Eutanasia e dignità del morente: verso la diffusione della "cultura" eugenetica

ROMA, domenica, 3 aprile 2005 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica la risposta alla domanda di un lettore da parte della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

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Gent.le dottoressa Navarini,
potrebbe delineare brevemente la differenza tra stato vegetativo e coma? Grazie, P. Enzo icms.

Caro P. Enzo,

sembra innaturale – e richiede un grande sforzo – parlare ora di qualcosa che non sia la morte del Santo Padre Giovanni Paolo II. Eppure, anche nell’adoperarsi per portare avanti con fedeltà e determinazione l’evangelizzazione della cultura e la difesa della vita umana si onora la memoria di colui che ha guidato in modo straordinario la Chiesa universale in questi ventisei anni.

Vengo dunque alla sua importante domanda. La differenza fra stato vegetativo e coma è stata ben delineata dal professor Gian Luigi Gigli, Presidente della Federazione Internazionale delle Associazioni Mediche Cattoliche, in vari suoi contributi scientifici, in particolare in un articolo apparso sulla rivista «Medicina e Morale» (cfr. G.L. Gigli, « Lo Stato Vegetativo Permanente»: oggettività clinica, problemi etici e risposte di cura, in «Medicina e Morale», 2/2002) e nel recente volume di atti del convegno organizzato dalla Pontificia Accademia per al Vita su « Life-sustaining treatments in vegetative state: scientific advances and ethical dilemmas » (Città del Vaticano, 17-20 marzo 2004). In occasione dello stesso convegno Giovanni Paolo II pronunciò un Discorso di esemplare chiarezza per la riflessione sul paziente in stato «vegetativo».

Riassumendo brevemente: lo stato vegetativo può verificarsi all’uscita dal coma ed è caratterizzato da una condizione prolungata di vigilanza senza apparente consapevolezza da parte del paziente di se stesso o dell’ambiente circostante. Sembra incapace di interagire con gli altri o di reagire a stimoli adeguati. La fisiopatologia di questo disturbo non è ancora chiara e le lesioni cerebrali che possono sostenerlo sono di diverso tipo e in diverse sedi. Il paziente, pur alternando il sonno alla veglia, non manifesta risposte dotate di apparente significato. Non è un malato terminale e non ha bisogno di macchine per il sostegno delle funzioni vitali. Tuttavia, ha bisogno di cure, in particolare di essere idratato e nutrito.

Bisogna chiaramente distinguere lo stato vegetativo dalla morte encefalica, dal coma, dalla sindrome «locked-in», dal minimally conscious state (stato cosciente minimale). Non si può neppure identificare del tutto stato vegetativo e morte corticale, dal momento che nel paziente in stato vegetativo alcune aree della corteccia possono essere funzionanti (cfr. « Per la Chiesa il paziente in stato vegetativo è una persona umana » , Zenit, 28 febbraio 2005). Dunque, il coma, nei suoi vari gradi di “profondità”, è una condizione temporanea che può evolvere in tre direzioni: nel recupero della coscienza, nella morte o nel cosiddetto stato vegetativo.

Quali conseguenze comporta, sul piano etico e assistenziale, la distinzione fra coma e stato «vegetativo»? Si tratta in entrambi i casi di vita umana (e di vita debole), pertanto sono dovute ad entrambi i tipi di paziente le cure «normali», fra cui trovano certamente posto l’alimentazione e l’idratazione, che in questi casi avvengono sempre (nel coma) o quasi sempre (nello stato «vegetativo») per via artificiale. Ci sono differenze a livello di organizzazione sanitaria: l’assistenza al paziente in stato «vegetativo», a differenza di quella al comatoso, si protrae per molto tempo, e richiede adeguamento nelle strutture, nel personale e nel supporto alle famiglie. Come il paziente in coma, invece, richiede un continuo monitoraggio delle condizioni cliniche e un’attenzione alla riabilitazione, dal momento che la condizione «vegetativa» è, come bene chiarisce Gigli nell’articolo citato, una diagnosi, non una prognosi, e come tale non indica una condizione necessariamente irreversibile.

Da qui l’uso improprio dell’espressione stato vegetativo permanente, per descrivere uno stato che sarà sostanzialmente immodificabile. Nell’avverbio sostanzialmente, tuttavia, è racchiuso un 15% di pazienti in stato «vegetativo» che anche dopo un anno dall’insulto anossico che ha portato alla perdita di coscienza recuperano le loro facoltà mentali, e tornano addirittura alla normalità (cfr. C. Navarini, Il paziente in «stato vegetativo»: un caso di manipolazione del linguaggio, ZENIT, 25 marzo 2004).

Ciò non va confuso con la morte cerebrale totale, che consiste nella perdita totale e irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (corteccia cerebrale, tronco cerebrale e cervelletto) e che corrisponde alla perdita definitiva dell’unitarietà funzionale dell’organismo, che cessa di essere un «tutto» e dunque è morto. La morte cerebrale totale è un criterio attualmente accettato dalla comunità scientifica di accertamento della morte biologica, analogamente al criterio cardiaco e a quello morfologico. Quando si sente dire, pertanto, che il paziente in stato vegetativo è «clinicamente morto» o ha «l’elettroencefalogramma piatto» o infine che è in «morte cerebrale», si tratta di tentativi manipolatori di definire il malato praticamente morto, così da autorizzare l’eutanasia non consensuale. Talora facendo credere che ogni supporto vitale, anche quello minimo come l’alimentazione e l’idratazione, siano forme di accanimento terapeutico, o che il malato »avrebbe preferito» morire piuttosto che permanere in condizioni di incoscienza.

Poiché che nel paziente in stato «vegetativo», soprattutto dopo circa un anno dall’evento traumatico che ha causato il danno cerebrale (tre mesi in conseguenza di evento non traumatico), le speranze di ripresa sono molto scarse, la tentazione che si insinua è infatti quella di ritenere che la vita in tali condizioni «non sia più degna di essere vissuta». È questo infatti un ritornello comune nei fautori dell’eutanasia.

Pare di risentire, negli accorati appelli alla morte dei movimenti pro-eutanasia, le terribili parole di F.W. Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli: «Il malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo».

Bisogna riconoscere che il linguaggio oggi utilizzato dai mezzi di comunicazione contribuisce spesso a ingenerare confusione sui temi legati all’eutanasia. Per Terri Schiavo, ad esempio, sono state utilizzate definizioni cliniche scorrette, come stato vegetativo permanente, coma profondo ed anche altre più fantasiose come «coma vegetativo», «stato quasi vegetativo», «coma permanente». Questa superficialità nella «gestione» delle definizioni cliniche rappresenta già un primo ostacolo ad una corretta impostazione della questione dell’eutanasia, perché non aiuta a capire i termini del problema e viene frequentemente strumentalizzata, associando ad esempio concetti come quello di coma o di stato vegetativo a quelli di accanimento terapeutico o di dignità della morte.

Nei dibattiti sull’eutanasia, si respira pesantemente quest’atmosfera di malintesi, di ipocrisia, di ignoranza che ha caratterizzato la vicenda di Terri Schiavo. Si distinguono in modo impreciso termini come lasciar morire e aiutare a morire, come eutanasia attiva e passiva, come diritto di morire e dignità della morte.

Nel mirabile tesoro di insegnamenti di bioetica lasciatici da Giovanni Paolo II, si trova anche la definizione più chiara che sia mai stata data sull’eutanasia, ripresa per questo anche da buona parte del mondo scientifico. Si trova nella
sua Lettera Enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana Evangelium Vitae (25 marzo 1995), riproponendo in modo quasi identico quella formulata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella Dichiarazione sull’eutanasia Iura et Bona, (1980): per eutanasia si intende «un’azione o omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» ( Evangelium Vitae, n. 65).

È ancora Giovanni Paolo II a chiamare con il loro vero nome i due possibili tipi di eutanasia, quella volontaria, cioè su richiesta del paziente, e quella non volontaria o non consensuale, chiamata anche “uccisione pietosa” perché effettuata su paziente che non ne ha fatto richiesta. Diceva Giovanni Paolo II, nell’ Evangelium Vitae, che nell’eutanasia si cela sempre una volontà suicida e/o omicida (cfr. ibidem). Nell’eutanasia non consensuale c’è un omicidio puro e semplice; nell’eutanasia volontaria c’è un omicidio da parte del medico che esegue l’atto e un intento suicida da parte del paziente consenziente o committente; nell’eutanasia su esecuzione di direttive anticipate o «testamento di vita» c’è l’atto omicida e una presunta volontà suicida.

In ogni caso, viene radicalmente frainteso il valore della vita umana, confuso con il possesso di determinate caratteristiche, e in particolare di un certo grado di benessere e di piacere, mancando i quali verrebbe meno la dignità <i> propriamente umana.

È per tale ragione che molti fautori dell’eutanasia asseriscono che, in condizioni di irrimediabili dolore e prostrazione, non siamo più fronte a persone, ma «soltanto» ad esseri umani. L’argomentazione è simile a quella con cui, all’inizio della vita umana, mancando ancora la coscienza o una sufficiente esperienza sensibile, si vuole negare la dignità personale dell’embrione. In realtà, la dimensione personale non coincide non le singole manifestazioni della persona, ma con la vita umana stessa, che è in quanto tale esistenza di un’anima razionale personale.

Altri, pur riconoscendo al morente la dimensione personale, gli attribuiscono il «diritto» di decidere i tempi e i modi della propria morte. Si crede così di difendere la «libertà» dell’uomo. Tuttavia, la libertà umana, bene di incommensurabile valore, non è assoluta: l’uomo è libero di seguire la legge naturale che porta scritta nel cuore, e che promuove la sua vita, la sua salute e quelle del prossimo, in senso sia fisico che spirituale. È libero di adeguarsi ad un ordine morale che può riconoscere con la luce dell’intelletto e perseguire con la volontà. È libero di amare la sua e altre persone secondo verità e giustizia. È libero di professare la sua fede religiosa, di credere ad un compimento della sua vita che supera le facoltà naturali attraverso l’intervento della grazia divina. Non è libero, invece, di fare «tutto ciò che vuole» o «tutto ciò che può», se questo si traduce nella violazione del bene (proprio e altrui), ad esempio nell’omicidio, nella menzogna, nel furto, nell’impudicizia.

Questi criteri, difficilmente contestabili sul piano razionale, sembrano svanire di fronte alla grande prova della sofferenza umana. «Può essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di esasperazione, persino di disperazione, provocato da un’esperienza di dolore intenso e prolungato» ( Evangelium Vitae, n. 15). Tuttavia, nei confronti di chi soffre «l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza» ( ibid. , n. 66).

Il punto è che «quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile» ( ibid. , n. 64). Sono ancora parole di Giovanni Paolo II, che ha fatto della sua sofferenza la più grande prova di amore verso Dio e verso l’umanità, ad imitazione di nostro Signore Gesù Cristo. La sofferenza umana, che resta un appuntamento inevitabile nella vita terrena, non può essere fuggita o «risolta» con la morte. Va invece accolta e compresa come parte della condizione umana, e vissuta come occasione per ritrovare o approfondire il senso dell’esistenza umana. Solo in quest’ottica il dolore fisico e la sofferenza interiore possono (e devono) essere combattuti o alleviati senza diventare dei meri «anestetici» alla sofferenza del vuoto esistenziale.

Infine, l’atto eutanasico provoca uno squilibrio nella relazione fra medico e paziente, che risulta necessariamente sbilanciata verso l’uno o verso l’altro, e ultimamente distrugge tale relazione. Nel caso dell’eutanasia volontaria, infatti, la volontà del paziente diventa insindacabile, imponendosi su quella del medico, che diviene un semplice esecutore, uno strumento, un mezzo di realizzazione del proprio intento suicidario. Nell’eutanasia non consensuale, al contrario, è il medico (o qualche volta il tutore legale!) che impone la sua volontà a quella del paziente, il quale non sarebbe mai sicuro di vedere rispettato il suo fondamentale diritto alla vita in condizioni di malattia grave o terminale.

Vale anche la pena osservare che, inesorabilmente, tutte le società che hanno attivato forme di eutanasia volontaria sono scivolate prima o poi in quella non consensuale, e dunque in sistemi ingiustamente discriminatori in cui i più forti, i sani, gli efficienti dominano e prevaricano su chi non lo è, introducendo così gradualmente un principio eugenetico che mina alla radice il senso di un’onesta democrazia e predispone in modo allarmante a nuovi subdoli totalitarismi.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org . La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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