Un teatro dello Spirito

Intervista al poeta che ha lavorato all’Oratorio su San Paolo

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ROMA, martedì, 24 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista a Roberto Mussapi apparsa sull’ottavo numero della rivista “Paulus” (febbraio 2009), dedicato al tema della bellezza.

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di Paolo Pegoraro

Un Oratorio per coronare la conclusione dell’Anno Paolino. La Basilica di San Paolo l’ha commissionato a una coppia di grandi artisti – il poeta Roberto Mussapi e il compositore Sergio Rendine – affinché parola e musica tornino a intersecarsi nel magma incandescente della lode. Di quest’Oratorio, per ora, non è possibile avere anteprime. Neppure conoscerne il titolo. Mussapi ci racconta, però, cosa significa confrontarsi con la stautura di san Paolo.

Dopo i suoi “viaggi” con Dante, Shakespeare, Eliot, Walcott e Stevenson, cosa l’ha portata ad accettare di confrontarsi con la figura di Paolo di Tarso?

«Ho accettato con felicità e gratitudine. San Paolo è prima di tutto una pietra miliare, e  come lei stesso già sottintende nella domanda io amo accostare pietre miliari. Perché sono infinitamente ricche e mai definitivamente esplorate. Producono energie positive in modo incessante, hanno una sorta di perenne incandescenza. Paolo poi è un santo, un grande santo, e il mistero della santità è più difficile e complesso, ai miei occhi, di quello della poesia, che già è inesplicabile. La poesia, la poesia delle pietre miliari ma non solo, cerca l’eternità, anche quando non la postula. La santità è un passo ulteriore, a mio parere il santo non ci adombra l’eterno, ma lo abita già nel presente. La sua prova è elementare e assoluta. Per questo straordinaria.

Inoltre Paolo è un santo particolare: quello dell’accecamento che coincide con la visione suprema, un mito fondante della poesia a cui mi sono formato, da Omero a Dante. La Divina Commedia inizia con il poeta perso nel buio. Senza quel buio non sarebbe stata possibile quella risalita e, infine, al culmine, quell’indicibile visione. E i personaggi della Tempesta, in Shakespeare, scoprono e affermano di ritrovarsi, tutti, quando tutti erano perduti.

Negli Atti degli apostoli la figura di Saulo prende forma, entra in scena in concomitanza teatrale, drammaticamente incalzante, con le manifestazioni dello Spirito Santo. Teatralmente non sempre a lui connesse, ma legate nella trama incalzante degli eventi. Paolo entra in scena mentre lo Spirito Santo – secondo la propria arbitraria, misteriosa e graziante podestà – si manifesta sempre più fortemente nel cosmo umano, la comunità dei convertiti, che vacilla e trema dopo la morte di Cristo. Sembra che un drammaturgo più grande ancora di Shakespeare lo abbia fatto comparire quando più imperiosamente e magicamente lo Spirito Santo appare ai cristiani, credenti e indeboliti, commossi e impauriti dalla nuova solitudine priva di prove. Prove: una resurrezione immediata, in accordo con la concezione che abbiano noi umani del tempo. Lo Spirito Santo entra nella storia per illuminare la realtà di un altro tempo, e in questo drammatico contesto prende forma il personaggio di san Paolo. Colui che si fa mediatore, interprete delle due grandi concezioni del tempo, quello storico – sia gli uomini del mondo classico sia quelli della realtà giudaica hanno una concezione precisa e immediata del tempo –, e quello eterno, che non è però rimandato o metaforizzato, ma incluso nel presente. È chiaro che di fronte a queste situazioni il poeta o l’autore balbetta, pur sempre sperando che, almeno per quanto riguarda la sua buona fede, da quel balbettio nasca qualcosa di non indegno dell’argomento».

Come ha caratterizzato l’Apostolo, nella scrittura di quest’Oratorio?

«L’ho collocato in un tempo esiziale, di passaggio tra due estremi, tra la conversione e il martirio. In particolare spero di farne una sorta di esemplare testimone del tempo: un’interruzione del tempo – l’accecamento – genera la visione e la conversione, e da quel momento il tempo diviene un concentratissimo presente in cui non solo Paolo agisce con la predicazione cristiana, per costruire il tempo futuro – sempre sul piano storico, terreno – ma pare voler recuperare il tempo perduto, il suo passato.

Bisogna poi dire che un oratorio non è un dramma teatrale: esclude quindi sviluppi psicologici dei personaggi, come esclude il gioco complesso della vicenda. Non contempla la trama drammaturgica, che cela e consente alla fine un crescendo e un’agnizione. È un genere di spettacolo in cui l’esito e la storia stessa nel suo complesso sono noti in partenza. Più similmente a un pittore che deve realizzare un soggetto commissionato, su una tela o in un affresco, l’autore deve scegliere un momento del personaggio protagonista, un momento capace di esprimere molteplici aspetti del suo carattere. E deve scegliere gli altri personaggi. Questo è un principio pittorico – pensiamo naturalmente alla Vocazione di Matteo di Caravaggio scelto come momento supremo –, ma poi, nonostante quanto ho appena affermato, anche drammaturgico.

Oltre a Paolo ho scelto di dare la parola a una voce recitante, una sorta di testimone capace di passare la parola agli altri personaggi, e a un Coro, che mi consente di affidare a una voce sola molte figure che non hanno qui il ruolo di attori, come ad esempio Gamaliele, il grande maestro fariseo celebre per la sua tolleranza illuminata. Il Coro rappresenta per me, canonicamente, una sorta di fusione tra l’inconscio collettivo, la voce dell’autore e un virtuale spettatore con le sue domande. Coscienza profonda, subliminale e razionale insieme, e anche interrogazione, stupore, ignoranza bisognosa di avventurarsi. E poi c’ è Lidia, una ricca donna di Filippi che trattava tessuti di murice e che, convertita, ospitava la comunità dei cristiani; e il Carnefice, non specifico in questa intervista quale, se il mandante o uno di coloro che parteciparono fisicamente alla lapidazione. Non specifico perché vorrei offrire una riflessione, non una sinossi.

I personaggi sono sei – voce recitante, soprano, contralto, tenore, baritono e coro –, ma qui ne ho nominati cinque. Non rivelo qui quale sia il sesto: non risulta dagli scritti, anche se non può non essere esistito. Non un’invenzione dell’autore qui, ma l’attribuzione di un volto e un nome a qualcuno che sicuramente ci fu».

San Paolo ci fornisce la più consistente testimonianza innografica della Chiesa primitiva, oltre ad aver composto egli stesso alcuni vertici assoluti come l’Inno alla carità. È possibile parlare di Paolo di Tarso come poeta?

«Spesso, non sempre, i grandi santi sono anche grandi poeti. San Francesco, ad esempio: il suo Cantico è stato per me un modello di poesia perché lo vedevo innanzitutto come ringraziamento alla vita. E questo avvenne, per me, anche in anni in cui non mi consideravo credente. Non-credente “a modo mio”, perché credevo lo stesso. San Paolo, poi, è sicuramente poeta perché la sua lingua è necessaria come deve essere necessaria la poesia, almeno quella che io considero tale. Ho detto la sua lingua, non le sue parole, perché la lingua è ancora di più delle parole. È un dettato che non predica, ma svela. Paolo è il poeta rivelante, in cui la visione diviene – direi naturalmente – comunicazione; e l’unità simbolica di visione/comunicazione è il sogno massimo di ogni aspirante poeta».

Spesso non ci si rende conto di questa dimensione “poetica” degli scritti paolini anche a causa delle traduzioni, che infatti alcuni – come Giovanni Testori – hanno sentito l’esigenza di ritradurre. Anche nel suo Oratorio ha tentato quest’opera di ritraduzione?

«No, non ho conoscenza approfondita al punto di pormi il problema di una ritraduzione. E non lo ritengo necessario per il compito che mi attendeva. Valide o meno le traduzioni, per il mio scopo era
un problema ininfluente, poiché io non mi ponevo un problema filologico o esegetico, ma mitopoietico. Lo studioso di san Paolo deve interrogarsi sulla fedeltà delle traduzioni… pur con tutti i limiti che ha il concetto di fedeltà quando si parla di tradurre, cioè di traghettare, di portare a un’altra sponda. Mentre a noi, oggi, san Paolo ci giunge in forma leggendaria e la leggenda ha sempre una verità profonda, a maggior ragione se supportata da un testo scritto. Il personaggio e la sua parola mi bastano e avanzano, mi si perdoni l’espressione dozzinale, per quanto emerge. Io non interpreto dei testi, ma una leggenda. E per me “leggenda” equivale, in un certo senso, a mito: non fantasie popolari, ma versioni di fatti che realmente accaddero. Mito e leggenda rendono comprensibili i fatti e raccontano la realtà, non l’evasione sognante dalla realtà. Anzi, i sogni degli uomini che vi fanno riferimento rendono la realtà più viva.

Il mio compito non è di ritradurre gli scritti di San Paolo, ma di tradurli, fusi con la sua opera, in una nuova rappresentazione. Di fronte a pagine esemplari e svelanti, a me tocca coglierne il senso che nessuna traduzione può avere del tutto ottuso, o frainteso, poiché l’evidenza parla prima e sotto la parola scritta. Uno che è stato folgorato non ha bisogno di note esplicative. Ci ha offerto la sua folgorazione, la sua caduta a precipizio nel buio e la riconquista di una visione nuova, diversa, rovesciata: questa è la materia del dramma. Prima la persecuzione, poi la via che dalla rivelazione conduce alla parola, all’azione, fino al martirio. Ogni traduzione è in parte un fraintendimento, ma le grandi opere consentono solo un’infinità di fraintendimenti. Che, per chi crede nella realtà come simbolo, non sono schegge impazzite o frammenti spersi, ma parti di un insieme che sta vivendo».

«La lettera uccide, mentre lo Spirito vivifica» (2Cor 3,6). Paolo riflette spesso sulla Parola viva ed efficace (il kérygma) contrapposto alle parole impoverite di ogni senso… Qual è il compito della poesia in rapporto al linguaggio?

«La poesia è medianica, mette in comunicazione due mondi. Per esprimersi con un termine tecnico felice, che ho adottato dalla giovinezza, è, secondo la definizione di Thomas Stearn Eliot, metafisica. Metafisica in questo caso e in questa accezione non significa “religiosa”. Ma invece l’aggettivo “metafisico”, eliotianamente, e per me, riferito alla poesia, indica una rappresentazione, un teatro che mette in scena realtà impalpabili, non umane, attraverso emblemi, visioni, scene concrete. Inoltre: chi può affermare che la realtà umana, concreta, storica, non è nutrita anche dell’impalpabile? Eliot proseguiva con “sensous thought”, che tradurrei “pensiero appercepibile dai sensi”».

Come si svolge la sua collaborazione con il compositore Sergio Rendine nella stesura dell’Oratorio?

«Benissimo. Rendine non pone pregiudizialmente limiti strutturali o quantitativi al testo. Limiti che sarei disposto ad accettare volentieri, poiché in altri casi si ritiene necessario stabilirli. Ma il suo modo di agire mi lascia più libero. Non libero di andare a vanvera, ma libero di trovare prima il suono della mia poesia, che poi il musicista tratta come una voce o uno strumento. È chiaro che poi interviene, e da qui si lavora spesso insieme. Ma è la fase che stiamo attraversando. Rendine ha un approccio alla realtà della musica e dell’arte  che sento affine al mio. Approccio all’uomo e all’opera, intendo. Credo anche nella modalità della visione e dell’immaginazione. Non mi fa pensare a un compositore di musica colta, ma piuttosto a un erede di Neil Young o Springsteen, come temperatura emotiva.  Potrebbe recitare in un film di Wenders».

Vi sono reciproche influenze nell’allaccio di parola-musica? questo le ha fatto rileggere sotto una nuova prospettiva gli Inni presenti nel corpus paolino, che probabilmente venivano cantati?

«Parola-musica o musica-parola è il compito alchemico che attende Sergio Rendine e me. Non ci sono regole. È letteralmente un’avventura, che non posso teorizzare perché nessuna avventura è mai stata teorizzata, se non dopo, a conquista avvenuta.

Il fatto che probabilmente gli inni venissero cantati non può influenzarmi: intanto è una probabilità, ma soprattutto io e Rendine non dobbiamo fare un calco, ma scrivere un’opera vivente. Si può imitare un modello certo, non un modello probabile. E comunque l’imitazione di un modello certo, se è una vera imitazione, cioè una creazione che attinge al suo cuore pulsionale, non alla sua forma, è una cosa nuova. Il passato esiste per essere ammirato e suscitare forme nuove, non calchi. La sua lezione è verso la vita, non la conservazione. Conservi e ricordi solo se da quel punto fai altro. Una sorta di memoria proiettata in avanti. Che è la prova della forza del modello: fare vita nuova».

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ZENIT Staff

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