di Flavio Felice*
ROMA, sabato, 18 luglio 2009 (ZENIT.org).- La Caritas in veritate non vuole essere un trattato di economia, bensì un documento teologico-pastorale le cui argomentazioni si situano nel punto di congiunzione tra le scienze sociali e l’antropologia cristiana che le giudica e le raccorda. Nella lettura del documento, avvincente e complessa, abbiamo ritenuto opportuno limitarci all’analisi del concetto di mercato, consapevoli della parzialità della scelta e della limitatezza della riflessione.
Il paragrafo 34 dell’enciclica di Benedetto si apre con una dichiarazione il cui valore politico è sin troppo evidente, si consideri l’antiperfettismo di alcuni passi del The Federalist e i presupposti di alcuni padri del costituzionalismo moderno di marca anglosassone: “Talvolta, l’uomo moderno, è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. E’ questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini”. Si tratta di una tale cristallina visione dell’uomo che agisce nella società, ben presente nella storia del pensiero cattolico, si pensi all’antiperfettismo di Sturzo, che consente al Magistero sociale di Benedetto di giudicare come parziali e talvolta infernali le diverse derive materialistiche del XIX secolo: “La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale”. E, d’altra parte: “La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare ‘influenze’ di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo”.
La riflessione socio-economica della Caritas in veritate non si discosta dall’insegnamento del suo immediato predecessore. I cardini sui quali poggia sono pur sempre il principio di solidarietà e di sussidiarietà. È stato merito di Giovanni Paolo II, ed è un tratto caratteristico del Magistero di Benedetto XVI, sin dalla Deus caritas est, aver mostrato la complementarietà dei due principi, evidenziando l’impossibilità di concepire la sussidiarietà a prescindere da una comprensione altrettanto consistente della solidarietà, dunque, della giustizia sociale.
La “soluzione personalista-relazionale”, ad esempio, proposta da Benedetto XVI sin dal Messaggio per la Pace del 2009, in pratica, incontra il principio di solidarietà sul terreno del principio di sussidiarietà: il tema dell’esercizio della giustizia commutativa non è disgiunto, bensì assume significato autentico nella pratica della virtù della giustizia distributiva. È questo il tema trattato da Benedetto XVI nel paragrafo 35 in merito alla complementarietà del mercato rispetto ad altre dimensioni della alla vita sociale. In primo luogo, scrive Benedetto, “Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici”. Il mercato ci viene presentato come la più alta forma di collaborazione tra persone che non condividono necessariamente gli stessi fini. Il mercato si fonda sul principio contrattualistico della “reciprocità”, esso ovviamente non è il dono e neppure la rapina; sappiamo bene che la vita degli uomini non si risolve nel mercato, ma relegare il mercato tra le relazioni utilitaristiche, oltre ad essere un errore logico e storico, appare sempre più un errore pratico e, alla lunga, potrebbe risolversi in un errore politico. La catallassi, il mercato, è la tipologia sociale propria degli uomini liberi che consapevolmente cum-petono per ottenere il miglior risultato possibile, in ordine all’allocazione di beni scarsi e disponibili; ciò che non è scarso e non è disponibile evidentemente non entra e non deve entrare nella logica di mercato.
È in questo contesto che Benedetto XVI pone l’accento sull’importanza della giustizia distributiva per l’esistenza della stessa economia di mercato, in quanto in grado di offrire i fattori extracontrattuali necessari affinché un contratto possa essere stipulato e al minor costo possibile: “Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare”. E continua: “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave”. È in questa atmosfera concettuale, oltre che pastorale, che emerge un’affermazione di grande valore propositivo: “Non si tratta solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza. I poveri non sono da considerare un ‘fardello’, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico”. In queste parole sono presenti tutti i temi affrontati da Giovanni Paolo II in Sollicitudo rei socialis (1987) e in Centesimus annus (1991). Argomenti che spinsero alcuni commentatori dell’epoca a parlare di barefoot capitalism, un capitalismo a piedi scalzi che ricorda le analisi dell’economista peruviano Hernando De Soto, ma anche quella decisamente più vicina a noi di “capitalismo popolare” di Luigi Sturzo.
Per questa ragione, il tema dell’integralità e dell’indivisibilità della libertà e con essa dello sviluppo umano è espresso da Benedetto XVI nella teorizzazione dell’impossibilità del mercato di auto fondarsi. È una questione particolarmente spigolosa che vede spesso in disaccordo anche coloro che sul significato “positivo e fondamentale del mercato” generalmente concordano. Il mercato per Benedetto XVI vive e prospera in forza delle virtù come l’onestà, la fiducia, la simpatia, ma non è in grado necessariamente di crearle da solo; e, qualora dovesse promuoverle, lo fa solo nella misura in cui i soggetti che vi operano scelgono di vivere secondo virtù e, così facendo, per usare un argomento tipicamente smithiano, anche inintenzionalmente finiscono per lubrificare i meccanismi del corpo sociale. Scrive Benedetto XVI: “È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle”.
La prospettiva di Benedetto XVI è sì un nuovo ordine mondiale, così come all’indomani della seconda guerra mondiale lo fu per i padri dell’“ordoliberalismo” alla Eucken, alla Böhm, alla Grossman-Dörth, alla Rüstov, alla Röpke, alla Müller-Armack, solo per citare alcuni tra gli intellettuali tedeschi che ricostruirono la Germania e posero le basi culturali ed istituzionali dell’Unione Europea. Si trattava, e nella riflessione di Benedetto XVI si tratta, ad ogni modo, di un’idea di ordine economico e di ordinamento politico mondiale anch’essi ispirati al principio di sussidiarietà orizzontale e verticale, se non si vuole cadere nella trappola hobbesiana, di un Leviathan globale le cui prerogative sovrane non appaiano più circoscritte neppure dalle pur deboli barriere nazionali.
In definitiva, Benedetto XVI sembrerebbe rinviare al significato “ordolibelarale” di ordine e di ordinamento; “ordine” e “ordinamento” appaiono una variabile determinante per la definizione e l’appr
ezzamento di un dato mercato. È, in breve, l’idea che i succitati autori avevano dell’economia sociale di mercato (senza confonderla con ibridi nostrani o renani). Fuori da ogni logica dogmatica: statalista-dirigista o anarco-libertaria che sia, Benedetto XVI sembra ripeterci che non esiste il “mercato nudo e crudo”; per intenderci, è sterile soffermarsi sugli “stili economici”, così come denunciati da Eucken nei suoi Fondamenti dell’economia politica (1939). Il mercato è un sistema relazionale, la cui cifra “civile” è data dalla capacità dei regolatori di individuare con metodo cooperativo (partecipativo-democratico) le procedure che consentano agli operatori del mercato la condivisione delle medesime regole (n. 24). Per il rispetto di tali regole è necessario, sebbene nella logica antropologica espressa dalla DSC non ancora sufficiente, predisporre per via sussidiaria un sistema di istituzioni nazionali e sovranazionali che ne salvaguardi la certezza e la trasparenza operativa, avendo a cuore l’ampliamento dei margini di libertà integrale degli operatori, presupposto indispensabile per ogni forma di sviluppo.
In definitiva, la critica di Benedetto ai sistemi economici non si comprende al di fuori del dato antropologico di partenza (n. 25), e dell’implicito rifiuto dell’assunto secondo il quale è necessario liberare l’uomo dall’idea di Dio perché l’uomo possa essere libero. Quello antropologico è il vero problema della filosofia cristiana contemporanea e anche della Dottrina Sociale, anche se troppi interpreti lo sottovalutano, riducendo così gli insegnamenti della Chiesa a mere visioni sociologiche ad uso di particolari visioni politiche, non di rado estranee alle intenzioni magisteriali. Scrive Benedetto: “Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginale” (n. 4).
Appare con chiarezza che oggetto della critica al paradigma economico dominante non siano la proprietà privata, il mercato o il perseguimento del profitto, che Benedetto XVI, in sintonia con il suo predecessore invece ha saputo analizzare ed anche ridefinire, quanto il riduzionismo materialistico. Le attività economiche, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizzano mai in uno vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. Quando un sistema sociale nega il valore trascendente della persona umana (in ambito politico, economico e culturale) si rivela da se stesso come disumano, e merita di essere criticato: “non può ‘avere solide basi una società che […] si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata’” (n. 15). In questa prospettiva, una sana economia di mercato è sempre limitata da un ordine giuridico che la regola e da istituzioni morali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi, che interagiscono con essa e la influenzano, essendone esse stesse influenzate.
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Il prof. Flavio Felice è Presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton