Cardinale Stafford: l'amore è la chiave della teologia di Ratzinger

Il suo è un richiamo “non a una teologia estetica, ma a un’estetica teologica”

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di Roberta Sciamplicotti

ROMA, domenica, 14 settembre 2008 (ZENIT.org).- “La chiave della teologia di Joseph Ratzinger è l’amore”, ha spiegato questo sabato il Cardinale James Francis Stafford, Penitenziere Maggiore, alla Pontificia Università della Santa Croce (PUSC) di Roma.

Il porporato è intervenuto al Seminario Professionale per giornalisti della stampa internazionale “The Church Up Close – Covering Catholicism in the Age of Benedict XVI”, organizzato dalla Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale dell’Università, sul tema “Theological keys to Joseph Ratzinger’s thought”, sottolineando che tutta la teologia papale è condensata nel titolo della sua prima Enciclica: “Deus caritas est”, “Dio è amore”, appunto.

Il Penitenziere Maggiore ha spiegato in primo luogo che il nostro è “un Dio attivo nella sua ricerca d’amore”, “un Dio che va personalmente alla ricerca del suo gregge”.

“L’amore, solo l’amore è credibile”, ha aggiunto, spiegando che per questo motivo Gesù Cristo “è il centro di tutta la storia, anche di quella contemporanea”, perché rappresenta l’amore profondo di Dio, che ha sacrificato il suo stesso Figlio per la salvezza e la redenzione l’umanità.

“L’ingiustizia può essere vinta solo con la sofferenza”, ha sottolineato ricordando il legame tra verità e martirio.

Il Cardinale Stafford ha quindi spiegato il significato dello stemma di Papa Benedetto XVI, che contiene tre simboli già introdotti dal Cardinale Ratzinger quando era Arcivescovo di Monaco e Frisinga e mantenuti poi quando è diventato porporato.

Il primo simbolo è una conchiglia, segno del pellegrinaggio – chi compie il Cammino di Santiago de Compostela ne infatti riceve una a simboleggiare il viaggio – e ricordo della leggenda attribuita a Sant’Agostino, che incontrando sulla spiaggia un ragazzo che cercava di mettere con una conchiglia tutta l’acqua del mare in una buca gli chiese cosa stesse facendo. Quando il giovane gli rispose, Agostino pensò ai suoi sforzi inutili per far entrare l’infinità di Dio nella limitata mente umana.

Il secondo simbolo è un orso addomesticato, segno di penitenza, mentre il terzo è una testa di moro incoronata, a simboleggiare l’universalità della Chiesa.

Il Penitenziere Maggiore ha poi difeso la necessità di non distogliere lo sguardo dall’umanità per concentrarsi sulla tecnologia e le sue evoluzioni. Per questo, ha invitato a seguire l’esempio ratzingeriano di “tornare alle radici, alla patristica”, “non a una teologia estetica, ma a un’estetica teologica”.

A tale scopo, non bisogna mai perdere di vista “la bontà e la bellezza”, ricordando sempre il primato di quest’ultima, a cui il Papa compie un vero e proprio appello.

Come diceva il famoso scrittore russo Fëdor Dostoevskij, ha osservato il Cardinale, “la bellezza ci salverà”.

Per raggiungere la bellezza, ha tuttavia concluso, è imprescindibile “un impegno nei confronti della verità”, per “scoprire davvero la verità”.

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ZENIT Staff

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