ROMA, domenica, 24 aprile 2005 (ZENIT.org).– Tra la fine del 1943 e i primi mesi del 1948, in Italia si assistette alla giustizia sommaria di più di un centinaio di sacerdoti, colpevoli – nella maggior parte dei casi – di aver stigmatizzato dal pulpito “le ruberie e gli eccidi compiuti dai partigiani” o di essersi opposti “alla politicizzazione in senso comunista della Resistenza”.
Autore di un libro pubblicato recentemente da "Piemme" col titolo di “Storia dei preti uccisi dai partigiani” (319 pagine, Euro 14,90), Roberto Beretta, giornalista di “Avvenire” e scrittore, in una intervista rilasciata a ZENIT racconta la storia di questi sacerdoti, e chiede che gli venga “restituita la dignità defraudata da tante censure e silenzi”.
Tema scottante e poco noto quello dei sacerdoti uccisi dai partigiani. Quante furono le vittime e quali le motivazioni di questa violenza omicida?
Beretta: 130 sacerdoti uccisi tra l’8 settembre 1943 (giorno dell’armistizio) e il 18 aprile 1948 (data delle elezioni vinte dalla Democrazia Cristiana): ecco le cifre della “strage nascosta” compiuta dalla Resistenza prima e dopo la fine della guerra.
Si è parlato infatti, anche se non molto, delle vittime del famoso “triangolo rosso” emiliano tra Reggio, Bologna e Ferrara; ma nessuno finora aveva messo insieme e forse nemmeno immaginava che fossero così numerose le storie di preti uccisi dai partigiani nel Nord Italia.
Togliamo pure una cinquantina di sacerdoti assassinati ai confini orientali, tra Venezia Giulia ed ex Jugoslavia, in maggioranza dai partigiani di Tito: costoro meriterebbero un libro a sé, per la commistione di cause ideologiche e nazionalistiche nel loro assassinio.
Ma ciò che forse colpisce di più è che sono stati ben 80 i sacerdoti ammazzati nelle “civilissime” e “democratiche” regioni del Nord Italia: 28 nell’Emilia Romagna del suddetto “triangolo”, certo, ma ben 14 in Toscana, 12 nel “partigiano” Piemonte, 5 in Liguria, 4 nelle Marche, 3 in Lombardia e altrettanti nel Veneto…
C’era un piano preordinato o furono vittime dell’odio ideologico contro la fede e contro la Chiesa cattolica?
Beretta: Questa è la domanda che spero affiori alla mente di chi scorrerà la mia ricerca. Perché sono stati uccisi questi preti? Erano davvero così fascisti da aver bisogno di essere “epurati”, nella foga della liberazione? Beh, bisogna distinguere. Fascisti – nel senso di un’adesione poco critica e di accettazione di cariche dal regime – erano 6 o 7, non di più: forse nei loro confronti si può capire (non certo giustificare!) la brutale esecuzione senza processo né difesa. Poi c’è una dozzina di cappellani militari della Rsi: ma si può giudicare “collusione col fascismo” la scelta di portare assistenza spirituale ai soldati di Salò? Restano comunque gli altri 60, e viene da chiedersi quali fossero le loro colpe.
Alcuni furono uccisi per rapina, pare; altri per vendetta personale o perché erano “padroni” (il Pci aveva lasciato credere ai suoi militanti che, per preparare la “nazione socialista” del futuro, bisognasse far fuori i capitalisti…); parecchi perché dal pulpito avevano invitato i giovani ad arruolarsi nell’esercito di Salò – sembrava a molti il male minore – oppure avevano stigmatizzato le ruberie e gli eccidi compiuti dai partigiani.
C’era un progetto preordinato in tutto ciò? Difficile dimostrarlo. Difficile del resto che Togliatti o i massimi vertici del Pci avessero ordinato una strategia del genere. Di certo coprirono le stragi partigiane, facendone fuggire i responsabili all’estero (vedi il caso di don Pessina ucciso a Correggio nel 1946), allargando le maglie dell’amnistia, intimidendo i testimoni e scoraggiando i processi.
Diversi tra i sacerdoti uccisi erano stati cappellani e attivi nella Resistenza contro l’occupazione nazifascista dell’Italia.
Perché divennero vittime di coloro che avevano aiutato?
Beretta: Questi sono i casi politicamente più sconcertanti. Qualcuno dei “miei preti”, infatti, fu addirittura ucciso perché era cappellano dei partigiani, quelli “bianchi” o cattolici, e si opponeva alla politicizzazione in senso comunista della Resistenza.
C’è il caso di un francescano veneto che operava in Piemonte, padre Ottorino Squizzato: attirato con il suo comandante in un agguato e trucidato da partigiani comunisti. Il caso di don Attilio Pavese, dalle parti di Tortona: lo fecero fuori col pretesto di un tentativo di fuga dei prigionieri che stava confessando, prima che venissero fucilati.
Ma forse il più commovente è il caso di don Giuseppe Jemmi, vice-parroco a Felina sull’Appennino reggiano: andò egli stesso a cercare i partigiani suoi assassini, che non l’avevano trovato in canonica, pensando che avessero bisogno di lui. Accortosi che l’avrebbero ucciso, scappò ma lo ripresero; altri partigiani suoi amici cercarono di liberarlo facendoselo affidare; ma nulla poté salvarlo: fu ucciso a 26 anni, a una settimana dal 25 aprile, perché aveva osato dire in predica che chi uccide è sempre un assassino, anche se porta la camicia rossa.
Parafrasando la storica Elena Aga Rossi, in una parte del libro lei sostiene che i preti uccisi dalla Resistenza debbano essere per lo meno proclamati “martiri del 18 aprile”, ovvero delle elezioni che nel 1948 impedirono che l’Italia diventasse uno Stato socialista.
E’ evidente che in moltissimi casi i sacerdoti furono uccisi per la loro fede in Cristo, e infatti la Chiesa sta valutando la loro possibile beatificazione, ma mi sembra di capire che lei sia favorevole a veder riconosciuto loro il “martirio”, com’è avvenuto per le vittime della persecuzione religiosa del 1936-1939 in Spagna. Può precisarci il suo punto di vista?
Beretta: No, in realtà io mi limito a farmi una domanda, la seguente: la memoria di questi ed altri eccidi “rossi” ha influito, e come, sulle elezioni del 1948? La mia (e di altri studiosi ben più qualificati di me) risposta è affermativa: in un clima emotivo molto caldo come quello che precedette le elezioni del 18 aprile, credo che il ricordo di ingiustizie così palesi come l’assassinio impunito di tanti innocenti sacerdoti giocò, alla fine, contro coloro che li avevano voluti o coperti.
In questo senso considero i miei preti “martiri del 18 aprile”: il loro sacrificio, cioè, non è stato vano, anzi si può accostare a quello di chi perse la vita nella Resistenza perché l’Italia tornasse ad essere libera e democratica. Quanto al riconoscimento canonico del martirio, quello spetta alla Chiesa. La quale non sempre ha dimostrato il suo coraggio e tanto meno la sua riconoscenza verso i preti assassinati: a volte, infatti, li ha completamente dimenticati, mostrando di credere alle calunnie che gli assassini facevano circolare per giustificare il loro delitto (di solito si diceva che i sacerdoti uccisi erano spie, o fascisti, o che avevano un amante: così la vittima veniva uccisa anche nella memoria…).
Ancora oggi, a 60 anni di distanza dai fatti avvenuti, c’è chi ha paura di parlare, chi preferisce “lasciar perdere”. Solo in alcuni casi è in atto un recupero di queste figure, compresi alcuni processi di beatificazione in progetto.
A 60 anni dalla Liberazione del nostro Paese, lei chiede di restituire alla memoria delle vittime l’onore della verità. Auspica quindi che i responsabili di quelle ideologie, che portarono all’assassinio dei sacerdoti, facciano un pubblico mea culpa?
Beretta: Non pretendo tanto: se la vedano con la loro coscienza. Però, cercando in infinite telefonate e contatti le loro storie, ho imparato a voler bene ai “miei preti”. Ecco, vorrei che a loro fosse restituita la dignità defraudata da tante censure e silenzi.
Alcuni di questi preti sono stati “prelevati” di notte e mai più ritrovati; per pochissimi è stato fatto un processo; molti risultano tuttora diffamati in modo gravissimo; di quasi nessuno si può parlare senza sentirsi dare del “fascista” o del “nostalgico”; ancora oggi, nell’indagare queste storie, ho incontrato paura ed omertà.
La nostra Repubblica è cresciuta portandosi dentro ferite profonde come queste. E credo che non potrà mai essere quella che gli stessi patrioti della Resistenza sognavano se non avrà il coraggio di affrontare tali nodi.
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Apr 24, 2005 00:00