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L’8 e il 9 settembre quasi tutti gli organi di informazione hanno divulgato la notizia secondo cui un gruppo di ricercatori dell’Università di Newcastle sarebbe pronta a clonare esseri umani per “guarire” varie malattie genetiche (cfr. BBC News, Embryo with two mothers approved, 8 settembre 2005), con il consenso del governo. E i tristi primati del Regno Unito non paiono fermarsi qui: il 10 settembre un team di Edimburgo ha rivelato di avere già eseguito la partenogesi nell’uomo, ottenendo una mezza dozzina di blastocisti umane da cui sono state ricavate cellule staminali embrionali (cfr. S. Condor, Embryos created by ‘virgin conception’, “The Independent”, 10 settembre 2005).
Tutto questo accade mentre è in corso la grande consultazione popolare che invita la popolazione a esprimere il proprio parere sulle modifiche da apportare alla legge britannica sulla procreazione assistita. Alcune domande attengono, non a caso, alle manipolazioni genetiche sull’embrione, alla clonazione riproduttiva, alla creazione di ibridi a scopo conoscitivo e terapeutico. È quindi significativo – e sospetto – che proprio ora il governo abbia dato il via libera alla sperimentazione sul trasferimento di nucleo nell’uomo, dando un inaspettato impulso a ricerche che finora erano state compiute ufficialmente solo sui topi. L’enfasi posta sulle potenzialità terapeutiche della tecnica – ancora lontana da qualsivoglia risultato – potrebbe infatti essere legata alla volontà di influenzare l’opinione pubblica in senso permissivo rispetto alle pratiche di fecondazione in vitro e alle loro applicazioni.
Il gruppo di Newcastle ovviamente esulta, e fa grandi promesse: “in tre anni saremo in grado di curare un intero ceppo di malattie ereditarie” legate ai mitocondri, le malattie mitocondriali. Come? La tecnica è quella “classica” della clonazione, anche se secondo alcuni si tratterebbe di pseudo-clonazione, in quanto, pur basandosi sul trasferimento nucleare, non porta alla creazione di un individuo geneticamente identico ad un altro individuo adulto, ma al clone di un embrione precoce che viene distrutto dal processo stesso.
In altre parole, si priva un embrione unicellulare (uno zigote), frutto dell’unione in vitro di un ovulo con uno spermatozoo, del suo nucleo (o meglio dei pronuclei), per trasferirlo in una cellula uovo non fecondata privata del suo nucleo originario, appartenente ad un’altra donna. A questo punto, mediante l’attivazione elettrica tipica dei processi di clonazione, inizia la divisione cellulare e lo sviluppo del nuovo organismo, che avrà il genoma dello zigote di partenza ma anche i dati genetici contenuti nel citoplasma dell’ovulo “ospitante”. È stato scritto in numerosi articoli che il bambino eventualmente nato da questo processo sarebbe geneticamente figlio di un padre e di due madri, quella da cui proviene il nucleo trasferito e da cui proviene l’ovulo “ospitante” (cfr. ad esempio C. Nordqvist, Cloning from two mothers, UK gives the green light, “Medical News Today”, 8 settembre 2005).
Tale osservazione tuttavia trascura un passaggio fondamentale, opportunamente segnalato da monsignor Elio Sgreccia, direttore della Pontificia Accademia per la Vita: la creazione in vitro di un embrione umano votato al sacrificio.
La pecora Dolly, nel 1997 a Edimburgo, era un clone ottenuto dal trasferimento del nucleo – e quindi del DNA – di una cellula somatica di una pecora adulta (la “mamma-gemella” di Dolly) nell’ovulo enucleato di una seconda pecora adulta, la quale ha fornito a Dolly il citoplasma dell’ovulo e con esso il DNA ivi contenuto, chiamato DNA mitocondriale. Dolly assomigliava in tutto alla pecora donatrice di nucleo, anche se ha certamente ereditato vari elementi delle sue funzionalità dal DNA mitocondriale della seconda pecora, la donatrice di nucleo.
A Newcastle il nucleo verrà tratto non da un individuo adulto, o da due individui, ma da un individuo piccolissimo, cioè da un embrione di una cellula sola, creato appositamente per la sua distruzione. A rigore, dunque, il bambino eventualmente nato da questa procedura di clonazione non sarebbe figlio di un padre e di due madri, ma di un embrione (maschio o femmina non ha importanza), pur ereditando anche il DNA mitocondriale dalla donna che fornisce l’ovulo “ospitante”. Dunque, tale pratica non solo è una vera e propria clonazione riproduttiva, ma implica anche la distruzione programmata di un embrione precoce, e dunque aggrava tutte le implicazione etiche negative proprie della clonazione (cfr. C. Navarini, Le ultime frontiere della clonazione: uomini e ibridi, ZENIT,12 dicembre 2004; Idem, Clonazione: persino l’ONU smentisce i referendari, ZENIT, 27 febbraio 2005).
Eppure, Azim Surani, professore di fisiologia e riproduzione all’Università di Cambridge, minimizza dichiarando candidamente di “vedere pochi problemi etici, dato che si parla di un embrione ad uno stadio molto precoce, quando le cellule non hanno ancora iniziato a dividersi”. È sorprendente e disarmante la frequenza con cui uomini di scienza e di cultura abbracciano l’approccio superficialmente materialista che considera il valore di una vita umana dipendente dal suo grado di sviluppo (corporeo e/o psichico), dalla quantità di cellule possedute e di funzioni esercitate, e non dal fatto fondamentale di essere o non essere vita umana.
A Newcastle si promette di guarire le malattie mitocondriali. Più propriamente, di “creare” individui senza malattie legate ai mitocondri (ma potenzialmente portatori di qualunque altra malattia) attraverso la creazione e la distruzione di individui malati, cioè portatori di patologie mitocondriali: gli embrioni da clonare. Lo scopo della procedura è quello di soddisfare sempre più la richiesta di designer babies: il figlio della provetta va bene solo se si “toglie” quel fastidioso citoplasma in cui navigano i mitocondri materni. La soluzione è quella di produrre appunto una sua copia perfezionata, un bambino geneticamente modificato che permetta ad una coppia di avere un “figlio” biologicamente imparentato con essa, e dunque somigliante come un figlio “vero”, senza che la donna trasmetta alla prole la malattia mitocondriale di cui è affetta.
Infatti, con la clonazione, soltanto il nucleo dell’embrione creato in vitro verrebbe “riutilizzato”, mentre il resto (il citoplasma con i mitocondri difettosi) verrebbe scartato. La donatrice di ovulo, al contrario, dovrà avere un citoplasma impeccabile, preservando il nascituro dalle temute malattie.
Gli embrioni così formati verrebbero poi trasferiti (se possibile) nelle vie genitali della donna richiedente (quella della coppia, del DNA nucleare, la madre dell’embrione distrutto, insomma la nonna del piccolo clone), che attraverso una sorta di maternità surrogata porterà avanti la gravidanza. A meno che non si renda necessaria un’altra donna per condurre la gravidanza. Come si vede, nel mondo dell’artificio il numero degli attori in gioco nel processo riproduttivo continua ad aumentare.
Il prof. Doug Turnbull, leader del gruppo di ricerca di Newcastle, invece, riduce l’esperimento ad un fatto puramente tecnico: i mitocondri alterati, che si trasmettono per via materna, causano dei deficit energetici che possono produrre malattie anche molto gravi; pertanto, cambiando citoplasma, e dunque mitocondri, il problema sarebbe risolto. “Stiamo solo modificando la fonte di energia”, ha dichiarato. Che questo richieda la fecondazione in vitro, l’uccisione dell’embrione creato, la clonazione, la maternità surrogata poco importa: sono solo “questioni tecniche”.
Di tutt’altro tenore il commento di Josephin
e Quintavalle, del gruppo Comment on Reproductive Ethics: questo modo di “produrre” bambini, dice, “scioccherà il mondo. Significa giocare con l’inizio della vita umana”. Esattamente. Senza voler entrare ora nel dibattito sugli OGM, non si può non notare – stupefatti – che tentare di migliorare qualità e resa delle produzioni agricole viene da certuni considerato poco meno di un’attività criminale, mentre quando si tratta di esseri umani non c’è “principio di precauzione” che tenga. Si troverà un pasdaran della patata “biologica” che spenda una parola per gli embrioni umani, per questi BGM?
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]