di Pierpaolo Donati*
ROMA, martedì, 21 luglio 2009 (ZENIT.org).- Dell’Enciclica Caritas in Veritate sono già state dette e scritte molte cose. Giustamente ci si è concentrati sul suo messaggio centrale, e cioè che la carità vissuta nella verità “è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (n. 1). Il richiamo del Papa a ritrovare il senso più profondo dell’agire umano nell’amore autentico verso Dio (che è Verità) e verso gli altri uomini è certamente il cuore dell’enciclica. Indubbiamente, è la stella polare che orienta sia l’analisi dei grandi problemi economici, sociali e politici del mondo contemporaneo, sia delle loro possibili soluzioni.
In questo breve intervento io vorrei sottolineare un aspetto dell’enciclica che non è stato ancora approfondito. Alludo al nuovo ‘modo di pensare’ che Papa Ratzinger propone in questo testo. Si tratta di un modo di pensare che è centrato sulla relazionalità come categoria centrale per leggere la condizione umana e le vie da percorrere per un autentico sviluppo integrale della persona e dell’umanità (“Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”, n. 53).
Papa Ratzinger vede nella carità “la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” con la seguente giustificazione: perché “essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2). Sin dall’inizio, appare chiaro che la chiave di volta dell’enciclica viene collocata nella qualità delle relazioni, micro e macro, passando per le relazioni meso (quelle proprie delle formazioni sociali intermedie di società civile, di cui si parla diffusamente nei capitoli 3,4,5).
Alla base di questa impostazione c’è l’idea che, ferma restando la verità perenne secondo cui la dignità umana consiste nella filiazione divina, è altrettanto vero che oggi cambia il senso (storico, culturale, contestuale) di ciò che è umano. Lo scenario ci pone davanti a un complesso di degradazioni di ogni genere, specie nel campo della manipolazione della vita umana e della famiglia, così come a tante emergenze, da quella educativa, alla disoccupazione, alla negazione di fondamentali diritti umani in tante parti del globo. Non si può affrontare questo nuovo scenario senza un’adeguata antropologia (“La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”, n. 75) e senza che tale antropologia sia capace di proiettarsi poi sull’intera società, cioè su tutti i rapporti sociali in cui è in gioco la vita umana.
La via che Benedetto XVI propone può essere, a mio avviso, chiamata ‘relazionale’ a motivo del fatto che è nella categoria della relazione che va cercata la soluzione. “La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione tra le persone” (n. 53). E poco più oltre: “La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale” (n. 55).
Ecco dunque il filo rosso dell’enciclica: leggere l’umano attraverso la relazionalità e di qui procedere a svolgere un’analisi adeguata al nostro tempo delle varie questioni che ci attanagliano. La qualità delle relazioni sociali si qualifica per ciò che le persone amano di più, per le premure ‘ultime’ che le persone esprimono nelle loro relazioni. L’amore è dono di Dio, ma anche premura fondamentale delle persone umane. La sua presenza o la sua assenza spiega i problemi di cui soffriamo e dischiude le loro possibili soluzioni. Ma l’amore non è un bel sentimento, bensì è una certa relazione con se stessi, con gli altri e con Dio. L’enciclica insiste proprio sul fatto che la carità non può essere intesa come un generico sentimento, affetto o emozione. La carità di cui si parla, proprio perché è relazione, non può essere un fatto ‘privato’ (privato di responsabilità sociale). È invece la sorgente di ogni bene, in quanto bene relazionale. Per questa ragione, l’amore può e deve diventare un principio di organizzazione sociale (la civiltà dell’amore). “Il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società” (n. 51). Occorre che gli uomini tessano “delle reti di carità” (n. 5). “La ‘città dell’uomo’ non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l’amore di Dio” (n. 6).
Di qui, poi, le conseguenze operative. In sintesi: l’idea che le relazioni in cui la carità si concretizza, come il dono e la fraternità, possano e debbano diventare, da realtà marginali ed emarginate nella società moderna, dei principi che hanno un posto di primo piano nelle cose più pratiche, per esempio nel modo di organizzare e gestire le imprese economiche, un’associazione di consumatori, un sindacato, una rete di servizi sociali, lo Stato sociale, le relazioni fra i popoli, e così via. Fino a sostenere l’articolazione della società, del ‘fare società’ (associazioni in senso lato), su una governance di tipo societario e plurale, che realizza il bene comune attraverso una combinazione di solidarietà e sussidiarietà fra tutte le parti. Ciò vale dall’organizzazione di una famiglia su su fino alle relazioni internazionali.
Ma cosa può spingere gli uomini su questa via, stante l’attuale processo di globalizzazione guidato da un capitalismo rampante, da un individualismo sempre più pervasivo, da evidenti fenomeni di scollamento e frammentazione del tessuto sociale?
È qui che entra in gioco la verità, senza cui la carità sarebbe ridotta solo a emozioni: “senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività” (n. 4); e ancora: “la verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali” (n. 3).
Qui si rivela di nuovo l’importanza della chiave relazionale come ‘novità’ dell’enciclica. Infatti, lo specifico dell’enciclica, al di là dei temi ben noti (appello allo sviluppo umano integrale, alla lotta contro le vecchie e nuove povertà, ecc.), sta nell’evidenziare il mutuo interscambio tra carità e verità che si configura come un pensarli ‘relazionalmente’. È da tale relazionalità che possono scaturire i progetti di un nuovo umanesimo aperto alla trascendenza. Non c’è verità senza carità e non c’è carità senza verità. La verità ha bisogno della carità, così come la carità ha bisogno della verità. Questo nesso inscindibile è la relazione che caratterizza l’umano. In essa trovano le loro radici tutte le qualità che possiamo caratterizzare come autenticamente umane, le quali sono indispensabile per avere una ‘società dell’umano’, cioè un’economia, una politica, una tecnologia, una bioetica dal volto umano.
Il nesso relazionale tra amore e verità è sempre necessario, ma le sue forme e i suoi contenuti sono sempre contingenti a motivo della particolarità dei contesti, nello spazio e nel tempo. La portata di questa prospett
iva è lo sviluppo di “un nuovo pensiero” (n. 78) che risponde al grido lanciato da Paolo VI: “il mondo soffre per mancanza di pensiero” (n. 53). La Caritas in Veritate ci invita ad abbracciare un nuovo pensiero additandoci una strada precisa, che sgorga da una visione teologica, ma è capace di dialogare e fecondare tutte le scienze umane e sociali.
La Chiesa non pretende di dare delle ricette, ma addita un nuovo modo di pensare che ha nella relazionalità, radicata nella realtà insieme trascendente e immanente della Trinità, la sua fonte. Questa prospettiva, dopo le prime pagine a carattere teologico, è particolarmente espressa come dialogo con le scienze umane e sociali nei nn. 53-55, e dà sostanza a tutte le altre considerazioni più ‘pratiche’ in merito alla configurazione delle relazioni economiche (una nuova economia civile), delle relazioni politiche (un nuovo welfare plurale, sussidiario, relazionale), delle relazioni famigliari e di cura della vita (una nuova bioetica relazionale), e così via.
Il messaggio più profondo dell’enciclica, a me pare, sta dunque nello scommettere su una nuova interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, su un pensiero relazionale che sia all’altezza delle nuove interdipendenze che si vengono a creare tra gli uomini e tra i popoli. Lo sviluppo umano sarà l’effetto emergente di questa nuova visione dello stare in società e delle pratiche che ne conseguono. Per esempio, la procreazione artificiale non potrà essere più pensata e praticata come espressione di un desiderio o di un sentimento privato (emozionale) di uno o due individui, perché ciò che conta è la dignità della relazione da cui nasce il figlio, dignità da cui dipende l’humanum nell’identità del figlio stesso. L’appello di Benedetto XVI “alla reciprocità delle coscienze e delle libertà” è un appello a ripensare la nostra vita in questa direzione, cioè come relazione in ciò che essa ha di umano. Da questo modo di pensare può scaturire una nuova società.
Nell’orizzonte di questa prospettiva il bene comune viene ripensato come bene relazionale, il quale può essere realizzato solo attraverso un uso appropriato e combinato dei principi di solidarietà e sussidiarietà, sulla base di una antropologia relazionale e di una visione relazionale dell’intera società, a partire dalla famiglia.
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*Pierpaolo Donati è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, dove è anche coordinatore del Dottorato di ricerca in Sociologia e direttore del CEPOSS (Centro Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Past-President dell’Associazione Italiana di Sociologia, ha fondato il CIRS (Centro Interuniversitario per la ricerca sociale, una rete di reti accademiche di ricerca empirica). Dal 1997 è membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali.