanati di “Anno Zero”.
C'è una sproporzione tra la povertà culturale dell'era delle veline e delle mischia ideologica continuata e la grandezza culturale del Pontefice che lo Spirito Santo ha suggerito per il nostro tempo. E se lo Spirito ha portato alla elezione di un “Papa professore”, forse l’invito che ci viene è quello di rimetterci a studiare, a studiare prima di tutto la Parola di Dio e i grandi Padri della Chiesa che ce l’hanno così bene illustrata. E poi a studiare i maestri (oggi ignoti a molti) del cristianesimo moderno. Maestri a cui ha profondamente attinto anche Papa Ratzinger, da Romano Guardini a Henry De Lubac, a Balthasar.
Come è stato detto al Convegno Ecclesiale di Verona e in continuità con il Concilio Vaticano II, ci sono chieste tre scelte di fondo:
- il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa
la testimonianza personale e comunitaria come forma dell’esistenza cristiana
una formazione che converge sull’unità della persona.
I cinque ambiti che ci sono stati proposti a Verona puntano ad indirizzare l’impegno della Chiesa italiana verso l’unità della persona. Questo vale per la pastorale, ma vale a maggior ragione per la formazione della coscienza sociale. Nella vita affettiva, nella fragilità, nel rapporto con il lavoro e la festa, nella tradizione e nella cittadinanza siamo chiamati a testimoniare oggi il “sì” di Dio all’uomo, piuttosto che i “no” al mondo. Come ha affermato l’arcivescovo di Parigi, Cardinale Vingtrois “noi cattolici non possiamo diventare i pubblici ministeri del mondo”.
La Dottrina sociale della Chiesa costituisce oggi un ideale crocevia, un’agorà, un punto di incontro e confronto non solo per i cristiani, ma per quanti credono nel bene comune e lo perseguono. Non si tratta solo di apprendere ed insegnare il pensiero della Chiesa, quanto di educare a un metodo di pensiero, ad un atteggiamento di vita, ad una capacità di “discernimento sociale”, ad un esercizio responsabile della cittadinanza. La Dottrina sociale della Chiesa non è un pensiero che esclude ma che apre agli altri, guida e sostiene i cristiani e le comunità nella ricerca del bene comune.
L’Enciclica Caritas in veritate vuole proprio sostenere la nostra fede e la nostra capacità di testimoniare la verità. Un esempio può essere eloquente: quello di Ponzio Pilato che chiede con scetticismo “che cos’è la verità?”. E gli faceva eco Hans Kelsen, il grande giurista tedesco che dà vita al positivismo giuridico, per cui “la verità è irraggiungibile”. Se ci pensiamo bene Pilato è l’esempio del perfetto democratico relativista. Ha affidato a una maggioranza manipolata pro-Barabba il problema del vero, nonostante fosse convinto della innocenza di Gesù.
Benedetto XVI assomiglia, in questa sua titanica lotta contro il relativismo, ai grandi Padri della Chiesa, Basilio, Agostino, Atanasio, Ambrogio, che nei primi secoli del cristianesimo salvarono insieme la fede e i valori della civiltà classica. Oggi, nella tarda modernità, il Papa è volto a preservare dalla confusione relativista e dall’insensatezza nichilista i beni più preziosi: la fede e la ragione. Non solo la fede, ma anche la ragione, una ragione che si libera dalla paura di aprirsi al trascendente. Un logos che si fa dia-logos. Un seguire Cristo nelle cose del modo senza inginocchiarsi di fronte al mondo.