di padre Pietro Messa*
ROMA, giovedì, 28 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il primo Monte di Pietà è sorto a Perugia nel 1462 per ispirazione di frate Michele Carcano, ma colui che divenne il rappresentante più eccellente dei frati osservanti diffusori di tale istituzione fu certamente fra Bernardino da Feltre che dal 1468, quando fondò a Mantova il suo primo Monte, fino alla morte nel 1494 non fece altro che incentivare la loro nascita mettendo in pratica le teorie economiche elaborate da Pietro di Giovanni Olivi e diffuse da Bernardino da Siena.
Gli interlocutori dei Monti di Pietà, come è stato affermato, erano “i poveri meno poveri”, ossia coloro che almeno possedevano qualche bene da poter dare in pegno, in cambio di danaro. Quindi si compiva una scelta diversa dalle tante istituzioni di beneficenza per i più poveri che avevano caratterizzato i secoli precedenti e che hanno continuato a vivere anche in seguito. Ne consegue che si prende in considerazione la possibilità degli interessi, ossia la legittimità di praticare un tasso sui prestiti erogati: ciò significa riconoscere i giusti diritti sul denaro, spettanti a coloro che lo prestano, da non confondersi con l’usura, consistente nella vendita di denaro per altro denaro. Sarà il papa Leone X, il 4 maggio 1515, a emanare la bolla Inter multiplices con cui si riconobbe la liceità di riscuotere un interesse da parte dei Monti in modo da poter «almeno in parte pagare le spese».
Potremmo, in questo senso, definire quella dei Monti di Pietà una forma di carità che va oltre il puro assistenzialismo, aiutando il bisognoso a diventare protagonista egli stesso del suo riscatto dall’indigenza. Questa attività salvifica viene raffigurata mediante l’Imago pietatis – detta anche Uomo dei dolori – che diventerà un vero e proprio logo dei Monti di Pietà; in essa vi è raffigurato Cristo nudo e “passionato”, a braccia aperte nel gesto di richiesta di pietà e aiuto, o sovrapposte tenute verso il basso o verso l’alto, per metà del corpo emergente dal sepolcro. Normalmente è raffigurato da solo, mentre in alcuni casi è sorretto da Nicodemo, oppure consolato da Maria e san Giovanni apostolo, o da angeli.
La nascita dei Monti di Pietà si intreccia con la storia degli ebrei nel Medioevo: infatti dai banchi ebraici prendevano ispirazione e la loro diffusione andava di pari passo con una predicazione antigiudaica e ciò non per motivi razziali, ma economici. Infatti il retroterra ideale dei Monti di pietà era che i beni dovevano essere destinati alla pubblica utilità, ossia al bene della comunità tanto che il mercante è riconosciuto come il garante della felicità pubblica, in quanto capace di coordinare i rapporti tra produttori, consumatori e i diversi professionisti. Come protagonista della vita sociale, il mercante è considerato come il buon amministratore della famiglia e proprio per questo non ci deve essere separazione tra vita privata e quella pubblica, cioè tra vita economica e vita politica. Ciò che dice della moralità o meno di un mercante è l’uso che egli fa del denaro, ossia se quest’ultimo diventa capitale da investire per il bene comune, oppure rimane oggetto di un’appropriazione egoistica. Le conseguenze della riflessione francescana sono chiare: infatti, se il mercante deve essere colui che gode di buona fama, in quanto attento al bene comune ed alla felicità pubblica, diventa indispensabile fornire alcuni criteri per riconoscerlo, o meglio, per riconoscere chi non lo sia in modo autentico. Dato lo stretto legame tra attività commerciale ed attenzione alla comunità, ne consegue il fatto che non ci si possa fidare di coloro che vivono non pienamente integrati nella vita civica, come avviene nel caso di ebrei ed eretici. Le loro attività sono giudicate dai francescani come la negazione dell’economia solidale e mercantile che deve, al contrario, caratterizzare il vero mercante. Ciò introduce un elemento di conflittualità tra economia cristiana e non, in quanto condotta da persone ritenute responsabili di bloccare la crescita del mercato, quali ebrei, donne che si occupano di ornamenti inutili, speculatori e oziosi. Ormai non sono più i singoli contratti a dire della moralità o meno di una condotta economica, ma le intenzioni che gli uomini d’affari dimostrano di avere nel loro operare. I mercanti sono divisi tra fedeli e infedeli e ciò diventa il presupposto ideologico della fondazione dei Monti di Pietà che verranno ad esprimere un progetto economico di sviluppo favorito dalle stesse autorità pubbliche.
3. Innanzitutto il bene comune
Coloro che sono dediti all’economia devono essere uomini di fede, come mostrano le prediche di Bernardino da Siena, innanzitutto nella loro famiglia per poi esserlo nel mercato, a beneficio di tutta la città. Le ricchezze non devono essere accantonate improduttivamente, ma fatte circolare in modo produttivo. Persino la restituzione di ciò che è stato tolto ingiustamente va differita se essa va a scapito del bene di tutta la comunità, così come il fallimento di un commerciante incapace è da favorirsi se significa uscire da una situazione di improduttività. In questa maniera si spiega anche la predicazione contraria ai monili femminili che sottraggono ricchezza destinata all’utilità della comunità cristiana. Proprio quest’ultima è il fine ultimo della vita economica; pertanto quella predicata dagli osservanti è un’economia che contrappone coloro che appartengono alla comunità cristiana a chi non vi appartiene. Pertanto l’avversione agli ebrei viene così ad essere determinata non da motivi “razziali”, ma economici. Al tempo della Riforma i francescani compaiono ormai raramente nell’ambito del dibattito economico, tuttavia, le loro idee avevano ormai significativamente contribuito a formare le categorie di un pensare economico, grazie al loro modo evangelico di usare il mondo che condanna qualsiasi tesaurizzazione improduttiva, mentre esalta i legami di reciprocità e solidarietà. Proprio la difficile scelta francescana della povertà, secondo Todeschini, «aveva potuto catalizzare e razionalizzare le tensioni di un mondo in trasformazione». La comunità, il bene comune devono essere il fine delle attività economiche e proprio a partire da queste categorie sviluppate dal francescanesimo sarà facile giungere ad attribuire allo stato il compito di regolare il rapporto tra privato e pubblico. Distanziandosi dal pensiero di Max Weber, sempre Todeschini afferma che «in questa prospettiva, le posizioni etico-economiche di Giovanni Calvino ci appaiono radicate in un terreno assai più antico di quello costituito dalla Riforma», ossia nel pensiero francescano. Tuttavia, Todeschini conclude affermando che proprio ciò che fu elaborato dai francescani in merito al profitto ed al mercato, se da una parte condusse ad un incivilimento e ad uno sviluppo della socialità nel vivere economico, dall’altra comportò il formarsi di un grosso gruppo di esclusi dalla felicità pubblica costituito proprio da infedeli, infami, incivili e poveri. Di conseguenza tutti coloro che erano stati esclusi o si autoescludevano dalla società, come nel caso di eretici ed ebrei, costoro erano nemici della comunità; è per questo motivo che nell’organizzazione economica della società predicata dall’Osservanza era compresa anche la predicazione antigiudaica.
Possiamo dire che il pensiero francescano inerente l’economia, rappresenti la risposta a quanto chiedeva il cardinal Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano e futuro Paolo VI, nel discorso pronunciato ad Assisi il 4 ottobre 1958: «È possibile, Francesco, maneggiare i beni di questo mondo, senza restarne prigionieri e vittime? È possibile conciliare la nostra ansia di vita economica, senza perdere la vita dello spirito e l’amore? È possibile una qualche amicizia fra Madonna Economia e Madonna Povertà? O siamo inesorabilmente condannati, in forza della terribile parola di Cristo: “È più facile che un cammello passi per la cruna
d’un ago che un ricco entri nel regno dei cieli?” (Mt 19,24)… Così insegnaci, così aiutaci, Francesco, a essere poveri, cioè liberi, staccati e signori, nella ricerca e nell’uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci, perché restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani». Tenendo conto che in un clima di globalizzazione come l’attuale con bene comune non deve intendersi soltanto quello della società cristiana, ma di tutta la comunità umana, tutto ciò si presta ad ulteriori approfondimenti, in una linea di pensiero che potremmo definirla come una spiritualità economica francescana.