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La 17enne di Milano, incinta di quasi cinque mesi, ha abortito il 13 aprile alla clinica “Mangiagalli”, contro il parere della madre. L’intervento è iniziato in tarda mattinata e ha richiesto diverse ore. Sì, perché in epoca così avanzata della gravidanza l’aborto “terapeutico” avviene attraverso un parto indotto, come per una nascita. E di fatto alcuni bambini della stessa età gestazionale nascono e forse sopravvivono.

Un primo dato inconfutabile nella desolante vicenda, dunque, è che il frutto di quel grembo era un bambino che nessuno, nemmeno gli abortisti più feroci, potevano definire un “grumo di cellule” o “solo un embrione” o “un’appendice materna”. Tali definizioni non possono mai essere applicate ad un essere umano, per quanto piccolo, fosse anche un unicellulare, invisibile zigote. Ma raggiungono il colmo dell’assurdo quando sono applicate ad un essere umano visibilissimo, forse capace di vita autonoma fuori dall’utero, così “evidente” nella sua umanità da convincere persino chi, come Giovanni Sartori, sostiene che prima della nascita la persona “non esiste” (cfr. G. Sartori, Ma l’anima non ha certezze, “Corriere della Sera”, 16 aprile 2005).

Si sono levate molte voci che, solidali con la scelta abortiva della giovane, ripetevano come un ritornello quanto fosse difficile, anzi, inaccettabile per una minorenne avere un figlio e per lo più “gravemente malformato”. In realtà, non sono stati forniti, dagli organi di informazione, elementi sufficienti a dare una simile valutazione. Intanto perché il tipo e l’entità di tale malformazione resta avvolta nel mistero, coperta da uno stretto riserbo per “tutelare della privacy” della ragazza. Almeno ufficialmente. Chissà che invece non si sia trattato di una patologia curabile, magari guaribile, magari di una malformazione cardiaca simile a quella di un neonato operato con successo in questi giorni a Torino, a pochi giorni di vita. Non lo sapremo mai, ma il dubbio resterà, forse anche in fondo ai pensieri della giovanissima che ha smesso di essere mamma.

D’altra parte, essere genitori non significa realizzare il sogno del figlio perfetto, ma accogliere con amore un dono immenso, quello appunto di un altro che viene da noi ma è diverso da noi: è il proprio bambino, un bambino comunque diverso da come era stato immaginato, e che quando nasce sorprende sempre un po’, per il fatto di essere così inequivocabilmente unico. Nessuna madre sostituirebbe mai il proprio figlio con un altro migliore, quali che siano i sacrifici e le sofferenze di cui eventualmente quel figlio è causa. Il figlio malato si cura con attenzione e sollecitudine; per lui si spera, si lotta, si piange, ma non lo si abbandona.

Perché ciò non dovrebbe valere nel caso di un feto “malformato”? Forse perché non lo si considera ancora un figlio? Una madre in gravidanza non riesce psicologicamente (oltre che fisicamente, come è ovvio) a trattare il feto che ospita dentro di sé come se non fosse un figlio. Alcuni studi sulle donne che valutano la possibilità di abortire nel primo trimestre di gravidanza – indipendentemente da fatto che poi abortiscano o meno – mostra come queste madri cerchino di istituire una sorta di distacco affettivo dal bimbo che portano in grembo, e come tale “sforzo” risulti gravemente stressante per la donna, al punto da creare ansie e sensi di colpa che si protraggono anche dopo la (eventuale!) nascita del piccolo.

Per non parlare dei dati, ampiamente condivisi, sulla gravità della sindrome post-abortiva. La mamma 17enne è stata aiutata ad abortire perché si diceva che quella triste esperienza – la gravidanza di un figlioforse malformato – l’avrebbe segnata per tutta la vita. È certo che avere un figlio, sano o malato, segna per tutta la vita. Il punto è che aver eliminato questo figlio, sano o malato che sia, non ha tolto il “segno”, ma ha scavato una ferita profonda e insanabile nella memoria e nella coscienza della ragazza, che in questo modo non è stata affatto aiutata.

L’aiuto doveva essere diverso. Doveva essere volto prima di tutto a dissipare le comprensibili paure che la aggredivano, a rassicurarla, a infonderle speranza e fiducia. Una mano gliela avevano tesa in molti: è stata commovente la generosità con cui varie associazioni e famiglie si sono offerte di tenere il bambino, qualunque fosse il suo stato di salute. Facevano sul serio. Ma probabilmente la ragazza era giunta a quel grado di confusione e di angoscia che imprigiona, rendendo impossibile una scelta libera e responsabile.

Questo stato, gravato in più dalle pressioni mediche a “fare in fretta” - perché il tempo passava e il feto “cresceva” - è stato chiamato “grave rischio psicofisico”. E in virtù di questo rischio è stato possibile, per il tribunale dei minori, applicare la legge 194 sull’interruzione di gravidanza. L’agenzia di stampa ADKRONOS, infatti, riferiva il 13 aprile che “i ginecologici della clinica avevano espresso parere di urgenza rilevando che le condizioni psicofisiche della giovane rendevano necessario intervenire quanto prima”.

Questa è la “terapeuticità” dell’aborto: indurre una donna a liberarsi del suo bambino nella vana illusione di “stare psicologicamente meglio” e sopprimere un bimbo in utero, di quasi cinque mesi, forse viabile, solo perché presumibilmente malato. Ecco come la trasformazione di un delitto in diritto – come diceva Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae – ha legittimato l’aborto selettivo, cioè una gravissima pratica eugenetica che offende e mortifica tutti i disabili, qualificandoli in fondo tutti come “nascite erronee”.

Così, la “cultura della morte” avanza: nell’improbabile attesa che l’onnipotenza tecnologica depuri l’umanità attraverso l’aborto, l’eutanasia, la diagnosi e la selezione pre-impianto, i “sottouomini” (Untermenschen), che disturbano la marcia verso il “mondo nuovo”, vanno eliminati.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]