* * *
Mi corre l’obbligo, prima di iniziare, di chiarire subito la prospettiva della riflessione seguente, del mio contributo. Ne risulteranno al contempo i limiti e – lo spero – i pregi. Come pastore della Chiesa sono stato chiamato a prendermi cura dell’uomo in quanto dotato di una dignità incomparabile. Prendersi cura dell’uomo sarebbe un’astrazione se non significasse prendersi cura delle sue fondamentali esperienze: i suoi affetti, il lavoro, la sofferenza [in particolare la malattia], la cittadinanza. E dunque dirò qualcosa dal punto di vista dell’uomo in quanto uomo che lavora [Laborem exercens homo: inizia la prima delle tre encicliche sociali di Giovanni Paolo II; cfr. EE 8/206]. Che cosa significa “dal punto di vista dell’uomo…”? La risposta costituisce il presupposto a tutto quanto andrò dicendo.
1. Ebbi già l’occasione di dire che il fondamentale valore del lavoro umano è di natura etica non economica [cfr. Omelia 1 maggio ]. Ritengo che questa affermazione riassuma tutto il Magistero della Chiesa circa il lavoro. Cerco di esplicitarne alcuni contenuti essenziali. È la persona umana il soggetto del lavoro. Nel lavoro cioè e mediante il lavoro cerca la realizzazione di se stessa, il compimento della sua vocazione professionale, la costituzione dei rapporti sociali, la promozione del bene comune. Potremmo dire: mediante il lavoro si costituisce la cultura, intesa come modo propriamente umano di abitare il mondo.
Qualificare il lavoro secondo la primaria misura etica significa che, alla fine, ogni lavoro ha come suo scopo la persona che lavora, non concepita astrattamente come individuo, ma all’interno delle sue relazioni originarie, in primo luogo la famiglia.Partendo da questo presupposto, dobbiamo avere un atteggiamento fortemente critico nei confronti di “una specifica cultura secolarizzata-strumentale del lavoro e una parallela struttura sociale che valorizza solo gli aspetti utilitaristici del lavoro” [Pierpaolo Donati]. Cultura, per altro, e struttura sociale che sono già entrate in crisi. È precisamente alla luce di queste riflessioni che hanno per me carattere di premesse, che si pone urgentemente la domanda sull’educazione al lavoro.
2. Chi si pone questa domanda, ed in ogni società pensosa del suo futuro questa domanda deve porsi, non può non chiedersi: educazione a quale lavoro? per essere più precisi: a quale idea, a quale visione del lavoro?
Credo purtroppo di non sbagliarmi nel dire che la cultura di oggi non sa più rispondere a questa domanda; anzi la ritiene priva di senso. Per una serie di ragioni, alcune delle quali mi limito solo ad enunciare.
– L’incapacità di rispondere è uno dei segni più tragici della generale incapacità [o abdicazione?] della nostra generazione di adulti di educare le giovani generazioni. Ma l’incapacità di educare al lavoro è un fatto gravissimo perché significa che non siamo più capaci di aprire un futuro alle giovani generazioni.
– L’incapacità di rispondere è dovuta al pensare comune che “tutto si è liquefatto”. Il collasso delle identità nella contrarietà o nella diversità [dando a queste parole senso ontologico] dentro alla generale indifferenza e neutralità di ogni cosa impedisce una seria educazione.
– L’incapacità di uscire da una concezione esclusivamente mercantilistica della relazione di lavoro. Conosciamo bene questa concezione. La sintetizzo colle parole di Pierpaolo Donati: «Il concetto di mercato del lavoro è utilizzato di norma per indicare l’insieme dei meccanismi che regolano l’incontro tra i posti di lavoro disponibili e le persone in cerca di occupazione. In questo modo il lavoro viene trattato in maniera sostanzialmente analoga a qualsiasi altra merce».
3. Come uscire allora da questo vicolo cieco educativo? Dato il tempo a disposizione, mi limito ad esporre l’essenziale della risposta che ritengo vera. In linea generale, educare al lavoro significa non solo e non principalmente trasmettere abilità e competenze in ordine ad avere un buon prodotto. Significa anche e soprattutto aiutare il giovane a prendere coscienza della professione come dimensione costitutiva della sua vocazione umana e quindi aiutare il giovane a sviluppare le sue qualità etiche. Potremmo dire più brevemente: formare il giovane in scienza e coscienza. Oppure, e meglio: educarlo a personalizzare il lavoro.
Che cosa significa questo per un concreto progetto educativo?
– Far ricuperare il senso del lavoro. Esso è uno dei luoghi, dei momenti fondamentali della costruzione della propria vita,e non solamente una triste necessità da cui non si può evadere. Bisogna riconoscere che le comunità cristiane hanno spesso mantenuto un grande silenzio in merito a questo. Eppure due grandi carismatici, del secolo XX, uno già canonizzato, hanno fatto, sia pure con sensibilità molto diverse, del tema del lavoro un momento essenziale della loro proposta educativa. Parlo di S. Josè Maria Escriva e don Giussani. Questi scrisse: «La cosa più nobile che fa l’uomo è lavorare, è il lavoro. Ma perché la cosa più nobile è il lavoro? È la cosa più nobile in quanto è più adeguata al destino che ha l’io. La conoscenza dell’io è la grande cosa; è il sentimento dell’io la grande cosa! Allora a uno gli si illumina anche cosa sia il lavoro e ne gode» [in Una presenza che cambia
Parlavo della misura etica del lavoro. È la ripresa di questo “midollo” della dottrina cristiana del lavoro, che ci deve stimolare tutti quanti alla ricerca di un nuovo paradigma pedagogico del lavoro.
– È necessario studiare forme di collaborazione più intensa fra scuole ed imprese.
L’esperienza fatta dal Liceo Malpigli colla Ducati mi sembra paradigmatica.Da questa collaborazione ne beneficerebbero imprese e scuole. Non parlo solo delle scuole professionali. Le imprese. Esse hanno bisogno di avere a disposizione luoghi dove poter fiduciosamente cercare e trovare risorse professionali ed umane disponibili. Le scuole. Esse, gli insegnanti concretamente, hanno bisogno di essere stimolati da imput professionali per l’educazione dei giovani. Misure come stages, visite nelle aziende, borse di studio estive vanno incoraggiate, purché nel contesto di quella personalizzazione del lavoro di cui parlavo.
Concludo con due riflessioni che mettono in risalto i due modi opposti di concepire il, e quindi di educare al lavoro. Recentemente mi è capitato di sentire equiparare lavoro e prostituzione: ambedue – diceva chi li equiparava – vendono il corpo umano per un salario. Ecco dove finisce coerentemente la logica utilitaristica del lavoro!
Un grande poeta polacco del XIX secolo, C.K. Norwia ha scritto: «Il bello è tale, per rendere affascinante il lavoro» [cito da K. Woitila, Metafisica della persona, Bompiani, Milano 2009, pag. 1454]. Il pensiero è profondo. Il tetto della basilica di S. Pietro poteva essere costruito come tutti i tetti, se si fosse pensato solo alla sua funzione: impedire che piovesse dentro la basilica. Sarebbe stato più facile e sarebbe costato meno. Michelangelo tuttavia volendo costruire una copertura, un tetto, si lasciò affascinare da un’idea: la cupola. Il suo lavoro non fu solo utile. Dal rapporto col bello divenne affascinante. È il rapporto con la verità, con la giustizia, il bene, il bello che rende il lavoro un atto della persona. Il lavoro irradia l’humanum nella sua specificità: solo l’uomo lavora.
È il significato profondo della grande intuizione cristiana nascosta nella «et» di Benedetto: ora et labora. È l’equilibrio
fra contemplazione ed azione. Abbiamo già lasciato alle spalle, credo, la concezione meramente utilitaristica; non siamo più radicati nella grande tradizione cristiana. E non sappiamo più rispondere alla domanda di educazione al lavoro: ma questa è una delle dimensioni essenziali della grande sfida educativa.