La “Fides et ratio” e la questione del “senso”

ROMA, sabato, 14 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata dal prof. Giuseppe D’Acunto, LC, in occasione del Congresso sull’Enciclica di Giovanni Paolo II “Fides et ratio”, nel 10º anniversario della pubblicazione, svoltosi a Roma il 5 e il 6 marzo presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA).

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La Fides et ratio inizia modulando l’antico topos – prima platonico (Theæt., 155 d), poi aristotelico (Metaph., I, 2) – della meraviglia quale origine del filosofare.

Le conoscenze fondamentali [dell’uomo] scaturiscono dalla meraviglia suscitata in lui dalla contemplazione del creato: […] dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo. […] Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi [1].

Ora, come, per Aristotele, chi si meraviglia è colui che versa in uno stato di dubbio per essersi imbattuto in una “difficoltà (atopia)”, e proprio dallo stupore riceve l’impulso per liberarsi dalla propria ignoranza (che è ignoranza di cause), così la Fides et ratio afferma che quel che alimenta il desiderio di conoscere – «sempre di più e sempre più a fondo» – è una «ragione carica di interrogativi» (FR 8-9). E ciò perché la verità «inizialmente si presenta all’uomo in forma interrogativa» (FR 38) [2]. La prima questione che si impone ad ognuno di noi è quella del senso: del senso da dare alla nostra esistenza.

Sono domande [quelle radicali] che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza (FR 4).

Inoltre, affermando che la verità è un «cammino» che è stato dato a noi, in Oriente come in Occidente, «entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale», per cui c’è un rapporto di proporzionalità diretta fra conoscenza della realtà e conoscenza di se stessi, si puntualizza che, proprio perciò, per l’uomo, «sempre più impellente [è] la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza» (FR 3).

Si aggiunga, infine, che il nostro vivere è costitutivamente fragile, ossia esposto al rischio permanente di apparirci come radicalmente svuotato di senso.

L’esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella del senso (FR 38).

E una delle domande radicali in cui si articola la questione, per noi inaggirabile, del “senso” è proprio quella che riguarda l’ineluttabilità della nostra morte, intesa come quel «fatto» che, sempre di nuovo, ci mette davanti agli occhi il problema del «senso della vita e dell’immortalità». Di fronte a tali «interrogativi [a cui] nessuno può sfuggire», l’uomo «cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca» (FR 39).

La Fides et ratio intende, così, il termine “senso” nell’unità della sua doppia accezione di significato e di orientamento. Ebbene, orientarsi – scriveva Kant, riflettendo proprio sull’unità delle due accezioni del termine “senso” – letteralmente «significa: determinare […] l’oriente»: disposizione che fondava in una umana «facoltà di distinguere», posta originariamente in noi dalla natura, ma consolidatasi in un “abito” «in virtù di un frequente esercizio» [3].

Ciò che Kant non si lasciava sfuggire sono proprio i risvolti metafisici di un tale “abito”, affermando che esso può esserci di aiuto nelle elaborazioni concernenti la conoscenza degli oggetti soprasensibili [4]. La capacità di orientarsi nello spazio fungeva, così, per lui, da modello per la capacità di orientarsi nel pensiero, ossia per quell’uso logico in cui la ragione, «partendo da oggetti noti (dell’esperienza)» ed estendendosi oltre i confini di quest’ultima, non trova un termine cui corrisponde un’intuizione, ma apre solo uno «spazio per essa» [5]. Tutto sta nell’appurare «se il concetto con cui osiamo spingerci al di là di ogni esperienza possibile è libero da contraddizioni»: in tal modo, noi non ci rappresentiamo un oggetto in veste sensibile, ma «pensiamo pur sempre qualcosa di sovrasensibile come per lo meno idoneo all’uso empirico della nostra ragione».

In sintesi, ciò che, per Kant, muove il pensiero nello «spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde», permettendo ad esso di orientarsi, è unicamente il «bisogno della ragione», bisogno che si fa valere anche in rapporto al concetto di Dio, inteso come «intelligenza suprema» e come «sommo bene» [6].

Infatti non solo la nostra ragione sente già un bisogno di porre il concetto dell’illimitato a fondamento di quello di tutto ciò che è limitato, e quindi di tutte le cose, ma questo bisogno giunge a presupporre anche l’esistenza dell’illimitato, senza la quale sarebbe impossibile rendere ragione in modo soddisfacente sia della contingenza dell’esistenza delle cose nel mondo, sia soprattutto della finalità e dell’ordine che ovunque si incontrano in misura tanto ammirevole (nel piccolo, poiché ci è più vicino, più ancora che nel grande) [7].

Se abbiamo fatto questo richiamo a Kant è perché ci sembra molto produttivo per intendere il modo in cui la Fides et ratio prospetta la questione del “senso”: il bisogno che, per il primo, innesca la ragione e le fa da guida oltre la soglia del sensibile presenta delle analogie strutturali con ciò che la seconda chiama «intelligenza della fede». Ricordiamo, infatti, che la Lettera enciclica, laddove parla dell’«intellectus fidei» di s. Anselmo, dice che suo compito non è di formulare un giudizio di tenore intellettivo, ma – ben più originariamente – di «saper trovare un senso», ossia di «scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti della fede» (FR 57). O, detto in termini kantiani, che ci forniscano le coordinate essenziali per orientarci [8].

Ricordiamo, inoltre, che la definizione di filosofia offertaci dalla Fides et ratio la qualifica come ciò che, in origine, è un abbozzo di «risposta» alla «domanda circa il senso della vita».

Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo (FR 5-6).

In questa luce, fondamentale è la distinzione fra «sistema filosofico», in quanto «sapere sistematico» costruito nel segno della «coerenza logica delle affermazioni» e dell’«organicità dei contenuti», e «pensare filosofico» (FR 7), inteso come quella dimensione sorgiva del “senso” in cui il primo mette radici e a cui deve sempre tornare ad attingere.

Ed è proprio intorno a quest’ultimo punto che vorremmo chiudere il nostro breve contributo: la questione del “senso”, quale – abbiamo visto – è prospettata da Kant, presuppone come vincolante il riferimento in atto ad un principio senza il quale non è possibile orientarsi [9]: principio che la Lettera enciclica determina, appunto, nel segno di quel «desiderio di verità» che è una «proprietà nativa della […] ragione [umana]» (FR 6). In questa luce, l’uomo stesso è definito come «colui che cerca la verità», ricerca che, poiché non può essere del tutto inutile e vana, deve implicare, per il fatto stesso di porsi, «già una prima risposta» (FR 40). La «sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo» che ciascuno di noi custodisce in sé, insieme all’«assillo di alcune domande essenziali», «almeno l’abbozzo delle relative risposte» (FR 41).

“Tutti gli uomini desiderano sapere” [Aristotele, Metaph., I, 1], e oggetto proprio di questo desiderio è la verità (FR 36).

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1) Fides et ratio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 6-7 (citata, d’ora in poi, direttamente nel testo, con la sigla FR, seguita dall’indicazione della pagina).

2) Sul fatto che la meraviglia è quel «primo impulso conoscitivo» che si manifesta, innanzi tutto, sollevando in no
i «una serie di quesiti», cfr., in particolare, di K. Wojtyła, Persona e atto, a cura di G. Reale e T. Styczeń, Rusconi, Milano 1999, p. 77.

3) I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1786), a cura di F. Volpi, tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1996, pp. 47-8.

4) Un tentativo di ripensare la metafora kantiana dell’orientamento, «nell’ottica di ciò che oggi comunemente viene chiamato “il problema del senso”», è rappresentato da A. Fabris, Kant e la metafora dell’orientamento, in «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», 2000, n. 48, pp. 65-74: p. 69. Qui, si nota come Kant sposti la trattazione delle questioni metafisiche fondamentali dal piano della spiegazione – su cui «era collocata gran parte della teologia filosofica [a lui] precedente» (p. 74) – al piano del senso. Mentre la spiegazione «rinvia alla catena delle relazioni causali (intese nel loro significato più ampio), grazie a cui qualcosa è fissato come tale a partire da qualcos’altro che ne è responsabile», il senso, invece, «non è colto all’interno di una catena che, sotto vari aspetti, può definire e spiegare il motivo del suo presentarsi». Esso, infatti, è un qualcosa che, riferendosi ad un’«ambito ulteriore», mantiene la differenza fra i due livelli in questione, «senza che si ricada nell’appiattimento della spiegazione» (p. 69).

5) Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., p. 49.

6) Ivi, pp. 50-2.

7) Ivi, pp. 52-3.

8) A conferma di questa interpretazione dell’«intellectus fidei» di s. Anselmo, proposta dalla Fides et ratio, va rilevato che I. Sciuto, curatore di un’ed. it. del Proslogion (Rusconi, Milano 1996), nella sua introduzione (pp. 5-76) al testo, afferma che, nell’arcivescovo di Canterbury, il verbo credere ha un «uso chiaramente non fideistico», riferendosi al «momento preliminare […] del comprendere» (pp. 27-8), ossia a quei contenuti, non ancora accertati, la cui posizione ci serve per dare un primo “orientamento” al movimento di ricerca attivato dalla ragione.

9) In questa luce, ciò che F.Volpi, Kant e l’“oriente” della ragione, premessa a Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., pp. 11-42, indica come un’aporia in cui rimarrebbe fatalmente irretita la posizione di Kant, è, invece, proprio il suo grande pregio: cogliere il dispiegarsi di un «riferimento oggettivo» all’interno di un «criterio soggettivo a priori dell’orientamento» (p. 34).

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ZENIT Staff

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