La sentenza di Strasburgo, ferita per la convivenza civile

ROMA, giovedì, 5 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, apparso su Il Sole 24 Ore (5 novembre 2009).

 

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Alcide De Gasperi, uomo di altissimo profilo morale e cristiano dalla profonda tensione spirituale, è stato anche un campione di rispetto per l’altro e di laicità civile, intesa come legittima autonomia dell’agire socio-politico da ogni indebita interferenza o manipolazione del sacro. Forse perciò mi colpì il racconto che sua figlia Maria Romana ebbe a farmi delle ultime ore del Padre: fissando il Crocifisso dal letto di morte, quell’uomo, umile e grande, circondato dai suoi affetti più cari, ripeteva continuamente una sola parola: “Gesù”. Mi chiedo che cosa “vedesse” De Gasperi morente in quel Condannato appeso alla Croce. Non faccio fatica a rispondere che vi leggeva concretizzato il messaggio evangelico nella sua forma pura: il perdono offerto a chi ci avesse ingiustamente colpito: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca 23,34); l’amore più grande, quello che spinge all’esodo da sé senza ritorno per il bene degli altri: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Giovanni 13,1); l’accoglienza spalancata al bisogno altrui: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23,43).

De Gasperi era troppo fine culturalmente e politicamente, troppo dotato di conoscenza della storia e degli uomini, per non ricordare le violenze commesse da alcuni imbrandendo contro altri la croce. Ma sapeva anche che gli errori e gli abusi commessi da questi, nulla potevano togliere alla forza di amore che si sprigiona da Gesù crocifisso: perciò, si rivolgeva a Lui, riassumendo nell’invocazione di quel nome benedetto, nello sguardo all’Abbandonato disteso sulla Croce, l’anelito più profondo del cuore, la sete di giustizia e di pace che aveva ispirato la sua vita, l’affidamento alla misericordia più grande sul “vallo estremo” della morte. Alcide De Gasperi è stato anche uno dei padri nobili dell’Europa unita: non solo il suo amore al Crocifisso non gli era stato di ostacolo in questo impegno, ma anzi lo straordinario apporto della tradizione ebraico-cristiana alla costruzione dell’identità europea era stato certamente per lui una sorgente ispirativa, uno stimolo all’impegno per la casa comune, ospitale per tutti. Anche per questo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo, che vede l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane come un “ostacolo alla libertà religiosa” e la proibisce, suscita stupore e perplessità.

Chi può sentirsi offeso dal Crocifisso? Non certo il cristiano che vi riconosce lo straordinario messaggio d’amore al quale si affida, pur con tutte le fatiche e le ambiguità della sua fede in cammino. Non il non credente pensoso, che sa come quel simbolo abbia un valore universale e spalanchi le braccia su tutti, per tutti, perché nessuno si senta escluso dal diritto alla vita e al rispetto della sua dignità. Non il credente di un’altra religione, che si sente piuttosto minacciato da questo ostracismo dei simboli della fede, che come oggi colpisce i cristiani, potrà domani colpire persone di un altro credo. La rimozione imposta del Crocifisso dalle aule ferisce invece tutti nelle radici più profonde della convivenza civile, perché attenta al rispetto della coscienza di tanti e alla libertà religiosa, intesa positivamente come diritto ad esprimere la propria fede con l’universo simbolico che le appartiene. La dignità della persona umana è stata definita come valore infinito proprio nel dibattito cristologico dei primi secoli dell’era cristiana; il principio solidarietà, che ne deriva, ha fatto la storia anche recente della liberazione degli oppressi e della cura per essi nel continente europeo; il valore della gratuità, come forza edificatrice della società a tutti i suoi livelli, ha trovato nel messaggio evangelico fonte e nutrimento. Non sarà certo un colpo di spugna a cancellare tutto questo: eppure, non è possibile non sentire in questa sentenza pronunciata in nome dei diritti dell’uomo una ferita inferta, una mancanza di sensibilità umana, culturale e spirituale.

L’universo dei simboli non si cancella impunemente, soprattutto quando essi rimandano alle sorgenti più profonde dell’identità dei singoli e dei popoli: chi pensasse di farlo in nome della “laicità”, dimostrerebbe invece soltanto un laicismo pregiudiziale, ideologico. Perché “laicità” significa etimologicamente ciò che fa riferimento al popolo (“laòs”), e – correttamente inteso – l’ispirarsi a questa idea vuol dire tutelare, servire e promuovere il bene comune, senza cedere a interessi di parte. In questo senso ha saputo essere laico e cristiano De Gasperi, e come lui altri grandi fondatori dell’Europa unita, da Adenauer a Schuman. Un’altra idea di laicità, pensata contro qualcuno o a servizio di una minoranza ideologica, non ci renderà migliori, rischierà anzi di ferire al cuore il processo difficile e lento della costruzione della casa comune europea. La non condivisione trasversale espressa da parte della classe politica del nostro Paese alla sentenza – fatte salve pochissime eccezioni, non esenti da pregiudizi ideologici – è un segno importante: almeno questa volta, la voce di chi è delegato dal voto a rappresentare la coscienza comune ha dato un segnale credibile e significativo per tutti.

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ZENIT Staff

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