George Weigel sull’impronta lasciata da Giovanni Paolo II

“Un uomo convinto che Gesù Cristo è la risposta”

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NEW YORK, martedì, 5 aprile 2005 (ZENIT.org).- Il mondo deve ancora apprezzare appieno Giovanni Paolo II come “il più grande testimone di Cristo” del XX secolo, afferma il biografo del Papa, George Weigel.

In questa intervista rilasciata a ZENIT, Weigel, “senior fellow” all’ Ethics and Public Policy Center di Washington e autore di “Testimone della speranza – La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo”, ha delineato uno spaccato della vita del Pontefice scomparso sabato 2 aprile.

In che modo Giovanni Paolo II ha conferito alla Chiesa un importante ruolo negli affari internazionali?

Weigel: Il papato da tempo ha rivendicato per la Chiesa una “portata” universale. Giovanni Paolo II ha dato a questa rivendicazione un significato concreto ponendosi come una sorta di figura morale di riferimento per il mondo intero. E, così facendo, ha ricordato al mondo che anche gli “affari internazionali” sono sempre suscettibili di una valutazione morale.

Contrariamente a quanto insegnano i fautori della “Realpolitik”, la politica internazionale non è un terreno “amorale”; nulla di umano può essere collocato al di fuori dei confini di una valutazione morale – neanche la politica tra le nazioni. Dubito che il mondo abbia accolto in misura sufficiente questa impostazione, ma è su questa che Giovanni Paolo II ha insistito molto.

Quali sono stati i suoi più grandi risultati nell’ambito della geopolitica, della dottrina sociale, della teologia, dell’ecclesiologia?

Weigel: Il ruolo di regia svolto da Giovanni Paolo II nel crollo del comunismo europeo – aver acceso una rivoluzione nelle coscienze che alla fine ha portato alla rivoluzione politica non violenta del 1989 – rappresenta un immenso risultato.

Ma non dobbiamo dimenticare il ruolo del Papa nella risoluzione della controversia relativa al Canale di Beagle tra l’Argentina e il Cile, che minacciava di esplodere in una vera e propria guerra; né dobbiamo dimenticare il suo ruolo svolto nell’instaurazione della democrazia in America latina, e il suo sostegno alla transizione democratica nelle Filippine e in Corea del Sud.

La difesa dell’universalità dei diritti umani, pronunciata nel suo discorso del 1995 alle Nazioni Unite, ha anch’essa rappresentato un contributo molto importante, in un momento in cui l’idea dei “diritti umani universali” veniva negata o irrisa dai postmoderni, dagli islamici, dai comunisti indefessi e dalle autorità del Estremo Oriente.

L’Enciclica del Papa “Centesimus Annus”, del 1991, ha dato alla dottrina sociale cattolica una nuova sensibilità empirica, con particolare riguardo alle questioni economiche.

Alcuni cattolici socialmente attivi avevano per lungo tempo sostenuto la possibilità di costruire una “terza via” che non era né quella socialista, né quella capitalista. La “Centesimus Annus” ha riconosciuto che un’economia di mercato, adeguatamente regolata dalla legge, costituiva di fatto questa “terza via”. Anche in questo caso, dubito che i sostenitori di questa mitica “terza via” abbiano accettato questo punto di vista.

La “teologia del corpo” è stata, a mio avviso, la realizzazione teologica più creativa di Giovanni Paolo II, anche se vi è un’enorme quantità di materiale teologico che la Chiesa dovrà digerire, contenuto in tutte le Encicliche, le Lettere apostoliche, le Esortazioni post-sinodali e le udienze di Giovanni Paolo II.

La sua teologia della Misericordia Divina, ad esempio, rimane tuttora un terreno da esplorare, così come la teologia mariana e il suo insegnamento secondo cui il “profilo mariano” nella Chiesa – la discepolanza – sia la realtà più fondamentale della Chiesa, ancor più essenziale del suo profilo “petrino”, ovvero della sua struttura gerarchica.

Per quanto riguarda l’ecclesiologia ritengo importante che Giovanni Paolo II abbia “riportato in equilibrio” la Chiesa in un momento in cui le Conferenze episcopali nazionali rischiavano di diventare come degli anonimi “sinodi” simili a quelli del modello ortodosso. Questo, naturalmente, è l’esatto contrario di ciò di cui il Papa è stato accusato per più di 20 anni.

A suo avviso, qual è stato per Giovanni Paolo II il più grande “lavoro incompiuto” del suo pontificato?

Weigel: Certamente non credo di poter parlare in nome del defunto Pontefice, ma come biografo mi sembra che la più grande “opera incompiuta” del suo pontificato riguardi le sue iniziative ecumeniche, ed in particolare quelle relative alla Chiesa ortodossa.

Egli sembra di aver creduto veramente, nel 1978, che la rottura del secondo millennio tra Roma e il Cristianesimo orientale, che si era formalizzata nel 1054, poteva essere ricucita all’inizio del terzo millennio. Questo come sappiamo non è avvenuto.

Il perché ciò non sia avvenuto, a mio avviso, può aver a che fare con il fatto che il mondo ortodosso non si trova nelle medesime condizioni teologiche o psicologiche del 1054; il “non essere in comunione con il Vescovo di Roma” è diventato per molti ortodossi parte integrante della loro stessa identità.

Finché questo non cambierà e finché i cristiani ortodossi non sentiranno il desiderio di essere uniti insieme a Roma nel banchetto eucaristico che invece Giovanni Paolo II sentiva fortemente nei confronti degli ortodossi, non vi potrà esservi un progresso ecumenico significativo tra i cristiani d’Oriente e quelli di Roma. E tutto ciò è assai triste.

Potrebbe essere frutto del fatto che Giovanni Paolo si poneva come precursore della storia e di ciò che la storia era in grado di concedere al momento.

Il mondo è stato in grado di apprezzare il suo straordinario pontificato?

Weigel: Egli è stato apprezzato come uomo di cultura, uomo di grande simpatia umana, uomo di grande coraggio, integrità e compassione. Mi domando però se sia stato apprezzato per ciò che di fatto era: il più grande testimone cristiano del secolo scorso.

Tutto ciò che il Papa ha realizzato scaturiva da quell’unico fatto supremo: è stato un uomo che credeva con tutto se stesso che Gesù Cristo è la risposta al mistero di ogni vita umana.

Che Giovanni Paolo II abbia avuto un ruolo nel crollo del comunismo nell’Europa orientale; che abbia aiutato ad approfondire la teologia della Chiesa sul matrimonio e sulla sessualità; che abbia portato nuovo slancio pastorale e intellettuale alla Cattedra di San Pietro, sono certamente tutte grandi eredità del suo pontificato. Tuttavia, dopo un pontificato di 26 anni, la cultura della morte è peggiorata, con l’aborto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali, l’eutanasia, ecc. È pretendere troppo pensare che un Papa possa cambiare tutto questo, almeno durante la propria vita terrena?

Weigel: Sì, e dovremmo sempre ricordare – come ha sempre fatto Giovanni Paolo – che la Chiesa non è il Papa da solo.

Il fallimento rispetto alla cultura della morte è il fallimento di tutte le persone appartenenti alla Chiesa che hanno avuto l’opportunità di costruire una cultura della vita e non l’hanno fatto.

Lo Spirito Santo, nel 1978, ha ispirato i Cardinali nella loro scelta di un nuovo Papa proveniente della Polonia. Quali sono state le conseguenze legate alla rottura di una tradizione plurisecolare che vedeva solo Papi italiani?

Weigel: Spero che ciò abbia sancito un ampliamento dello spettro di candidati, in cui la nazionalità, l’etnia e la razza contino poco, e in cui predomini nella valutazione dei Cardinali la questione più importante per la scelta di ogni nuovo Papa: è questo un uomo di Dio che può ispirare gli altri ad una profonda fede?

Come biografo papale, cosa l’ha colpita di più della sua persona?

Weigel: La sua straordinar
ia energia e il fatto che egli guardava sempre avanti e si domandava sempre “cosa dovremmo fare adesso?”.

Un’energia non di un uomo frenetico o emotivo, quanto piuttosto un’energia silenziosa e costante che sgorgava dalla sua vita interiore, dalla sua vita tutta, straordinariamente ricca di preghiera.

Ora che è scomparso, il mondo sarà disposto ad ascoltare veramente il messaggio di Giovanni Paolo II?

Weigel: Speriamo. Perché c’è molto da ascoltare.

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ZENIT Staff

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