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Lo scorso 13 maggio, nel giorno della Vergine di Fatima, il Santo Padre Benedetto XVI in questa Basilica Lateranense, al termine del suo primo discorso al clero romano, annunciava di avere concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte del Servo di Dio Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła) e che pertanto la Causa di Beatificazione e Canonizzazione del medesimo Servo di Dio poteva avere inizio subito. Erano trascorsi soltanto 41 giorni dalla morte di Giovanni Paolo II e ricorreva il 24° anniversario dell’attentato compiuto contro di Lui in Piazza San Pietro, il 13 maggio 1981.
Nella certezza di interpretare il vostro unanime sentimento, desidero rinnovare al Santo Padre Benedetto XVI l’espressione della vivissima gratitudine della Diocesi di Roma, di quella di Cracovia e del mondo intero per questa decisione, con la quale Egli ha accolto l’istanza di un grandissimo numero di Padri Cardinali, fattisi voce della corale e ardente supplica levatasi dal popolo di Dio nei giorni indimenticabili della morte e delle esequie di Giovanni Paolo II.
Ogni parola che io possa ora aggiungere, come sempre avviene al termine della sessione di apertura dell’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità di un Servo di Dio, per illustrare la figura di Giovanni Paolo II e motivare l’apertura della sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione, per un verso appare superflua, essendo tanto grande e universale la conoscenza di Lui e tanto profondo e unanime il convincimento della sua santità. Ciò che sto per dire nasce però dal mio cuore e confido possa trovare felice corrispondenza nel cuore di ciascuno di voi.
Karol Józef Wojtyła è nato a Wadowice il 18 maggio 1920, da Karol e da Emilia Kaczorowska, genitori profondamente cattolici, ed è stato battezzato il 20 giugno dello stesso anno nella chiesa parrocchiale di Wadowice. La Polonia aveva da poco ritrovato la sua unità e indipendenza e soltanto due mesi dopo, il 16 e 17 agosto, seppe vittoriosamente difenderla, per sé e per l’Europa, respingendo l’invasione dell’Armata Rossa nella battaglia detta “il miracolo della Vistola”. Faccio menzione di questo evento, che consentì al bambino e all’adolescente Karol di crescere e formarsi in un contesto sociale e culturale serenamente improntato al cattolicesimo, perché ho personalmente udito Giovanni Paolo II ricordare in molteplici occasioni, con commossa gratitudine, il “miracolo della Vistola”.
Nel settembre 1926 Karol, detto familiarmente Lolek, inizia a frequentare la scuola elementare. Poi, ancora bambino di nove anni, il 13 aprile 1929, perde la madre, deceduta per malattia a soli 45 anni di età. Un mese dopo riceve la prima comunione. Nel 1930 passa alla scuola media, presso il Ginnasio Statale di Wadowice, scegliendo l’indirizzo neoclassico. Ma di nuovo, il 5 dicembre 1932, Karol è colpito da un gravissimo lutto, con la morte del fratello maggiore Edmund, giovane medico che perde la vita curando i malati di una epidemia di scarlattina.
Rimasto solo con il padre, è da lui guidato a una vita nella quale la preghiera e l’ascesi hanno uno spazio determinante, e proprio così trovano posto adeguato non soltanto lo studio, ma anche il gioco, l’allegria e lo sport. Un’altra persona che contribuirà grandemente alla formazione cristiana di Karol fu Padre Kazimierz Figlewicz, un giovane sacerdote che dal 1930 insegnava catechismo nella scuola di Wadowice e seguiva i chierichetti, tra cui Karol, nella parrocchia. Il piccolo Wojtyła si confessava da lui, lo ammirava e gli si affezionò profondamente. A sua volta il sacerdote descrive Karol come “un ragazzo vivacissimo, di grande talento, molto sveglio e buonissimo”.
I tratti peculiari della pietà in cui il ragazzo viene formato sono l’amore alla Vergine Maria e la devozione allo Spirito Santo, caratteristiche che rimangono profondamente iscritte nel suo animo e alle quali si mantenne fedele per sempre. La sua vita religiosa era alimentata mediante l’assidua preghiera personale, la frequenza ai sacramenti, le pratiche di pietà, in particolare i pellegrinaggi ai santuari mariani, ma anche attraverso l’impegno nelle associazioni cattoliche: la vigilia dell’Assunzione del 1934 entra a far parte del Sodalizio Mariano della sua parrocchia e due anni dopo ne diventa presidente. Già nel 1934 Karol comincia inoltre a partecipare a delle recite e due anni dopo inizia un’intensa collaborazione con il regista teatrale d’avanguardia Mieczysław Kotlarczyk, innamorato del teatro e profondamente credente.
Il 3 maggio 1938 Karol riceve la cresima, il 27 dello stesso mese consegue la licenza liceale: alla cerimonia di consegna del diploma viene chiamato a tenere il discorso di commiato. Nell’agosto successivo si trasferisce con il padre a Cracovia, per iscriversi alla Facoltà di filosofia dell’Università Jagiellonica, seguendo i corsi di filologia polacca. Come scrive nel suo libro Dono e Mistero, questa strada introdusse il futuro Giovanni Paolo II “nel mistero stesso della parola”.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale, iniziata con l’invasione della Polonia il 1° settembre 1939, cambia però radicalmente il corso della vita di Karol. Egli nella primavera di quell’anno aveva già portato a termine il volume di poesie, allora inedite, Salmo rinascimentale / Libro slavo, di cui fa parte l’inno Magnificat, nel quale si legge: “Ecco, riempio fino all’orlo il calice col succo della vite nel Tuo convito celeste – io, il Tuo servo orante – grato, perché misteriosamente rendesti angelica la mia giovinezza, perché da un tronco di tiglio scolpisti una forma robusta. Tu sei il più stupendo, onnipotente Intagliatore di santi”. Queste parole, che non possiamo ascoltare senza commozione, dicono moltissimo non solo sulla vita, la profondità spirituale, la comprensione di sé e il genio poetico del giovane Wojtyła, ma anche, profeticamente, su come la Provvidenza, avrebbe scolpito la sua figura e la sua persona attraverso i drammi e gli imprevisti della storia.
L’Università Jagiellonica fu costretta a interrompere i corsi e nel settembre 1940, per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, il giovane Karol iniziò a lavorare come operaio in una cava di pietra collegata con lo stabilimento chimico Solvay, nel quale un anno dopo sarebbe passato a lavorare direttamente. Quanto questa esperienza abbia influito su di lui, gli abbia dato una più profonda e completa esperienza della realtà e della fatica della vita oltre che della solidarietà tra gli uomini, è espresso emblematicamente in un verso del poema La cava di pietra, scritto nel 1956: “tutta la grandezza del lavoro è dentro l’uomo”.
Il 18 febbraio 1941 il padre, malato da tempo ma non ritenuto in pericolo di vita, muore improvvisamente. Karol perde così l’ultimo, e fortissimo, legame e affetto familiare. Più tardi ricorderà: “non m’ero mai sentito tanto solo” come in quella notte di veglia e di preghiera, nonostante la presenza con lui di un amico. La vita, nella Polonia occupata, era terribilmente dura, la Chiesa sistematicamente perseguitata, moltissimi sacerdoti uccisi o imprigionati. Eppure, proprio in quella situazione, il giovane Wojtyła non solo continuò a scrivere, in particolare a comporre drammi, e a recitare, nel “teatro rapsodico” clandestino, alimentando così la resistenza morale all’oppressione nazista e l’identità spirituale e culturale polacca, ma approfondì la sua esperienza religiosa, in particolare attraverso il contatto con Jan Tyranowski, un sarto di alta spiritualità e un autentico formatore di giovani, che lo introdusse alla lettura dei grandi mistici carmelitani San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila, e l’incontro con il Trattato della vera devozione alla Santa Vergine di San Luigi Maria Grignion de Montfort, dal quale comprese più profondamente il legame tra Maria e Cristo e ricavò il motto di affidamento mariano “Totus Tuus
”, autentico emblema della sua vita e non solo del suo episcopato.
I pellegrinaggi al santuario mariano di Kalwaria contribuirono a delineare questo itinerario di preghiera e di contemplazione, che avrebbe orientato i passi del giovane Karol verso il sacerdozio.
Insegnanti ed amici, già a Wadowice e poi a Cracovia, avevano più volte detto a Karol che egli appariva loro destinato all’altare, ma egli aveva sempre opposto resistenza a questa idea, soprattutto perché profondamente attratto da un’altra vocazione, quella per il teatro, l’arte, le lettere.
Nel mistero della chiamata al sacerdozio, e dell’accoglienza di essa da parte di Karol, ha avuto un ruolo particolare, come attesta lo stesso Giovanni Paolo II nel libro “Dono e Mistero”, la grande figura di Adam Chmielowski, il Santo Frate Alberto, celebre patriota e pittore polacco che ebbe la forza di rompere con la propria arte quando comprese che Dio lo chiamava a servire i diseredati e a condividere la loro vita. A lui Karol Wojtyła dedicherà il dramma “Fratello del nostro Dio” e poi, divenuto Papa, lo proclamerà Beato in Polonia nel 1983 e Santo a Roma nel novembre 1989, mentre crollava la “cortina di ferro”.
La vocazione sacerdotale di Karol giunse a piena maturazione nel corso del 1942 e nell’autunno di quell’anno egli prese la decisione di entrare a far parte del seminario di Cracovia, che funzionava clandestinamente, pur continuando il suo lavoro in fabbrica. In pari tempo, nell’itinerario di formazione al sacerdozio presso la Facoltà teologica dell’Università Jagiellonica, anch’essa clandestina, incominciò lo studio sistematico della filosofia, in particolare della metafisica. Il Cardinale Arcivescovo di Cracovia, Principe Adam Stefan Sapieha, sistemò poco dopo il seminario clandestino presso la propria residenza e qui il seminarista Wojtyła trovò rifugio dal settembre 1944 e visse la notte della liberazione di Cracovia da parte dell’Armata Rossa, il 18 gennaio 1945.
L’anno accademico 1945-46 potè svolgersi regolarmente e il Cardinale Sapieha, avendo deciso che Karol Wojtyła completasse gli studi a Roma, lo ordinò sacerdote, in anticipo sui suoi compagni di corso, il 1° novembre 1946, nella propria cappella privata. Toccante è la descrizione che Giovanni Paolo II ci ha lasciato, nel libro “Dono e Mistero”, di quell’ordinazione e delle tre Sante Messe celebrate dal novello sacerdote il giorno dopo, 2 novembre, nella cripta di San Leonardo della Cattedrale del Wawel.
Alla fine di quel mese di novembre Don Karol era già a Roma, iscritto ai corsi di laurea in teologia presso il Pontificio Ateneo Angelicum, dove primeggiava la figura del Padre Réginald Garrigou Lagrange, O.P., che fu anche relatore della tesi di Dottorato, dedicata alla “Doctrina de fide apud S. Ioannem a Cruce”, la dottrina intorno alla fede secondo S. Giovanni della Croce, che Don Karol discusse il 19 giugno 1948.
Abitando per quei due anni al Collegio Belga, in un ambiente culturalmente e teologicamente assai vivo, il giovane sacerdote polacco fu animato dal forte desiderio di “imparare Roma”, trasmessogli in particolare dal Rettore del Seminario di Cracovia, P. Karol Kozłowski, e di Roma effettivamente non solo apprese la storia e la bellezza, ma assimilò il respiro universale e cattolico, che spontaneamente si innestava nella grande tradizione cattolica polacca. Don Karol nelle vacanze estive visitò inoltre la Francia, l’Olanda e il Belgio, conoscendo da una parte le nuove problematiche pastorali espresse nella formula “Francia, paese di missione”, e però anche sostando ad Ars dove, dall’incontro con la figura di San Giovanni Maria Vianney, trasse la convinzione che il sacerdote realizza una parte essenziale della sua missione attraverso il confessionale, come egli stesso attesta nel libro Dono e Mistero.
L’atteggiamento complessivo col quale già allora Don Karol affrontava la vita è bene espresso dalle sue parole riportate da uno dei sacerdoti suoi compagni: “È necessario organizzare la vita in modo tale che questa tutta possa glorificare Dio”. Ritornato in Polonia, egli viene inviato a Niegowic come Vicario parrocchiale, ma dopo un solo anno è chiamato a Cracovia per essere Vicario parrocchiale nella parrocchia di San Floriano ed avviare una cappellania per gli studenti universitari.
Nonostante gli ostacoli frapposti dal regime comunista, dà prova di una straordinaria capacità educativa e creatività pastorale e culturale: sa penetrare infatti l’inquietudine del cuore dei giovani ed entrare in profonda sintonia con loro, introducendoli allo stesso tempo nella verità, bellezza e impegnatività della persona e della croce e risurrezione del Signore Gesù. Incomincia così, già allora, ad esercitare su di loro quel fascino meraviglioso che esprimerà, da Pontefice, attraverso le Giornate Mondiali della Gioventù.
Dopo la morte del Cardinale Sapieha, l’Arcivescovo Eugeniusz Baziak volle però che Don Karol si dedicasse all’insegnamento universitario e gli concesse, a partire dal 1° settembre 1951, due anni sabbatici per scrivere la tesi di abilitazione, dal titolo Valutazioni sulla possibilità di costruire un’etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler. Questo studio, che ottenne l’approvazione accademica il 30 novembre 1953, consentì al giovane sacerdote di penetrare il pensiero fenomenologico, giungendo alla conclusione che la fenomenologia è uno strumento importante e prezioso per indagare le dimensioni dell’esperienza umana, ma ha bisogno di essere fondata sulla concezione realistica dell’essere e della conoscenza, che Don Karol aveva approfondito nei suoi studi precedenti.
È indicata così la direzione di fondo del suo personale progetto filosofico, che intende legare l’oggettività e il realismo del pensiero classico con la sottolineatura moderna della soggettività e dell’esperienza e che culminerà nella grande opera Persona e atto, pubblicata nel 1969, quando Karol Wojtyła era già Cardinale. Questo orientamento di fondo è ben visibile, del resto, anche nel suo insegnamento di Pontefice: ricordo soltanto le pagine iniziali dell’Enciclica Dives in misericordia, con il principio della congiunzione “organica e profonda” di teocentrismo ed antropocentrismo.
La soppressione della Facoltà di teologia dell’Università Jagiellonica, decretata dal regime nel 1954, fece sì che il nuovo Professore svolgesse la sua carriera accademica non a Cracovia, come previsto, ma all’Università Cattolica di Lublino, a partire dall’autunno 1954, ottenendo già nel novembre 1956 la cattedra di etica nella Facoltà di filosofia e continuando fino al 1961 una regolare attività accademica. Sono quelli gli anni dei suoi continui viaggi in treno, tra Cracovia e Lublino: Karol Wojtyła infatti, che aveva accettato solo per ubbidienza i due anni sabbatici richiestigli dall’Arcivescovo Baziak, proseguì un’intensa attività pastorale a Cracovia, soprattutto con i giovani, condividendo con loro anche le vacanze.
Continuò inoltre a comporre drammi e poesie. Proprio nel mezzo di una vacanza con i giovani, il 4 luglio 1958, Don Karol apprese dal Cardinale Primate di Polonia Stefan Wyszyński di essere stato nominato dal Papa Pio XII Vescovo Ausiliare di Cracovia, all’età di soli 38 anni, e fu consacrato nella Cattedrale del Wawel il 28 settembre, festa di San Venceslao, Patrono della medesima Cattedrale, dall’Arcivescovo Eugeniusz Baziak. Nel libro “Alzatevi, Andiamo!” lo stesso Giovanni Paolo II descrive ampiamente questi eventi e lo spirito con il quale egli li visse. Già la sera dell’ordinazione si recò pellegrino al santuario di Częstochowa, con i suoi amici più stretti, e la mattina seguente celebrò la S. Messa davanti all’Icona della Madonna Nera.
A seguito della morte dell’Arcivescovo Baziak, Mons. Wojtyła, il 16 luglio 1962, viene eletto dal Capitolo Metropolitano Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Cracovia. Dopo un anno e mezzo Paolo VI
, il 13 gennaio 1964, lo promuove Arcivescovo Metropolita e l’8 marzo egli prende solenne possesso dell’Arcidiocesi. Erano gli anni nei quali Mons. Wojtyła prese intensamente parte a tutto il Concilio Vaticano II, dando un contributo di straordinaria importanza specialmente all’elaborazione della Costituzione Gaudium et spes, oltre che alla Dichiarazione sulla libertà religiosa e anche alla Costituzione Lumen gentium e al Decreto sull’apostolato dei laici.
L’esperienza del Concilio è stata decisiva per l’Episcopato cracoviense e per il successivo Pontificato romano di Karol Wojtyła, completando armoniosamente tutta la sua formazione ed esperienza precedente: è rimasta infatti per sempre scolpita in lui la convinzione che il Vaticano II è “l’evento chiave della nostra epoca” (Discorso al clero romano del 14 febbraio 1991).
Proprio per mettere in pratica il Concilio e per farne rivivere l’esperienza a tutta l’Arcidiocesi, l’Arcivescovo Wojtyła, nel frattempo creato Cardinale da Paolo VI nel Concistoro del 26 giugno 1967, indisse il Sinodo di Cracovia l’8 maggio 1972, dopo un anno di intensi preparativi: fu un Sinodo quanto mai partecipato e coinvolgente, durato per sette anni e concluso dallo stesso Giovanni Paolo II, ormai Papa, l’8 giugno 1979, nel nono centenario di San Stanislao.
Stanisław è anche il nome del suo fedelissimo Segretario, Mons. Dziwisz, a noi tutti tanto caro, che ha condiviso la sua vita per 39 anni e ora gli succede sulla Cattedra di Cracovia, dopo il Cardinale Franciszek Macharski, a sua volta amico di sempre e collaboratore prezioso di Giovanni Paolo II. Se mi è lecito azzardare una sintesi dei venti anni nei quali Karol Wojtyła è stato Vescovo a Cracovia, direi che, sulla base di una totale fiducia in quella Divina Misericordia di cui egli si era sempre più compenetrato, in particolare attraverso l’incontro con l’esperienza mistica di Suor Faustina Kowalska, da lui poi proclamata Beata il 18 aprile 1993 e Santa il 30 aprile 2000, egli seppe fare sintesi della sua forza intellettuale e del suo genio artistico con quell’amore appassionato per Cristo, per la Chiesa e per gli uomini che lo Spirito Santo aveva infuso in lui.
Così egli è riuscito ad essere un Pastore capace di comprendere, di guidare e di far crescere il suo clero e il suo popolo, pure in situazioni di gravissima difficoltà. Ha saputo non soltanto resistere alla pressione del regime, ma minarne le fondamenta, sul piano umano e culturale oltre che spirituale, secondo quelle grandi intuizioni che poi ha raccolto nell’ Enciclica Centesimus Annus. È stato il Vescovo che ha e che deve avere coraggio, come egli stesso ha scritto nell’ultimo capitolo del libro “Alzatevi, Andiamo!”, e nel medesimo tempo è stato l’uomo e il testimone dell’amore e del perdono, che vince il male con il bene, secondo la parole dell’Apostolo Paolo (Rom 12,21) riprese nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace.
Il 16 ottobre 1978, secondo il disegno della Provvidenza di Dio, Karol Wojtyła è stato eletto Vescovo di Roma e Pastore universale della Chiesa. I ventisei anni e mezzo del suo Pontificato sono scolpiti nella memoria e nel cuore di ciascuno di noi e non hanno bisogno di essere riproposti qui. Ricordiamo tutti, infatti, quel suo forte invito all’inizio solenne del suo ministero, il 22 ottobre 1978: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. Un invito al quale egli per primo è rimasto
sempre fedele.
Ricordiamo i suoi innumerevoli viaggi apostolici, per portare l’annuncio di Cristo, nostro unico Salvatore, in ogni parte della terra. Le sue visite alle parrocchie di Roma, l’affetto e la premura costante con cui ha guidato questa Diocesi, attraverso il Sinodo, la Missione cittadina, il Grande Giubileo che ha coinvolto il mondo intero. Ricordiamo la straordinaria iniziativa pastorale delle Giornate Mondiali della Gioventù, che hanno aperto una nuova e grande via all’incontro dei giovani con Cristo. E come dimenticare quell’amore e quella sollecitudine per l’umanità comunque minacciata che lo ha portato ad un’opera instancabile per scongiurare le guerre e ristabilire la pace, per assicurare ai popoli più poveri, agli ultimi della terra, una speranza di vita e di sviluppo, per difendere la dignità intangibile di ogni esistenza umana, dal concepimento al termine naturale, per tutelare e promuovere la famiglia e l’autentico amore umano.
Ancora, non possiamo dimenticare la lungimiranza e il coraggio con cui ha contribuito ad abbattere il muro che divideva l’Europa e poi a richiamare alle sue radici cristiane l’Europa stessa. La generosità con cui si è speso per l’unità dei cristiani, avvertita da lui come una precisa e non declinabile volontà di Gesù. L’impegno che ha profuso perché le religioni siano portatrici di pace tra i popoli. La sincerità disarmante con cui ha chiesto perdono per i peccati dei figli della Chiesa e al contempo la forza e la tenacia con cui ha difeso e proclamato il legame indissolubile della Chiesa con Cristo e l’integrità della dottrina cattolica.
Di questa dottrina, della sua verità e della sua rilevanza per l’uomo di oggi, sono espressione insigne le sue 14 Encicliche, il Catechismo della Chiesa Cattolica e tutti gli altri suoi documenti e discorsi. Della sua sollecitudine per la collegialità dell’Episcopato, l’unità e la vita della Chiesa, testimoniano le 15 Assemblee del Sinodo dei Vescovi da lui convocate, come anche la promulgazione dei Codici di diritto canonico della Chiesa latina e delle Chiese orientali. Alla radice di tutta questa instancabile azione apostolica sta chiaramente l’intensità e la profondità della preghiera di Giovanni Paolo II, di cui tanti di noi sono diretti testimoni, quell’intima unione con Dio che lo ha accompagnato dalla fanciullezza fino al termine della sua esistenza terrena.
Voglio solo ricordare le parole che egli ha pronunciato all’inizio del suo Pontificato, il 29 ottobre 1978, al Santuario della Mentorella: “La preghiera … è … il primo compito e quasi il primo annuncio del Papa, così come è la prima condizione del suo servizio nella Chiesa e nel mondo”. Ma vi è un’ulteriore dimensione, ugualmente decisiva, del rapporto che ha unito Karol Wojtyła a Cristo Salvatore e all’umanità da Lui redenta. È il rapporto del sangue. Nel breve poema Stanisław, composto pochi giorni prima del Conclave che lo avrebbe eletto Papa, egli ha scritto: “Se la parola non ha convertito, sarà il sangue a convertire”.
Il proprio sangue Giovanni Paolo II lo ha realmente versato in Piazza San Pietro, il 13 maggio 1981, e poi di nuovo, non il sangue ma la vita intera, ha offerto durante i lunghi anni della sua malattia. Da ultimo la sua sofferenza e la sua morte, la sua benedizione ormai senza voce dalla finestra, al termine della S. Messa di Pasqua, sono state per l’umanità intera una testimonianza straordinariamente efficace di Gesù Cristo morto e risorto, del significato cristiano della sofferenza e della morte e della forza di salvezza che in esse può trovare dimora, in ultima analisi del vero volto dell’uomo redento da Cristo. Perciò i giorni delle sue esequie sono diventati, per Roma e per il mondo, giorni di straordinaria unità, di riconciliazione, di
apertura dell’anima a Dio.
L’allora Cardinale Joseph Ratzinger ha incentrato la sua omelia, alla Messa esequiale di venerdì 8 aprile in Piazza San Pietro, sulla parola “seguimi”, che Gesù risorto ha rivolto a Pietro quando lo incaricava di pascere il suo gregge (cfr Gv 21,15-23), individuando nella sequela di Cristo la sintesi dell’esistenza di Karol Wojtyła, Giovanni Paolo II, per poi concludere: “Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice”.
Sì, questa è anche la nostra certezza e perciò chiediamo al Signore, con tutto il cuore, che la Causa di Beatificazione e Canonizzazione che questa sera ha
inizio possa giungere molto presto al suo coronamento. Le tante testimonianze che continuamente ci giungono riguardo alla santità di vita del compianto Pontefice e alle grazie impetrate attraverso di lui confermano questa nostra preghiera.
Termino dicendo, come italiano, un grandissimo e specifico grazie a Giovanni Paolo II per l’amore e la sollecitudine che egli ha avuto non solo per Roma ma per tutta la sua “seconda Patria”, l’Italia, e ringraziando dal profondo del mio animo la Chiesa sorella di Cracovia e tutta l’amata Nazione polacca, nelle quali Karol Wojtyła ha ricevuto la vita, la fede e la sua mirabile ricchezza cristiana e umana, per essere così donato a Roma e al mondo intero.