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6 settembre 2004: un’equipe congiunta del Policlinico San Matteo di Pavia e del Policlinico di Milano annuncia lo storico esito di un trapianto di cellule staminali ematopoietiche, ricavate dal cordone ombelicale di due gemelline di quattro mesi, sul fratello di cinque anni malato di beta-talassemia. La notizia è riportata con toni giustamente entusiastici dagli organi di informazione, come un grande successo della medicina e della biologia cellulare nella terapia con le cellule staminali da adulto. Il “Corriere della Sera” del 7 settembre, tuttavia, pubblica un’intervista al biologo molecolare Francesco Fiorentino che rivela l’
origine delle gemelle: sono nate da fecondazione in vitro e successiva selezione embrionale effettuate in Turchia.
Con una tecnica classica della disinformazione, l’attenzione del pubblico viene quindi spostata dalla vera notizia – l’ennesimo successo terapeutico della medicina rigenerativa attraverso le cellule staminali cosiddette “adulte” (ASC) – ad una non-notizia, cioè la fecondazione artificiale con selezione embrionale, magnificando i “benefici” della diagnosi genetica prenatale e della selezione degli embrioni e scatenando un dibattito strumentale sulla modalità con cui sono stati ottenute le gemelle “sane e compatibili”.
Ne è seguita una nuova ondata di propaganda del referendum abrogativo della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita che non consente simili procedure. Tale legge, inoltre, vieta la ricerca sulle cellule staminali embrionali (ESC), che gli oppositori della legge intendono promuovere per ragioni ideologiche glissando sugli scarsissimi risultati fin qui ottenuti dalla distruzione di embrioni.
Come precisato dal professor Franco Locatelli, direttore del reparto di Oncoematologia del San Matteo di Pavia, che ha eseguito l’intervento lo scorso 12 agosto: “Quanto al risultato del trapianto, il fatto che la signora si sia rivolta all’inseminazione artificiale è assolutamente ininfluente” (G. M. Mottola,
Il medico: la coppia ci aveva chiesto di tacere, “Corriere della Sera”, 8 settembre 2004, p. 16).
Vediamo perché. La beta-talassemia, malattia ereditaria del sangue che spesso causa in coloro che ne sono affetti una vita di sofferenze, segnata dalla necessità di periodiche e frequenti trasfusioni, viene curata da tempo, talora in maniera risolutiva, con il trapianto di midollo spinale, tratto in genere da donatore vivente consanguineo per diminuire le probabilità di rigetto.
A tale tecnica, si va affiancando e talora sostituendo il trapianto di cellule staminali, in particolare quelle ricavate da cordone ombelicale, in grado di riparare il sangue malato del talassemico restituendogli la capacità di produrre globuli rossi normali (cfr.
http://www.thalassemia.org). Naturalmente deve darsi la compatibilità fra donatore e ricevente, verificabile attraverso l’analisi del sistema HLA (Human Leukocyte Antigens), identico nel 25% dei casi in parenti stretti come i fratelli o i genitori, ma riscontrabile anche in non consanguinei (cfr.
http://www.fidas.it;
http://www.med.umich.edu).
I risultati brillanti ottenuti con questi trapianti cellulari non rappresentano ormai una novità, ma semmai una conferma di quanto riportato dalla letteratura scientifica a partire dal 1988, anno in cui avvenne il primo trapianto di cellule cordonali (cfr. Gluckman E, Broxmeyer HA, Auerbach AD, et al., Hematopoietic reconstitution in a patient with Fanconi’s anemia by means of umbilical cord blood from an HLA-identical sibling, N Engl J Med. 1989; 321(17):1174-1178).
In questo senso, il caso di Pavia va ad aggiungersi ad un confortante numero di interventi riusciti, con remissione completa di malattie come la talassemia o la leucemia, in cui sono state utilizzate cellule staminali di individui geneticamente imparentati con il paziente talassemico, ad esempio staminali midollari di fratelli maggiori o minori, dei genitori o di altri parenti , oppure staminali cordonali e placentari di fratelli allo stadio fetale o neonatale, o ancora – in rari casi – anche staminali provenienti da banche del cordone ombelicale (cfr. Barker JN, Wagner JE., Umbilical cord blood transplantation: current state of the art, Curr Opin Onc. 2002; 14(2):160-164).
Proprio la possibilità di rinvenire fra molte unità di cordoni ombelicali crioconservati quello o quelli dalle caratteristiche compatibili con quelle del sangue malato, anche se geneticamente non affini, ha indotto diversi paesi ad istituire simili “banche”, come quelle del network italiano “Grace”, facente capo al Centro del Policlinico di Milano, che conta attualmente circa 5.000 unità e presso cui è stato inviato il cordone di una delle gemelline donatrici nel caso di Pavia.
Nello Stato della California è al vaglio dallo scorso anno un progetto di legge per istituire una “banca nazionale” che intende raccogliere 150.000 campioni e porsi come punto di riferimento per tutti coloro che necessitano di questa preziosa risorsa terapeutica (cfr.
Usa. California: progetto di legge per una Banca Nazionale di Cellule Cordonali , “Cellule Staminali. Notiziario quattordicinale, 41, 8 agosto 2003).
A rendere davvero pregevole il trapianto di Pavia è stato il potenziamento delle cellule staminali di uno dei due cordoni, quello che risultava più “povero”, e che per questo era stato inviato da Pavia alla “cell factory” del Policlinico di Milano. In quindici giorni le cellule staminali sono state moltiplicate 60 volte, segnando così una svolta nello sviluppo della medicina rigenerativa e aprendo incoraggianti prospettive per la cura di molti talassemici, anche adulti.
Il problema principale della terapia con le cellule staminali, infatti, risiede nel loro numero esiguo, paragonato alle ingenti quantità di cui occorre disporre per un trapianto efficace. Lo aveva spiegato all’indomani della notizia Ignazio Marino, Direttore del Jefferson Medical College di Philadelphia, al quotidiano “La Repubblica”: “il cordone d’un bambino contiene mediamente 800-900 milioni di cellule che possono essere utilizzate mentre per il trapianto ne servono circa 300-350 milioni per ogni 10 chili di peso corporeo. Ciò significa che la terapia può essere disponibile per pazienti che non superino i 20-30 chili” (I. Marino, Operazione speranza, “La Repubblica”, 7 settembre 2004, p. 24).
Con il procedimento attuato dai medici di Milano e Pavia, invece, sarà possibile espandere in laboratorio la preziosa “materia prima”, espandendo pertanto anche le possibilità di applicazione. Ha commentato il Ministro della Salute, Girolamo Sirchia: “Le cellule staminali sono il futuro della medicina, perché potranno riparare i tessuti danneggiati […] [N]ascerà una nuova farmacologia: non più medicine, ma sostanze cha attivano le cellule riparatrici dei tessuti. Quello che vediamo adesso è forse solo il rozzo inizio di una nuova era” (A. Cremonese, Talassemia, un bambino guarito dalle staminali, “Corriere della Sera”, 7 settembre 2004, p. 8).
E per festeggiare questa vittoria non serve scomodare le cellule staminali embrionali, che, contrariamente a quanto riporta un riquadro illustrativo del citato numero del quotidiano “Corriere della Sera” (7 settembre 2004, p. 8), sono proprie dell’embrione nelle prime fasi del suo sviluppo e non del cordone ombelicale. Le ESC, prelevate dalla massa cellulare interna della blastocisti con esito sempre mortale per l’embrione stesso, sono del tutto indifferenziate, in grado di trasformarsi in qualunque cellula somatica dell’organismo e anche nell’intero indivi
duo (totipotenti). Le cellule staminali “da adulto” invece, si riferiscono a quei depositi di staminali presenti in numerosi organi e tessuti dell’organismo già formato, sia esso un feto, un bambino o un adulto, suscettibili di trasformarsi in numerosi tessuti (cfr. C. Navarini,
Cellule staminali e disinformazione, 18 luglio 2004).
Il successo dell’intervento non dipende quindi dal
modo in cui i cordoni ombelicali che hanno curato il piccolo talassemico sono stati ottenuti, contrariamente alle ingannevoli e martellanti parole d’ordine mediatiche tese a inculcare nel pubblico la convinzione che “grazie alla diagnosi preimpianto, vietata in Italia, è stato possibile salvare una vita” e che “secondo la legge italiana le gemelline sane non sarebbero nate e il fratello malato sarebbe stato condannato alla morte”. Tra l’altro, va da sè che se fosse consentita la diagnosi pre-impianto e la conseguente selezione, non ci sarebbe stato nessun bambino da salvare, perché nemmeno il bambino talassemico, oggi guarito, sarebbe mai nato, così come eugenetica vuole.
Lo stesso risultato, d’altra parte, si sarebbe anche potuto avere con un concepimento naturale, dal momento che, per due genitori portatori sani di talassemia, la probabilità di mettere al mondo un figlio malato è del 25% (ma in questi giorni abbiamo sentito ripetere falsamente che la probabilità sarebbe di generare un bimbo
sano una volta su 5!). I rischi di generare un altro bambino talassemico vi sarebbero indubbiamente stati, come pure quelli di generare un figlio sano ma non compatibile con il primo ma, e questo è il punto davvero cruciale, sono gli stessi rischi che corrono coloro che ricorrono alla provetta. La differenza è che è più “facile e indolore” (per gli adulti!) eliminare embrioni extracorporei che feti nell’utero materno, o bambini già nati…
Infatti, il processo di fecondazione in vitro cui si sono sottoposti in Turchia i due genitori aveva dato origine a
dodici embrioni, tre dei quali sono stati impiantati (uno è stato poi abortito spontaneamente), mentre gli altri
nove sono stati “scartati”. Cioè buttati via, uccisi senza pensieri solo perché malati o magari sani ma non compatibili. Così, si è creata la grottesca e macabra situazione per cui l’intento di salvare un figlio ha richiesto la morte di altri dieci, colpevoli solo di non avere le caratteristiche desiderate.
La fecondazione in vitro e la selezione embrionale non sono le uniche possibilità per chi vuol curare un figlio talassemico. Ma anche se lo fossero, resta vero che la dignità di ogni essere umano in quanto tale dovrebbe farci arrestare di fronte ad ogni arbitraria violazione del diritto inalienabile alla vita altrui. Non c’è dubbio che molti passanti hanno organi che potrebbero salvare molti malati, o che il cannibalismo potrebbe sopperire, nella disperazione, alla scarsità di cibo. Perché allora la nostra coscienza non ci permette simili orrori?
E perché la stessa coscienza non si attiva per gli embrioni? Sfatato dalla scienza ogni possibile dubbio sull’umanità dei concepiti fin dal primo istante di vita, resta solo la gratuita attribuzione di un “minor valore” a questi minuscoli esseri umani, ai quali viene riconosciuto lo statuto di “persone” solo in un indefinito momento ‘x’ del loro – ma è stato anche il nostro! – sviluppo psicofisico, i quali possono essere freddamente calpestati in quanto debolissimi, e per di più per nulla tutelati dalla legge, anzi, da essa sovente condannati.
Infine, i casi pietosi di coppie o donne sterili che invocavano la comprensione delle leggi per poter soddisfare “un legittimo desiderio di maternità” (ne abbiamo uditi tanti negli ultimi anni) stanno già lasciando il posto alle coppie fertili ma “a rischio” di maformazioni o desiderose di ottenere gravidanze “su misura” per rispondere a scopi determinati.
È anche troppo evidente quanto tale mentalità sia foriera delle più devastanti aberrazioni e ingiustizie. L’appello a norme “rigide” per “regolare” il ricorso alla selezione embrionale è semplicemente ridicolo, poiché ad una mentalità vistosamente eugenetica non può che seguire una società profondamente violenta, fondata sul desiderio del più forte, non meno spaventosa se questi indossa un camice bianco invece della camicia bruna.
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]
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