di Mirko Testa

ROMA, venerdì, 27 marzo 2009 (ZENIT.org) - La questione delle libertà religiose che tocca le comunità cristiane presenti nei paesi a maggioranza musulmana si scontra contro il problema di “una Sharî‘a sacralizzata che viene considerata come colonna portante dell’identità collettiva”.

E' quanto ha detto a Roma, il 26 marzo, in occasione del Convegno di Studi "Libertà religiosa e reciprocità", organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce, padre Maurice Borrmans, professore emerito dell’Istituto Pontificio di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma, dove per più di trent'anni ha insegnato lingua araba, diritto islamico e spiritualità musulmana.

Padre Borrmans, sacerdote della Società dei Missionari d'Africa (Padri Bianchi), che ha vissuto per vent'anni in Algeria e Tunisia ed è stato consultore presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha detto che in materia di libertà religiose, pur nelle svariegate manifestazioni concrete, si nota spesso nei paesi musulmani un conflitto tra legislazioni di stampo islamico classico e leggi laicizzanti dei governi moderni.

“Gli Stati musulmani moderni aderiscono all’ideale dei Diritti dell’Uomo e, più o meno, a tutti gli strumenti giuridici che ne precisano l’applicazione settoriale”, ha osservato. Tuttavia, “essi hanno ereditato dalla loro storia un 'confessionalismo' che ha generato delle istituzioni e delle mentalità di cui le loro popolazioni e le loro legislazioni sono ancora più o meno dipendenti”.

“Questo perché – ha spiegato – gli Stati attualmente esistenti nel mondo musulmano sono quasi tutti nati nel corso del XX secolo su un modello occidentale, ma non senza conservare una 'visione islamica' dell’organizzazione della società globale”.

“La storia recente infatti, all’alba dei tempi moderni, ha visto questi paesi amministrati da nazioni occidentali (sotto forma di colonie, protettorati o mandati) prima di conoscere lotte di liberazione nazionale in cui l’Islam è intervenuto come 'motore' politico, culturale e religioso”, ha continuato.

In generale, ha detto, “l’islam è credo, culto e morale” e soprattutto “Legge positiva divina (Sharî‘a) che intende regolare tutta la vita individuale, familiare, economica, sociale e politica del musulmano, a nome di un Libro rivelato, il Corano, dove si trovano circa 200 versetti di tipo giuridico, e di una Sunna normativa, il modello profetico, dove i detti e gli atti di Muhammad, il profeta dell’islam, costituiscono la seconda fonte della Legge”.

Nel quadro della Sharî‘a il mondo viene visto come diviso tra una “dimora dell’islam” (dâr al-islâm), “dimora della pace e della giustizia”, ed una “dimora della guerra” (dâr al-harb), “dimora delle miscredenza e dell’ingiustizia”; “pur accettando che, tra le due, ci sia, temporaneamente, una 'dimora dell’armistizio' (dâr al-sulh) di una durata limitata nel tempo e unilateralmene denunciabile”, ha detto.

Da questo consegue “una confessionalizzazione della società”, così che i non musulmani, e cioè la Gente del Libro (Ahl al-Kitâb), cristiani o ebrei, possono ritagliare un proprio spazio all'interno del vissuto sociale.

Per esempio i cristiani del Medio Oriente - nella diversità delle loro confessioni e dei loro riti - riuniti, dal 1988, nell’unico Consiglio delle Chiese del Medio Oriente (con 4 Copresidenti), godono di una relativa autonomia giuridica (con legislazione cristiana propria della famiglia e, talvolta, del diritto di successione) e, a volte, di una autonomia giudiziaria (tribunali ecclesiastici le cui sentenze sono omologate dallo Stato).

Pur proclamando che “l’Islam è la religione dello Stato, tranne in Siria e Libano”, ha detto Padre Borrmans, “le costituzioni di questi paesi affermano che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza discriminazione di razza o di religione”.

“In quasi tutte queste nazioni – ha sottolineato –, si è sviluppata una collaborazione ampia e fiduciosa tra musulmani e cristiani nei campi dell’educazione e della cultura, dell’economia e delle opere sociali.

“I cristiani sono abbastanza ben rappresentati nei Parlamenti, ma spesso per loro è difficile, quando non è impossibile, accedere a posti di decisione politica o talvolta di insegnamento universitario”.

Se quindi “la libertà di culto viene rispettata ovunque” , i cristiani “provano tuttavia un sentimento di precarietà che genera un 'confessionalismo religioso' con vantaggi e svantaggi, e si pongono gravi interrogativi di fronte alle molteplici manifestazioni, a volte violente, di un fondamentalismo islamico radicale di cui soffrono anche molti dei loro concittadini musulmani”.

Il problema qui è che “tale Sharî‘a non è mai stata codificata in libro, capitoli ed articoli”: si tratta invece di un patrimonio giuridico-canonico di cui soltanto gli esperti in materia di Diritto musulmano (Fiqh) sono i perfetti conoscitori, pur rimanendo ognuno libero di farne una relativa interpretazione tramite il sistema della fatwâ (la decisione giuridica, il decreto sulla base del quale un giudice esprime una sentenza), che genera un “pluralismo sconcertante”.

In una intervista a ZENIT, padre Borrmans ha detto che “in quanto minoranza i cristiani devono vivere non tanto la reciprocità ma la gratuità. Perchè talvolta è la gratuità che genera una forma di emulazione nella generosità da parte dell'altro anche se lui appartiene a una maggioranza che talvolta rischia di essere oppressiva o almeno incapace di capire i diritti, le domande e i problemi delle minoranze”.

“D'altronde bisogna dire che essendo testimoni del Vangelo e sopratutto della persona di Gesù Cristo, questi cristiani sono chiamati a collaborare al bene comune e a vivere ciò che chiamerei la reciprocità dell'inter-conoscenza, la reciprocità dell'inter-rispetto, e la reciprocità dell'inter-educazione delle opinioni pubbliche nei loro propri paesi”.

Con uno sguardo al prossimo Sinodo dei Vescovi sull'Africa che si terrà l'ottobre prossimo, Borrmans ha detto che “al Sud del Sahara le Chiese locali sono consapevoli che bisogna di nuovo fare uno sforzo tremendo per superare le divisioni, i conflitti e, naturalmente, i malintesi”.

“Ora, se si vuole costruire una civiltà dell'amore nel continente africano tramite un 'dialogo tra le culture' - come aveva auspicato Giovanni Paolo II per la Giornata Mondiale della Pace del 2001 -, bisogna collaborare con tutte le persone di buona volontà, cioè i rappresentanti della religione tradizionale”.

“Inoltre – ha continuato – bisogna sopratutto tener conto dell'importanza relativa delle comunità musulmane in Africa e ad esempio, nei 5 paesi dell’Africa del Nord, i cristiani sono ospiti, permanenti o transitori, per vari motivi, il che spiega la precarietà delle loro situazioni locali, benché la situazione giuridica delle Chiese sia stata riconosciuta da strumenti di diritto che garantiscono loro la personalità giuridica e l’autonomia necessaria”.

Secondo padre Borrmans, “a costituire una speranza per un dialogo interculturale e un rispetto approfondito dei diritti delle comunità religiose cristiane, musulmane e non, sono i rapporti intereconomici, interpolitici su scala panafricana”.

[Intervista raccolta da Mercedes de la Torre]

Le paure del nostro tempo e la speranza cristiana (II)

ROMA, giovedì, 26 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda parte della conferenza tenuta il 5 marzo scorso, a Piacenza, nell’ambito di una riflessione sulle Settimane sociali, da mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân”.

La prima parte è stata pubblicata il 19 marzo scorso.