“Se la fede diventa notizia”: tra equivoci e possibilità

Tavola rotonda su Chiesa e comunicazione nell’Anno Paolino

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di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 26 febbraio 2009 (ZENIT.org).- “Per accorciare la distanza tra la fede e la notizia che ne potrebbe scaturire, serve la testimonianza, la professionalità e la competenza”. Così don Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) per le comunicazioni sociali, ha introdotto l’incontro su “Chiesa e comunicazione nell’Anno Paolino”, promosso congiuntamente dall’Ufficio per le comunicazioni sociali e dal Servizio per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, svoltosi a Roma questo giovedì.

Secondo don Pompili la realtà dell’informazione religiosa è condizionata da molti equivoci, quali la tendenza alla politicizzazione, con contrapposizioni tra progressisti e conservatori. E poi la spettacolarizzazione che confonde religione con esoterismo.

Il direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali, ha citato il Cardinale gesuita Avery Dulles, per ricordare che “mentre il contenuto principale della Chiesa è un messaggio di fede, i media tendono invece alla ricerca di ciò che è spettacolare e scandalistico”.

“E’ difficile dunque – ha scritto il porporato statunitense – che i media accettino gli insegnamenti di Papi e Vescovi, soprattutto quando sembra che si stacchino da ciò che pensa o fa la maggioranza, mentre il dissidente è presentato come campione di libertà”.

Per trovare una via dove la fede non cozza con la comunicazione, don Pompili ha suggerito di pensare alla “testimonianza come modo di esposizione attraverso i media” insieme a “professionalità e competenza, che consentono di trasmettere una visione d’insieme fatta di armonia e di senso”.

In merito alla figura di San Paolo come grande comunicatore, il biblista Romano Penna ha precisato che l’Apostolo delle genti non era “uno scrittore per vocazione” e “se fosse vissuto oggi non sarebbe stato nemmeno un giornalista”.

Il prof. Penna ha rilevato come Paolo sia stato l’unico tra gli illustri maestri del primo secolo a lasciare documenti scritti. Fu costretto a scrivere dalla necessità di educare e formare la comunità cristiana .

Le sue Lettere – ha aggiunto il biblista – “non erano dirette ad un unico soggetto, bensì ad una comunità di persone”.

Pur essendo molto interessato al mondo dei pagani, Paolo scrisse le Lettere espressamente per informare ed educare “le comunità cristiane”.

Secondo il prof. Penna, Paolo non aveva la vocazione del giornalista, ma sicuramente fu un grande comunicatore, una “figura complessa che non ha ancora cessato di dire qualcosa anche a noi oggi”.

Alla tavola rotonda è intervenuto anche Igor Man, firma storica del giornalismo italiano, il quale ha raccontato diversi aneddoti vissuti in prima persona, come la guerra in Vietnam, il colpo di Stato in Sudan del 1975 dove rischiò di essere fucilato, o gli incontri con Madre Teresa e con Giovanni Paolo II.

In particolare il noto cronista, ha raccontato che durante una intervista, Che Guevara gli confidò di non essersi mai posto il problema di Dio: “Però se veramente esiste – disse –, come crede mia madre che mi portava in chiesa quando ero piccolo, mi auguro che nel suo cuore ci sia posto anche per il comandante Ernesto Che Guevara”.

Sul finire della tavola rotonda è intervenuto anche Gian Franco Svidercoschi, ex vice direttore de “L’Osservatore Romano”, il quale ha sottolineato quanto, la banalizzazione e la distorsione degli interventi fatti dai Pontefici possa fare male all’informazione e all’opinione pubblica.

Svidercoschi ha sollevato anche il problema della difficoltà di comunicazione di alcuni uomini di Chiesa e per questo ha invocato un Sinodo dei vescovi sulle comunicazioni.

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ZENIT Staff

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