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Una coincidenza, pochi l’hanno notata. Il 3 novembre la Corte europea di Strasburgo, accogliendo la richiesta di una coppia veneto-finlandese, ha deciso di dichiarare contraria al diritto alla libertà religiosa l’affissione nelle aule delle scuole italiane del crocifisso. Contemporaneamente a Parigi se n’è andato, alla veneranda età di 101 anni, Claude Lévi-Strauss, l’antropologo per eccellenza, il fondatore dello strutturalismo e il paladino di una cultura radicalmente illuministica.
Curioso: nello stesso giorno muore l’uomo che più di ogni altro ha studiato i simboli, demitizzandoli e relativizzandoli, e nel contempo una delle istituzioni più rappresentative del convivere europeo stabilisce che il simbolo cristiano per eccellenza, il crocifisso, deve essere demitizzato e relativizzato per legge. Le polemiche, ovviamente, vanno per la maggiore, anche se, a parte qualche posizione estrema, in Italia si riscontra un certo consenso nello stigmatizzare la decisione di Strasburgo.
Va sottolineato come la più citata argomentazione contro la decisione di Strasburgo sia semplice: il crocifisso non sarebbe solo un simbolo religioso, ma anche un simbolo culturale. C’è chi si spinge più in là, coscientemente o meno, dicendo che la croce è “semplicemente” un simbolo culturale. Ora, se fosse così, in fondo avrebbe ragione Lévi-Strauss: il crocifisso sarebbe un simbolo culturale, nient’altro che culturale, e quindi relativizzabile, come tutti gli altri simboli della stessa natura.
Ma attenzione: a furia di cancellare i simboli di una cultura, si finirebbe col cancellare anche la cultura che li ha prodotti. E questo è un male, un attentato alla vita civile di un luogo e di un popolo. Non bisogna togliere i simboli, culturali o religiosi che siano, ma semmai aumentarli! La diversità è infatti una ricchezza per una società laica e democratica: essere “laici” e “democratici” a nostro parere non significa appiattire la società e togliere alle persone ogni loro simbologia (ogni simbolo ha dietro di sé uno o più valori!), quanto garantire una convivenza e una integrazione pacifica e arricchente delle diversità, rispettando la storia e la tradizione dei popoli: non si può negare che il crocifisso “abbia fatto” e “faccia” le nostre società europee.
Detto questo, se guardiamo le cose da un altro punto di vista, bisogna costatare come i simboli religiosi, e cristiani in particolare, abbiano una “qualità” supplementare, che ci interpella non poco: anche se li si cancellano esteriormente, restano presentissimi nella vita dei cristiani, «crocifissi che parlano e camminano», diceva Thomas Merton. Lo testimoniano i cristiani di Nagasaki, che per secoli hanno continuato a professare la loro fede nelle montagne, pur senza nessuna manifestazione pubblica. Lo testimoniano le babuske russe che sotto il comunismo hanno perpetuato la fede cristiana pur in mezzo alla trasformazione delle chiese in magazzini per il grano. Lo testimoniano i cristiani come Bonhoeffer che, sotto il nazismo, hanno saputo rendere pregnante la loro fede. Il fatto è che il problema “culturale” nel fondo nasconde il problema della (scarsa) testimonianza dei cristiani europei: «C’è bisogno di crocifissi vivi», come diceva Madre Teresa di Calcutta, non di «crocifissi anneriti in fondo ad un armadio», come scriveva Margherite Yourcenar.
p.s. Ci scrive stamani con arguzia e con ragione un nostro lettore, Ciro Rossi: «Mi domando se la signora di origini finlandesi che ha chiesto la rimozione del crocifisso da una scuola italiana abbia chiesto al governo del suo Paese di togliere il simbolo della croce dalla bandiera nazionale».